martedì 10 marzo 2009

Censura al “Corriere” e altri yesmen







di
Carlo Vulpio

(Giornalista)






da Micromega di gennaio/febbraio 2009 e da www.carlovulpio.it


La nuova Tangentopoli è peggio di quella del ‘92: è più semplice e più raffinata nei meccanismi, è più remunerativa e più perfetta. Ed è per questo che è molto più difficile raccontarla su giornali e tv. E quando qualcuno ci prova, viene “sollevato” dall’incarico. Storia di una censura al Corriere della Sera. E della metastasi degli yesmen tra giornalisti e magistrati.


Non ci sono martiri, né eroi in questa storia.

E non c’è nemmeno un Humphrey Bogart che dica: “E’ la stampa, bellezza”.

Ci sono soltanto giornali e giornalisti. Fatti della vita, che spesso sono fatti scandalosi, e modi diversi di raccontarli. Poteri forti e uomini deboli.

Come forse qualcuno già sa, per il mio giornale, il Corriere della Sera, mi sono occupato per quasi due anni delle inchieste Poseidone, Why Not e Toghe Lucane dell’ex pm di Catanzaro, Luigi de Magistris, e delle disavventure, chiamiamole così, di Clementina Forleo, da quando l’ex gip di Milano ha cominciato a occuparsi delle scalate bancarie illegali Unipol-Bnl-Antoveneta-Rcs.

Su queste cose, e su altre molto simili, ho scritto anche un libro, “Roba Nostra” (il Saggiatore), in cui si narra di una Nuova Tangentopoli italiana: il primo punto fermo sul quale si basa questa riflessione.

Molti, a destra e a sinistra, naturalmente interessati a smontare sia il contenuto di queste inchieste, senza conoscerle né discuterle, sia l’idea stessa che possa esserci una Nuova Tangentopoli hanno di volta in volta cercato di liquidare le une e l’altra.

Come un rigurgito di giustizialismo, come l’irresistibile mania di protagonismo dei soliti magistrati in cerca di autore, o come l’insopprimibile desiderio di riattivare quel circolo (definito sarcasticamente anche circo) mediatico-giudiziario che porta certe notizie fin sui giornali (ma guarda un po’).

Insomma, tutto l’armamentario propagandistico che di fronte a un problema serio sposta sempre il problema un po’ più in là per parlar d’altro e rovesciare le parti.

Così il problema, il “caso”, per tornare a noi, sono diventati de Magistris e Forleo.

Sapete tutti com’è andata a finire. Forleo e de Magistris trasferiti con motivazioni risibili, pretestuose, addirittura inesistenti e le loro inchieste fatte a pezzi.

Anche se alcuni mesi dopo la loro defenestrazione e l’uscita di “Roba Nostra” sono stati in molti, a destra e a sinistra, a riconoscere come stanno realmente le cose.

Due persone, in modo particolare. L’ex presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, e Primo Greganti, sì, proprio l’uomo del “conto Gabbietta” e delle tangenti rosse. Entrambi, Ciampi e Greganti, hanno detto la stessa cosa: oggi non è “come”, ma è “peggio” di Tangentopoli ‘92.

Se la nuova Tangentopoli è più grave della vecchia, allora si capisce meglio perché scriverne e parlarne in tv e sui giornali è cosa molto, molto più difficile di quanto non lo fosse nel ‘92.

E non solo perché è cambiata l’aria, o perché ci sono dentro tutti (anche allora c’erano dentro tutti, ma alcuni hanno pagato e altri no), quanto perché questa Tangentopoli è davvero “nuova”: innanzi tutto è, al tempo stesso, più semplice e più raffinata nei meccanismi; poi, è più remunerativa e più nascosta; infine è di una trasversalità perfetta, in alcuni casi sembra studiata a tavolino affinché i suoi protagonisti “simul stabunt, simul cadent”.

Per questa ragione, nessuno di noi (pochi) giornalisti che avevamo deciso di scrivere ciò che sapevamo si è mai illuso che il giorno dopo avrebbe continuato a scrivere sull’argomento.

In questi ultimi due anni però, bene o male, ci siamo riusciti. Con prezzi alti, in termini di costi umani e professionali, ma ci siamo riusciti.

Abbiamo scritto di questa Nuova Tangentopoli nonostante non operassimo in “pool”, come facevano i cronisti ai tempi di Mani Pulite, ma fossimo altrettanti cercatori di notizie “maledetti e solitari”.

E nonostante tutti quei “colleghi” che, pur avendo le nostre stesse notizie, sceglievano di non pubblicarle, di non battersi all’interno dei rispettivi giornali per pubblicarle, o addirittura facessero a gara per “smentire” quelle notizie prima ancora di venirne a conoscenza e di verificarle.

Per questa “presenza” del Corriere della Sera sulle inchieste più delicate del Paese, nell’estate del 2007, i magistrati di Matera indagati in Toghe Lucane mi hanno accusato (assieme ad altri quattro giornalisti e a un capitano dei carabinieri) di “associazione a delinquere finalizzata alla diffamazione a mezzo stampa”, un reato inedito e delirante, per il quale sono ancora indagato.

Le indagini a nostro carico sono state prorogate quattro volte.

Ma per questa vicenda nessuna presa di posizione “garantista” da parte dei commentatori un tanto al chilo della “libera stampa”.

Per questa vergogna, nemmeno un decimo dell’attenzione riservata da stampa e tv per le proroghe d’indagine, naturalmente subito condannate, decise nelle vicende abruzzesi, campane, toscane, in cui sono indagati politici e imprenditori, cioè i principali protagonisti di ogni tangentopoli che si rispetti.

