mercoledì 17 marzo 2021

Un processo penale alla ricerca della verità apparente


 
di Cristiana Valentini -  Ordinario di Diritto Processuale Penale 

Una recentissima intervista rilasciata dall’ex Vice Presidente del CSM, avv. Legnini –unita alle note vicende dischiuse dalle rivelazione del “pentito” Palamara- spinge chi scrive a tornare su propri pensieri, risalenti a qualche anno fa, racchiusi nel concetto per cui oggi il processo penale di questo nostro Paese dovrebbe essere, per dir così, riclassificato: non più un processo che cerca la verità materiale o formale, a seconda delle mutevoli propensioni dell’interprete di turno, ma un ulteriore e sin qui inesplorato tipo di verità processuale, che -indulgendo all’unica salvezza dell’ironia- chiameremmo “verità apparente”.

Ora, cos’è la “verità apparente”? Ecco, anzitutto è quella che si dà per buona in quanto comodamente raggiunta, con il minimo dispendio di risorse, negli anfratti quotidiani dei casi criminologicamente “minori” di cui i palazzi di giustizia sono ricolmi; giusto per fare un esempio, pensiamo alle tante verità apparenti dei processi di Codice Rosso, dove una legge di rara superficialità – apparentemente vocata alla tutela delle vittime della violenza domestica e di genere - propizia il numero dei falsi positivi e dei falsi negativi, disvelati solo dal decorso successivo del tempo e degli avvenimenti, spesso tragici.

Poi c’è la situazione dei processi c.d. importanti, da quelli che coinvolgono politici e amministratori a quelli dotati comunque di forte impatto mediatico, dove la verità apparente diventa troppo spesso un must, scientemente perseguita a discapito di qualunque sforzo opposto.

Dicevamo che lo spunto per le divagazioni cui stiamo indulgendo, è fornito dall’ex Presidente Legnini: durante la trasmissione, l’intervistatore parla del procedimento avviato nel 2018 contro l’allora Ministro dell’Interno per la vicenda della motonave Diciotti e francamente l’intervista merita di essere ascoltata per intero, ma il suo senso pieno si coglie soltanto giustapponendone i contenuti a qualcuno dei messaggi colti dalla chat di Palamara; nel primo, Legnini scrive a Palamara, che «dobbiamo dire qualcosa sulla nota vicenda della nave. Area è d’accordo a prendere l’iniziativa, Galoppi idem, senti loro e fammi sapere domani mattina» e poi insiste: «dovete produrre una nota, qualcosa insomma»; poco dopo il consigliere Csm Clivio scrive a Palamara che Legnini «ci chiede di dire qualcosa sulla storia della nave, e noi lo facciamo volentieri, ma poi non si deve dire che lui comincia così la sua campagna elettorale. Chiaro lo schema?». 

Poi, dopo il lancio d’agenzia sul CSM che si attiva a tutela dell’indipendenza della magistratura, asseritamente lesa dal Ministro dell’Interno, ecco un nuovo scambio di messaggi, ormai famoso, dove altro magistrato scrive che non riesce a comprendere in cosa consista il reato addebitato al Ministro e Palamara replica: «no, hai ragione, ma ora bisogna attaccarlo».

Torniamo ad oggi e all’intervista: l’avv. Legnini ha detto agli ascoltatori, con ripetuta insistenza, che la richiesta di un intervento del CSM non proveniva da lui, ma «dalla magistratura italiana», anzi «da molti magistrati italiani», anzi «tutte le correnti del Consiglio, di destra, di sinistra, di centro… tutte mi chiesero di intervenire».

Dunque –spiega il Legnini- non è stato certo lui il promotore di uno dei (tanti) messaggi con cui il CSM è intervenuto a gamba tesa nei procedimenti penali in corso, non meno che nella vita politica del Paese, e certamente non lo ha fatto perché voleva ingraziarsi il PD in vista della sua candidatura come Governatore d’Abruzzo.

Ora, noi che assistiamo, basiti, a tutto ciò, certamente non sappiamo se dica-no il vero quei messaggi d’antan, recuperati nella chat palamariana, secondo cui fu il Vice Presidente del CSM a chiedere che il CSM intervenisse, e men che meno sappiamo se detta richiesta, ove realmente accaduta, fosse dettata dagli intenti elettorali del Legnini; oppure se dica il vero Legnini, e furono “le correnti, tutte” a chiedergli di intervenire.

E’ questo uno dei casi in cui –mancando un’indagine sul complesso degli accadimenti scolpiti nelle chat di Palamara- non resta altro che dire: ai posteri l’ardua sentenza.