Con l’imputazione di “associazione a delinquere eccetera”, i magistrati di Matera mi hanno intercettato e hanno ascoltato tutto ciò che dicevo con i miei colleghi e con il mio direttore, e hanno intercettato – meglio sarebbe dire: spiato –, anche l’ufficiale dei carabinieri e il pm de Magistris che parlavano delle indagini su quei magistrati indagati. I quali si sono trasformati d’autorità in indagatori dei loro indagatori (una vera e propria anticipazione, quasi un esperimento, di quanto avverrà a dicembre 2008, nella cosiddetta “guerra” tra le procure di Salerno e Catanzaro).

Quando accadde tutto questo, che se non è un vero e proprio golpe giudiziario molto vi somiglia, tra i pochi a capire cosa stesse succedendo e cosa ci stessero combinando – come giornale e come informazione libera, intendo –, fu proprio Paolo Mieli.

L’ho scritto anche in “Roba Nostra”, in un momento non sospetto. Quindi il valore di questa testimonianza è doppio.

Mi disse Mieli: “La cosa più grave, più terribile che possano fare a uno di noi, a un giornalista, è questa. Intercettarlo e metterlo sotto controllo in questo modo. Dopo di che, possono solo sparargli”.

Io lamentai il silenzio degli altri giornalisti. Ma capii che anche il direttore del mio giornale era sotto tiro e sotto pressione come me, a causa di quelle inchieste raccontate dal Corriere, e uscii dalla sua stanza forte di una convinzione: che “l’intesa” con un direttore che rischiava di suo facendomi scrivere certe cose valesse molto di più di scontate dichiarazioni di solidarietà dei “colleghi” e della “categoria” (che in ogni caso non ci sono state).

Insomma, la migliore dimostrazione che non fossi solo e che non rischiassi l’isolamento era nel fatto che i miei articoli su quelle vicende, che ormai erano diventate il più grave scandalo giudiziario dal dopoguerra, potessero continuare a essere pubblicati.

Invece, il 3 dicembre scorso, dopo un mio articolo ricco di nomi eccellenti sulle perquisizioni e sui sequestri ordinati dai magistrati di Salerno nei confronti dei magistrati di Catanzaro, sono stato improvvisamente “rimosso” da quel servizio.

Stop. Basta. Senz’alcuna motivazione.

E da quel momento non posso più scrivere di Salerno, Catanzaro, Poseidone, Why Not, Toghe Lucane.

Ma come, lo stesso Mieli che fino a quel momento si era fatto “garante” della mia libertà e quindi della mia incolumità, proprio lui dice basta? Articoli fatti male? Tutt’altro. Qualche grave “scivolone” su un fatto, su una circostanza di rilievo, su un dettaglio? Nemmeno.

Dopo, molti giorni dopo, nel mio giornale circolerà voce che ero stato rimosso perché ero “indagato”. Un tentativo debole di dare una motivazione alla mia rimozione.

Ma anche un tentativo maldestro, perché non specificava che ero, e sono, indagato per quella acrobazia giuridica definita “associazione a delinquere finalizzata alla diffamazione a mezzo stampa”, elaborata strumentalmente dalla procura di Matera. Avrebbe dovuto scattare come un sol uomo, la “categoria”, di fronte a un fatto così grave e così palesemente fuori dalle regole del diritto. Per difendere me, ma soprattutto per difendere il principio di libertà e indipendenza dell’informazione. E invece eccola pronta a farne un motivo di autogiustificazione della propria condotta.

Ma poi, cosa c’entra Matera con la cosiddetta “guerra” tra le procure di Salerno e Catanzaro, che stavo seguendo?

E in ogni caso, cosa c’entra accampare questa motivazione balorda basata su una figura di reato balorda, a sua volta basata sull’assenza di qualsivoglia processo o sentenza che abbia definito diffamatori i miei articoli?

Articoli che, al contrario, in questi due anni hanno trovato via via conferma negli sviluppi delle indagini. Articoli che in diversi casi sono stati inchieste giornalistiche dalle quali – dopo – sono scaturite inchieste giudiziarie.

Ancora. Si può davvero credere che siccome un giornalista viene querelato da un cittadino, o peggio da un indagato, debba per ciò stesso smettere di occuparsi dei fatti che coinvolgono quel cittadino o quell’indagato?

Se siamo a questo punto, allora chiunque (ma già siamo su questa strada) userebbe la querela (e ormai anche la citazione al risarcimento danni) proprio per centrare l’obiettivo di togliersi (o far togliere) dai piedi il giornalista “indesiderato”.

Come del resto è stato fatto per il pm Luigi de Magistris, quando ha iscritto tra gli indagati Clemente Mastella.

Qual è stata l’abnormità logica, prima che giuridica, concepita in quel caso per trasferire de Magistris? Si è detto: un pm che indaghi sul ministro si mette in una posizione di conflitto di interessi con il ministro indagato …

Ne consegue, quindi, che non si può indagare un ministro (nemmeno quando quel ministro, come nel caso di Mastella, era indagato per fatti risalenti al periodo in cui era senatore). Ma per favore!

La verità è che io dovevo smettere di occuparmi di ciò che avevo seguito per due anni per una ragione molto semplice. Una ragione che trascende i direttori di testata. In Italia, poi, li sopravanza di parecchie lunghezze, non c’è gara.

Ed è la ragione della forza.

La forza dei poteri forti, che si sono sentiti in pericolo per le inchieste di magistrati che svolgevano il proprio compito di servitori dello Stato senza accucciarsi sotto l’ala protettiva dei politici e dei magistrati come loro. Ma, al contrario, hanno messo sotto accusa proprio i magistrati, come mai era stato fatto prima, facendo emergere un dato sconvolgente, che nessun procedimento disciplinare e nessun trasferimento potranno mai fiaccare.

Questa storia, che non ha martiri e non ha eroi, è, pensateci bene, anche una storia di trasferimenti decisi da altrettanti poteri forti: la magistratura ha trasferito Forleo da Milano a Cremona e de Magistris da Catanzaro a Napoli, il Vaticano ha fatto cambiare aria al vescovo di Locri, monsignor Giancarlo Bregantini, mandandolo a Campobasso, l’Arma dei carabinieri ha trasferito nelle Marche il capitano Pasquale Zacheo, braccio destro di de Magistris in Basilicata, la procura generale di Catanzaro (quella che secondo i magistrati di Salerno ha avocato illegittimamente l’inchiesta Why Not) ha sollevato dall’incarico il consulente informatico del pm de Magistris, Gioacchino Genchi.

Mancava un giornalista. E’ toccato a me.

I poteri forti, dicevamo. Tra questi, vi è senz’altro la magistratura.

Ma cosa fa paura davvero in tutta questa storia? Qual è la novità indicibile?

Eccola. Partendo dalla Calabria e dalla Lucania, su su per l’Italia intera, stava venendo fuori ciò che in fondo tutti pensavano ma non osavano confessare nemmeno a se stessi.

E cioè che non c’è mafia e non c’è tangentopoli e non c’è corruzione e non c’è sistema di malaffare che regga e prosperi, come purtroppo accade in Italia, se non ci sono interi pezzi di magistratura, soprattutto ai livelli direttivi, che garantiscono e coprono questo sistema di nefandezze e in moltissimi casi vi partecipano a pieno titolo.

E’ stata la prima volta che un potere forte come la magistratura si è trovata a doversi confrontare non con il problema di alcune “mele marce” al suo interno, ma con una realtà ben più estesa e radicata, che minacciava, partendo da Toghe Lucane, di provocare uno sconquassante effetto domino per “il sistema”.

Ecco dunque spiegata la corsa del ceto politico – ma non era l’avversario “storico” della magistratura? – a difendere i magistrati inquisiti per reati gravissimi e a garantirli nei loro posti e nelle loro funzioni. Mentre, insieme con il Csm e l’Anm, preparava il rogo per tutti i magistrati liberi, appassionati al loro lavoro, pronti a fare il proprio dovere, impartendo così una durissima lezione, che fosse d’esempio per tutti gli altri, ai due giudici “senza partito”, le pietre dello scandalo Clementina Forleo e Luigi de Magistris.

Il potere forte “magistratura”, per esempio, prima ancora che il potere forte “politica”, non gradisce che si dica, e infatti non lo dice nessuno, che nel Palazzo di giustizia di Milano è rimasta chiusa nei cassetti per due mesi la risposta della giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato riguardante l’iscrizione del senatore Nicola Latorre sul registro degli indagati (sempre per la vicenda delle scalate bancarie).

Siamo nella primavera-estate 2008. Il caso doveva essere trattato dal giudice competente, che era ancora il gip Clementina Forleo.

Invece le carte, regolarmente trasmesse dal Senato il 29 maggio al presidente del tribunale di Milano, Livia Pomodoro, sono state tenute letteralmente nascoste negli uffici del Palazzo di giustizia fino al 29 luglio.

Fino a quando cioè la Forleo, per un piccolo incidente domestico, ha dovuto ricorrere a qualche giorno di congedo per malattia.

Appena la Forleo va in malattia, con la motivazione della “urgenza a provvedere” (l’urgenza? due mesi dopo?) le carte vengono tirate fuori e assegnate ad altro gip, Pietro Gamacchio.

Il quale “in tempo reale” studia un processo complesso, che non conosce, e il primo agosto (il giorno prima del rientro della Forleo) rinnova la richiesta di autorizzazione all’iscrizione del parlamentare nel registro degli indagati.

Dov’è l’inghippo? Nel fatto che a quel punto la procura di Milano poteva tranquillamente iscrivere Latorre nel registro degli indagati (e così D’Alema e gli altri parlamentari, perché la Camera dei deputati aveva già dato il nulla osta, affermando che non era necessaria l’autorizzazione del Parlamento).

Ma non lo ha fatto.

Grazie al gip Gamacchio. Infatti, in un caso del genere, dice la legge, il giudice “può” (può, non deve) rinnovare la richiesta di autorizzazione.

Se Gamacchio non avesse fatto ciò che con ogni probabilità non avrebbe fatto la Forleo (qualora le avessero trasmesso gli atti che le spettava avere), a quest’ora le cose starebbero diversamente.

Non ci sarebbero state tutte le danze inutili tra Roma e Strasburgo, tra parlamento italiano ed europeo, e Latorre, D’Alema e gli altri telefonisti, a loro garanzia si capisce, come per ogni altro cittadino, risulterebbero iscritti nel registro degli indagati.

Ma questo, in Italia, non si può dire. Non si può dire che il “caimano” Berlusconi, bene o male, nelle aule di giustizia ci è entrato (giustamente) affinché alcuni processi a suo carico fossero celebrati. Mentre per il “caimano” D’Alema (e compagni) non ci può essere nemmeno la semplice iscrizione in un registro degli indagati.

Ognuno a questo punto tragga le conclusioni che vuole, anche quelli ancora convinti che la logica del “meno peggio” sia opportuna o necessaria. Per la cronaca, resta l’esito finale: Forleo trasferita e Gamacchio promosso a presidente di sezione.

Queste cose, per chi volesse conoscerne tutti i passaggi e i dettagli, sono state da me già scritte in una nota (“Su Forleo e de Magistris è calato il silenzio totale”) pubblicata non sul giornale per il quale lavoro, bensì sul blog del giudice Felice Lima, “Uguale per tutti”.

Quella nota è stata poi ripresa da “Dagospia” e ora è anche sul mio blog, carlovulpio.it.

“Ne dobbiamo scrivere in rete, quasi fossimo esuli o clandestini”, così concludevo quella ricostruzione, che in qualunque altro Paese “a democrazia occidentale” avrebbe trovato almeno un giornale o una tv disposti a parlarne.

Forse adesso si comprende meglio perché non è il 3 dicembre, non è la mia “rimozione” dai fatti di Catanzaro il cuore del problema.

Quell’episodio è solo l’acme di una patologia. Di un sistema malato. In cui vi sono poteri forti non controllati né temperati da necessari contrappesi, tra i quali – essenziale, vitale – l’informazione. Che invece è fatta da “uomini deboli”, i giornalisti, una categoria che non c’è.

Per i giornalisti, o per la maggior parte di loro, l’idea che l’informazione sia prima di tutto un mezzo per difendere e garantire la democrazia è un’idea superata, o peggio, inservibile per far carriera e per scalare posizioni di potere.

Se non fosse così, se fosse vero il contrario, non sarebbe passata sotto silenzio la intimidazione messa in atto da magistrati inquisiti che intercettano un intero giornale per sapere come ragionano i suoi giornalisti e per conoscere in anticipo cosa pubblicheranno.

Se non fosse così, quei magistrati inquisiti e coloro che li hanno sostenuti, a tutti i livelli istituzionali, si sarebbero ben guardati dall’attuare l’azione eversiva di spiare i magistrati che indagano su di loro.

Su questo, non c’è stata ancora una sola procura della Repubblica che abbia aperto un’inchiesta.

Mentre il sistema dell’informazione si è ben guardato dal trattare l’argomento.

Ma il silenziatore non ha funzionato. Non può più funzionare. Perché c’è un mondo reale, ormai, fatto di persone reali, che utilizzano lo strumento virtuale della Rete e che si parlano, si informano, si confrontano. E’ molto difficile ingannarle.

E infatti, che questa mia “rimozione” dal “caso Catanzaro” non fosse solo un deprecabile episodio, ma il sintomo di una malattia ben più grave, che va ben oltre la mia persona e il mio lavoro, lo hanno capito subito qualche milione di frequentatori della Rete. Associazioni, singoli individui, blog noti come quelli di Beppe Grillo e di MicroMega, o meno noti (elencarli tutti non si può), e finanche un migliaio di giornalisti (ebbene sì, ce ne sono ancora) che hanno firmato un documento senza sbavature “corporativistiche”.

Tutto questo ha un valore ancora più grande se pensiamo che negli altri Paesi occidentali, a cominciare dagli Stati Uniti, esiste una più o meno profonda convinzione che la stampa debba essere libera e indipendente. Mentre in Italia libertà di espressione e di informazione (sia come diritto a informare, sia come diritto a essere informati) sono ormai considerati beni di lusso, o armi improprie. O entrambe le cose.

E quindi vanno tenute sotto controllo.

Ecco, appunto, il controllo. Come si fa a controllare, a purgare, a troncare e a sopire, a narcotizzare, a seppellire? E qual è la “linea rossa” oltre la quale scatta il controllo e, zac, la tagliola si chiude?

Rispondere a queste domande sembra facile.

Si dirà: ci sono tanti modi per modificare un articolo, o per censurarne le parti più scomode.

Si potrebbe cominciare da quel “taglia e cuci” praticato all’insaputa dell’autore da tempo immemore in tutte le redazioni, magari in nome della esiguità dello spazio, e si potrebbe finire con il pressing e con le “raccomandazioni” di un caporedattore, o di un membro della direzione, o del direttore in persona: raccomandazioni che in certi casi sono più cogenti di quelle emanate dalla Unione europea …

Ma tagliare brutalmente un articolo è ormai considerato un modo primitivo di raggiungere l’obiettivo.

Mentre il pressing e la “raccomandazione”, oltre a scoprire i giochi, possono creare antipatici incidenti diplomatici.

E allora come si fa? Non si fa.

Siamo in una nuova era, ormai. Nella quale, l’Uomo Nuovo – immaginiamolo come la creatura di Aldous Huxley trasferita in tutti i mezzi di comunicazione di massa – è uno Yes Man perfetto.

Ecco, i giornalisti oggi sembrano dei replicanti, altrettanti Yes Men pronti a ubbidire.

Ma la grandezza di questa ultima fase dell’evoluzione della specie è nel fatto che costoro ubbidiscono senza nemmeno attendere gli ordini.

Che, attenzione, non sono sempre e necessariamente gli ordini di un Altro.

Sono, ormai, gli ordini che lo Yes Man ha imparato a impartire a se stesso.

Se non lo facesse si sentirebbe perduto.

Oltre ogni autocensura, dunque, che pure si pensava fosse il massimo stadio del controllo della stampa “libera”.

Poteri forti e uomini deboli, affinché il controllo totale delle notizie e delle loro chiavi di lettura sia sempre più efficace.

La perfezione però si raggiunge quando il controllo si evolve in riflesso condizionato. La tomba di ogni senso critico. I cani di Pavlov.

Se invece il meccanismo dell’autoimposizione non dovesse funzionare per una ragione qualsiasi, scatta il sistema d’allarme tradizionale.

La catena di sant’Antonio delle telefonate. Da un giornalista all’altro, come dal brigadiere al maresciallo al colonnello, fino al generale e oltre.

E naturalmente anche in senso contrario, poiché non si telefona mica soltanto “dal” giornale (o dalla tv).

Si telefona anche “al” giornale (o alla tv). E le telefonate da un Palazzo all’altro non sono mica soltanto chiamate urbane, è ovvio.

“E’ la stampa, bellezza”.

Sollevarne uno per far sentire sollevati tutti gli altri. Ma non dura, vedrete.


13 commenti:

Anonimo ha detto...

http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=50002&sez=HOME_INITALIA

oggi 10 marzo, dopo l'intervista di De Magistris a Klauscondicio, si scatenano le forze politiche contro di lui e Genchi ( si vedano le deliranti dichiarazioni di qaulche senatore che ancora una volta invita i vertici del CSM e della polizia a fare epurazioni sommarie).

In questa brutta storia nulla e' piu' una coincidenza e tocchera' alzare la guardia, prima che il piano di rinascita di gelliana memoria sia totalmente realizzato.

Occorre far circolare le notizie, anche il bellissimo intervento di De Magistris, ormai libero di parlare, nell'incontro di Firenze.

bartolo ha detto...

Io direi di invitare l'Europa a proporre, in via d'urgenza, all'Onu, di nominare de Magistris patrimonio dell'Umanità!!!
"...che hanno dato molto fastidio agli indagati di questi procedimenti. Che si tratta in particolare degli accertamenti bancari, accertamenti patrimoniali. Traffico dei flussi telematici e delle tracce, degli incroci telefonici, le sommarie informazioni testimoniali, l'esame dei documenti. Le indagini tradizionali». Sul destino delle sue indagini, De Magistris dice: «La mia testimonianza, i miei documenti, il mio sapere doveroso l'ho consegnato all'Autorità giudiziaria di Salerno. Prendo atto che sono stati fermati i magistrati che stavano conducendo questa indagine».
Per 17 anni non riuscivo a spiegarmi come fosse possibile che i criminali governassero la mia Regione ad ogni livello di pubblica amministrazione ed enti locali e territoriali. Solo grazie ad un Uomo onesto ho potuto capire che ciò è stato possibile grazie alla copertura che gli derivava dalle procure della repubblica delle cinque province calabresi!
MISERABILI!!!

Anonimo ha detto...

"ora, quando si saprà, o,meglio, si dirà, tutta intera la verità del potere di questi anni, sarà chiara anche la follia dei commentatori politici italiani e delle èlites colte italiane. E quindi la loro OMERTA'"

Pier Paolo Pasolini, da Lettere Luterane, articolo pubblicato ne il Mondo, 28 agosto 1975

Irene

salvatore d'urso ha detto...

Bellissimo l'articolo di Carlo Vulpio...

Cose che in generale bene o male abbiamo cominciato a sapere un pò tutti... frequentando la rete... ma leggere tali denunce e tali particolari è come scoprire tali schifezze per la prima volta...

Carlo siamo con te...

Chissà se l'idea di fare un manifesto di questo articolo e affiggerlo in tutte le città d'Italia potrebbe servire a qualcosa...

Forse potrei tentare al paese mio... Ne discuterò con il mio gruppo...

salvatore d'urso ha detto...

Roma, 11:27

STUPRI: PALAMARA (ANM), INCHIESTA CAFFARELLA INSEGNA
'L'inchiesta sullo stupro alla Caffarella insegna molte cose. Insegna quelli che devono essere i rapporti tra pubblico ministero e polizia giudiziaria, insegna come e' difficile svolgere la fase di valutazione della prova'. Lo ha detto il presidente dell'Anm Luca Palamara intervenendo alla trasmissione '24 Mattino' su Radio 24. Il magistrato ha commentato anche la possibilita' che Luigi de Magistris possa entrare in politica: 'Sono scelte personali, ognuno si assume le proprie responsabilita' e fa quello che meglio crede per le sue aspirazioni e professionalita''. Il presidente dell'Anm e' poi tornato sul tema delle intercettazioni: 'Noi difendiamo l'uso dello strumento - ha detto -. Le intercettazioni sono fondamentali per accertare i reati e i primi a non tollerare gli abusi siamo noi. Il nodo irrisolto e' quello della pubblicazione del materiale rilevante, su questo dovrebbe concentrarsi la politica, senza limitare lo strumento in se'. Noi suggerimmo a questo proposito una sorta di udienza stralcio in cui, in presenza di un giudice, accusa e difesa discutono del materiale rilevante delle indagini. Cio' che e' irrilevante viene messo in un archivio segreto. Ma spesso sul tema c'e' confusione - ha concluso Palamara -. Tanto per nascondersi dietro un dito, le intercettazioni Berlusconi-Sacca' non erano atti segreti perche' era gia' stato fatto l'avviso della conclusione delle indagini preliminari'".

io che speravo che :( ha detto...

Non ho tempo - purtroppo - per contribuire anche solo con un commento a quanto scritto dal giornalista Carlo Vulpio.
E del resto sarebbe assai difficile aggiungere anche una sola riga, un solo spunto di riflessione al contenuto dello splendido scritto di cui al post.
Spero che nel leggerlo ci sia ancora qualcuno che riesca ad immedesimarsi e ad indignarsi, ma non per le conseguenze occorse a Vulpio per la sua velleitaria idea di fare davvero informazione, ma per le cause di tali conseguenze.
Siamo un paese ormai alla frutta, ed il marcio che proviene dai poteri forti, che molti giornalisti fino ad oggi ci hanno fatto credere volessero azzittire la magistratura, prolifera proprio all'interno di questa.
E’ parimenti esecrabile un politico che si fa dare una mazzetta ed un imprenditore che gliela allunga.
Ma un magistrato al soldo del politico e dell'imprenditore consente lui, con la propria adesione ed asseverazione dello schema, la sistematicizzazione dello stesso.
In una famiglia si cumulano in capo ai genitori i ruoli di chi impartisce le regole e di chi le fa rispettare.
Se all'interno della stessa famiglia un genitore impone una regola di condotta e pretende che il figlio la rispetti, e poi l'altro genitore non sanziona in nessun modo il comportamento del figlio che da quella regola si discosta, è di tutta evidenza che il ruolo del genitore legiferante viene del tutto svilito dalla latitanza di quello giudicante.
Nella società è la stessa cosa.
Continuiamo ad infarcire il nostro quotidiano di regole sempre più stressanti e vincolanti, senza che nessuno ne avverta la cogenza. Una volta introdotta la regola non se ne coglie la precettività, ma solo la pericolosità. Nessuno si pone rispetto alla regola in posizione di osservanza, anche perchè francamente vivere nel rispetto assoluto di tutte le astruse regole della nostra insulsa democrazia sarebbe impresa ardua se non impossibile: pensate solo per un attimo a cosa accadrebbe alla circolazione che tutti gli automobilisti rispettassero realmente gli assurdi limiti imposti in tratti stradali in cui neanche in bici si riuscirebbe a rispettarli. E’ un esempio ma potrei farne mille.
Una volta ricondotta la regola non a norma di condotta, ma a pericolo da scansare, il risultato che ne viene fuori è quello di una società che fa della sistematica violazione delle sue stesse regole un modus vivendi.
In un risalente scritto, encomiabilissimo del Dott. Lima, questi faceva riferimento al relativismo degli imperativi etici, e chiariva come gli stessi non potessero essere rispettati in forma condizionale, tipo: pagherei le tasse se tutti lo facessero; oppure rispetterei i limiti, se avessero un senso.
Concordo pienamente col Dott. Lima sulla assolutezza degli imperativi etici, ma il problema di oggi è dato proprio nella formazione della coscienza etica.
Qual'è l'etica del 2010.
Quali sono davvero gli imperativi etici dei nostri anni?
Se siamo arrivati al punto che nessuno avverte più l'esistenza di imperativi etici, neanche nei dogmi della religione, da dove dobbiamo cominciare nel processo di individuazione delle cause?
Da chi detta regole astruse? O da chi consente attraverso ipocrisie logiche e alchimismi giuridici che non vengano rispettate neanche QUELLE che invece non sono affatto cervellotiche?
Per quale motivo un cittadino dovrebbe ricercare l'esemplarità del proprio vivere sociale, se questa esemplarità viene coniugata a singhiozzo dal legislatore ed applicata strabicamente dai giudici?
Vulpio ha perfettamente ragione in ogni sua parola, soprattutto nell'orientare l'indice nei confronti di certa magistratura!
Internet consente di avere contezza e consapevolezza del contenuto di certe sentenze. Da un po’ di tempo sembra non sentirsi più dire in giro una delle affermazioni più stupide che si siano mai formate nella storia: “le sentenze non si commentano, si rispettano”.
Sarò pure un anarchico se credete, ma il mio istinto mi porta sempre a ribellarmi alle storture, siano esse contenute in leggi, siano esse contenute in sentenze: chiunque ne sia l’autore.
Mi chiedo poi: chi dovrebbe occuparsi dei fatti denunciati da Vulpio?
La magistratura?
NO! Ma vogliamo scherzare? Vi prego non andate a raccontare in giro che Vulpio dovrebbe rivolgersi per la tutela dei suoi diritti nelle sedi competenti.
Avete visto quel che si sono inventati a Matera?
Qualcuno ha ritenuto di dovere informare il CSM in merito alla linearità del comportamento dei giudici di Matera? E se pure il CSM fosse stato informato, cosa avrebbe fatto?
Salerno / Catanzaro, la vendetta?
Non a caso il Dott. Vulpio non invoca l’intervento della magistratura, ma rivolge le sue sollecitazioni ai colleghi. Ai giornalisti perché informino la gente.
Siamo arrivati a questo. Anche le persone culturalmente più evolute sanno bene che rivolgersi alle sedi competenti, ha lo stesso effetto e lo stesso risalto che potrebbe avere un post sul blog di Beppe Grillo. E’ facile insabbiare un fatto quando questo non emerge dal contesto generale. Vulpio è uguale a mille altre situazioni altrettanto gravi nascoste nei cassetti delle procure o in fascicoli impolverati ed ammucchiati in qualche stanza di qualche GIP in attesa che qualcuno si ricordi di dovere provvedere alla archiviazione, perché è intervenuta prescrizione prima ancora che sia siano aperte le indagini.
Tra pochi giorni ci sarà un convegno, una manifestazione, a Firenze. magari saranno presenti 1.000 persone. Servirà a qualcosa? E gli altri 30 milioni di italiani che hanno diritto al voto chi li informa?
Se almeno qui non ci limitassimo a leggere!! Anche un piccolo segno, un solo: “ho letto, mamma mia che schifezza …”, almeno si saprebbe che il morto è in buona salute

siu ha detto...

L'articolo, importante, di Carlo Vulpio credo sia l'ennesima e articolata conferma di quel che si sa, e si vede benissimo ormai da un pezzo, sempre che non si sia optato per una spessa benda sugli occhi: che la messa a punto del sistema è arrivata ad un livello tale da permettergli di autoregolarsi.
Non solo di esplosivi, non c'è più bisogno. Neanche di ordini di servizio.
Qualche vecchio romanzo di fantascienza aveva probabilmente ipotizzato meccanismi d'introiezione degli scopi del potere tali da permettere al potente di turno di tirare un po' il fiato, anzichè doversi sempre arrabattare, sudando, per esercitarlo. Sospetto però che anche il più immaginifico non arrivasse ad ipotizzare quelle che sono le attuali modalità e i reali livelli di funzionamento del sistema congegnato -lustrini e paillettes compresi- nel nostro Paese.
C'era sempre, da qualche parte, parlo di quei fantasiosi incubi psico-totalitari, un punto debole.
Vorrei credere che nella frase di Carlo Vulpio "Ma non dura, vedrete." sia racchiusa una possibile e concreta speranza che un punto debole ci sia, da qualche parte, anche oggi, in questa Italia. Forse, che non riesca, comunque, a piacere proprio a tutti tutti, può essere un punto di partenza, o il fulcro di qualche leva.
C'è però anche un altro tema, che Vulpio nel suo articolo mette secondo me opportunamente in evidenza, ed è quello che si potrebbe riassumere con: FARE BENE IL PROPRIO MESTIERE.
Credo che non ci sarebbe bisogno di altro.
Se, non dico ognuno, ma almeno la maggior parte di chi è in grado di farlo, avesse semplicemente continuato, o cominciato, a fare bene il proprio mestiere, sono convinta che saremmo ancora una democrazia sostanziale. Uno Stato in cui vigono la separazone dei Poteri e la legalità. Uno Stato, nei cui tribunali le parole "La legge è uguale per tutti" non sono seguite, come pare vedano solo i comici, da un punto di domanda, e dalla risposta "No".
Superfluo dire che fare bene il proprio mestiere dovrebbe essere caratteristica soprattutto degl'impiegati nella pubblica amministrazione, dei magistrati e, vivaddìo, dei giornalisti, a mio avviso forse i più squalificati fra tutti.
(E dopo i fatti di Genova non ho ancora smesso di chiedermi cosa sono, o sono diventate, e cosa dovrebbero essere, le forze dell'ordine).
Comunque, pure ad un imprenditore non dovrebbe essere impossibile dimostrare che far bene il proprio mestiere corrisponde (anche) ad una certa rettitudine.
E come non pensare ai professionisti: all'esempio dell'avvocato Ambrosoli, e più di recente a quello del commercialista di un altro avvocato di nome David Mills.
A quel punto, tra l'altro, come per incanto, non contano più neanche le appartenenze politiche; penso ancora ad Ambrosoli, e a Paolo Borsellino... Conta solo la dignità, virtuosa, degli uomini.
Che automaticamente si trasfonde nello Stato cui appartengono.
Azzarderei perfino l'ipotesi che se ognuno semplicemente facesse bene il proprio mestiere forse anche quegl'imperativi etici -ai quali personalmente attribuisco la stessa, assoluta importanza che vi attribuiscono Felice Lima e "Io che speravo che :("- si dimostrerebbero in buona parte realizzati, probabilmente senza neanche il bisogno di essere evocati esplicitamente.
Certo è, che se qualche politico in più ne facesse il motivo della sua attività, già staremmo meglio...
Nient'altro che sogni, comunque, oggi.

Anonimo ha detto...

Martin Luther King: "I Have a Dream" (Io ho un sogno)

Discorso pronunciato a Washington il 28 agosto 1963


... Non ho dimenticato che alcuni di voi sono giunti qui dopo enormi prove e tribolazioni. Alcuni di voi sono venuti appena usciti dalle anguste celle di un carcere. Alcuni di voi sono venuti da zone in cui la domanda di libertà ci ha lasciato percossi dalle tempeste della persecuzione e intontiti dalle raffiche della brutalità della polizia. Siete voi i veterani della sofferenza creativa. Continuate ad operare con la certezza che la sofferenza immeritata è redentrice.

Ritornate nel Mississippi; ritornate in Alabama; ritornate nel South Carolina; ritornate in Georgia; ritornate in Louisiana; ritornate ai vostri quartieri e ai ghetti delle città del Nord, sapendo che in qualche modo questa situazione può cambiare, e cambierà. Non lasciamoci sprofondare nella valle della disperazione.

E perciò, amici miei, vi dico che, anche se dovrete affrontare le asperità di oggi e di domani, io ho un sogno. E' un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali.

Io ho un sogno, che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schiavi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza.

Io ho un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo dell'arroganza dell'ingiustizia, colmo dell'arroganza dell'oppressione, si trasformerà in un'oasi di libertà e giustizia.

Io ho un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho un sogno, oggi!.

Io ho un sogno, che un giorno ogni valle sarà esaltata, ogni collina e ogni montagna saranno umiliate, i luoghi scabri saranno fatti piani e i luoghi tortuosi raddrizzati e la gloria del Signore si mostrerà e tutti gli essere viventi, insieme, la vedranno. E' questa la nostra speranza. Questa è la fede con la quale io mi avvio verso il Sud.

Con questa fede saremo in grado di strappare alla montagna della disperazione una pietra di speranza. Con questa fede saremo in grado di trasformare le stridenti discordie della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fratellanza.

Con questa fede saremo in grado di lavorare insieme, di pregare insieme, di lottare insieme, di andare insieme in carcere, di difendere insieme la libertà, sapendo che un giorno saremo liberi. Quello sarà il giorno in cui tutti i figli di Dio sapranno cantare con significati nuovi: paese mio, di te, dolce terra di libertà, di te io canto; terra dove morirono i miei padri, terra orgoglio del pellegrino, da ogni pendice di montagna risuoni la libertà; e se l'America vuole essere una grande nazione possa questo accadere.

Risuoni quindi la libertà dalle poderose montagne dello stato di New York.

Risuoni la libertà negli alti Allegheny della Pennsylvania.

Risuoni la libertà dalle Montagne Rocciose del Colorado, imbiancate di neve.

Risuoni la libertà dai dolci pendii della California.

Ma non soltanto.

Risuoni la libertà dalla Stone Mountain della Georgia.

Risuoni la libertà dalla Lookout Mountain del Tennessee.

Risuoni la libertà da ogni monte e monticello del Mississippi. Da ogni pendice risuoni la libertà.

E quando lasciamo risuonare la libertà, quando le permettiamo di risuonare da ogni villaggio e da ogni borgo, da ogni stato e da ogni città, acceleriamo anche quel giorno in cui tutti i figli di Dio, neri e bianchi, ebrei e gentili, cattolici e protestanti, sapranno unire le mani e cantare con le parole del vecchio spiritual: "Liberi finalmente, liberi finalmente; grazie Dio Onnipotente, siamo liberi finalmente".

STEFANIA TIRELLI - REGGIO EMILIA

Anonimo ha detto...

http://www.youtube.com/watch?v=JbYpeiNj704&feature=related

http://www.youtube.com/watch?v=IIsuHjN7IGI

http://www.youtube.com/watch?v=lgNiQZiusRo&NR=1

http://www.youtube.com/watch?v=x0g6_f6gVZA&feature=related

http://www.youtube.com/watch?v=FI_X62ygBPI&feature=related

http://www.youtube.com/watch?v=f_eIvzr2mQQ&feature=related

http://www.youtube.com/watch?v=HESlB9t8M5o&feature=related

Tutta l'intervista a Luigi De Magistris : va letta per capire bene.

Gennaro Giugliano ha detto...

http://ilparafulmine.blogspot.com/2009/03/intervista-de-magistris-al-programma.html

GIOVEDÌ 12 MARZO 2009

Intervista De Magistris al programma Exit di LA7 11/03/2009

Anonimo ha detto...

Mi pare che il punto fondamentale e lo scopo dell'articolo sia quello di dire chiaramente che c'è una novità indicibile; lo dice a metà dell'articolo e prosegue con ottimi argomenti a sostegno.
Con un po' di informazione, attenzione e buon senso chiunque poteva arrivarci da tempo (me compreso, anche se ovviamente risentirlo detto da Vulpio conforta e stimola).
Ad ogni modo la novità indicibile non è proprio una novità ed è stata detta da tempo anche da persone e in luoghi inaspettati: ad esempio nel dibattito tenutosi a Cortina il 2 agosto 2008: Se la casta ci porta alla deriva. Come e perchè la Seconda Repubblica rischia di far naufragare l'Italia.
Al tempo 0:52:45, a proposito della vicenda rifiuti di Napoli, Mario Orfeo dialogando con Gian Antonio Stella si chiede: "ci sono responsabilità gravissime della Magistratura … non è possibile che l'emergenza duri 15 anni … la Magistratura si è svegliata solo uno o due anni fa".
Come già detto su un altro blog a proposito di quel gran furbacchione che è Gian Antonio Stella: Mario Orfeo, direttore de Il Mattino di Napoli e di cui si è fatto il nome per la direzione RAI, al confronto sembra un comunista!
E quindi: insistere, insistere, insistere ...

salvatore d'urso ha detto...

Mangano & manganello

di Marco Travaglio*


Nell’ultimo anno il cavalier Benito Berlusconi ha comunicato che: 1) la sua Augusta Persona non può più essere sottoposta a processo penale, qualunque reato commetta; 2) se una sentenza della Cassazione non gli garba, lui la cambia per decreto; 3) se il capo dello Stato non firma il decreto, è un ostacolo alla governabilità; 4) se la Costituzione gli impedisce di decretare su quel che gli pare, bisogna cambiarla anche a colpi di maggioranza, anche sciogliendo le Camere e “tornando al popolo”. Ora ribadisce che 5) il Parlamento gli fa perder tempo, con tutti quei deputati e senatori (peraltro in gran maggioranza nominati da lui con finte elezioni) che non si sa mai come voteranno e propone 6) di far votare solo i capigruppo per evitare “sorprese”. Ci sarebbe pure la Costituzione, che prevede il voto del singolo parlamentare “senza vincolo di mandato”, ma che sarà mai. Intanto 7) i giudici che indagano o arrestano o scarcerano chi non vuole il governo vengono immantinente visitati dagl’ispettori di Al Fano. E 8) le strade sono pattugliate da militari e ronde di partito, embrione della nuova Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. E 9) le banche finiscono sotto controllo dei prefetti, cioè del Ministero dell’Interno. E, per chi protesta, è alle viste 10) una forte riduzione del diritto di sciopero. E 11) il governo prepara norme-bavaglio per la stampa e per i blog. E 12) pretende di scegliersi anche il presidente della Rai, che spetta all’opposizione. Domanda ai fini dicitori che invitano sempre a non demonizzare: ci dite, gentilmente, come si chiama questa roba qua?

* l'Unità - 11 marzo 2009

Anonimo ha detto...

Un'altra intervista molto interessante di Genchi: è solo una parte, il testo integrale è sul numero in uscita oggi di LEFT - AVVENIMENTI.

http://www.orsatti.info/2009/03/11/parla-genchi/