Resta però –questo sembra evidente - un dubbio: chiunque sia stato il promoter dell’intervento CSM, non sono forse queste, denominate “pratiche a tutela”, uno dei (vari) modi con cui il CSM e le sue correnti intervengono sul concreto esercizio della giustizia penale, secondo un disegno tracciato con mano ferma dal volume di Sallusti-Palamara? Chiunque sia stato l’ideatore nel caso specifico, non resta meno vero che un intervento del genere - affidato alla potenza del mezzo mediatico per eccellenza, lanciato proprio in abbrivio del procedimento, dunque senza alcuna cognizione da parte dei firmatari in merito alla sostanza degli atti processuali e, anzi, stando alle chat di Palamara, in piena convinzione dell’insussistenza di una reale ipotesi delittuosa - rappresenta giustappunto una tra le varie e più incisive forme di costruzione di una verità processuale apparente. 

Si trattava di un intervento a tutela dell’indipendenza della magistratura, potrebbe dir qualcuno; sarà, ma di fatto non sembra proprio –quanto meno a chi si prenda la briga di leggere i motivi per cui la Costituente costruì il CSM con le sue attuali fattezze- che una colorita frase dell’allora Ministro sia la minaccia all’indipendenza da cui si vollero tutelare i nostri magistrati; a dire il vero, a rileggere quei lavori, si arriva proprio alla convinzione contraria. Ma qui il discorso s’allargherebbe troppo.

Il punto è –ci permettiamo sommessamente di notare- è che questo tipo di “pratiche a tutela” hanno, giustappunto, il sapore del contributo alla “verità apparente”.
Aggiungiamo poi: per converso, il processo disciplinare condotto nei confronti di Palamara, ma in assenza della maggior parte dei testi da lui evocati, cos’è se non una forma di cristallizzazione della verità apparente?
Non si tratta di casi-limite, è questo il punto.
Al contrario, essi sono solo la punta di un iceberg di dimensioni tali da affondare ben altro che il Titanic.

Prendiamo ad esempio lo scarso spessore dell’accertamento, un concetto in cui le indagini preliminari sono il primo punto critico, quello da cui scaturiscono, a cascata, gli snodi successivi.
Alle indagini preliminari sarebbe richiesto lo svolgimento di una semplice funzione: compiere tutti gli accertamenti atti a consentire le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale ovvero agire o chiedere l’archiviazione e, in questo contesto, svolgere accertamenti anche a favore dell’indagato.

Ora, di questa funzionalità delle indagini preliminari, con inquietante frequenza non esiste traccia nel processo vivente, ad onta del fatto che si tratta di un’attività costituzionalmente dovuta. Si noti: non solo non vi è traccia dello svolgimento di accertamenti a favore dell’indagato, ma, in tanti, troppi casi, neanche di qualcosa che pure dovrebbe essere essenziale nell’economia del fenomeno, ovvero le medesime indagini alla ricerca di prove a convalida di quanto descritto dalla notitia criminis; manca, insomma –insistiamo sul concetto- un vero accertamento.

Questa mancanza di accertamento durante le indagini, questa “trascuratezza”, se così vogliamo definirla, scarica sul dibattimento un processo inutile o, peggio, esita in un accertamento di condanna tanto vuoto di contenuti effettivi quanto lo è stato, prima, l’esercizio dell’azione.
Al di là dell’aggravio del ruolo del giudice dibattimentale, al di là del patimento del processo che l’imputato subisce, questa disfunzione è capace di cagionare seri danni anche alla persona offesa (con buona pace delle magnifiche sorti descritte sempre dal Codice Rosso), qualora non dotata di un difensore che, nell’esercizio della facoltà d’indagine difensiva, implementi la base cognitiva degli investigatori inerti.

Ai casi delle indagini esigue - ridotte al minimo indispensabile con la sotterranea speranza che il giudice del merito non voglia o non sappia avvedersene - fanno eco i casi di accertamenti investigativi condotti male, con perfetta insipienza tecnica; basta pensare –uno fra tutti- al celebre “caso Meredith”, in cui miracolosamente perfino la Cassazione si esprime, denunciando le colpe «di clamorose defaillance o ‘amnesie’ investigative e di colpevoli omissioni di attività di indagine».
Sicché: azione penale apparente e indagini mal gestite denunziano con preoccupante evidenza i sintomi di una rinuncia ad inquirere che cagiona danni a catena, trascinando con sé i diritti individuali dell’imputato come della vittima.
Il lavoro d’indagine preliminare, poi, dovrebbe trovare il suo luogo di verifica in seno all’udienza omonima, nel contraddittorio delle parti, sulla base cartolare configurata dal contenuto del fascicolo delle indagini.

Di fatto, l’udienza è un altro “non luogo” o, per meglio dire, un luogo vuoto; privo di senso, persino, se si eccettua la sua funzione di centro di raccolta dei possibili riti alternativi; cosa certo utile, ma l’udienza preliminare dei codificatori aveva (anche) un’altra funzione, che ad onta delle modifiche non si riesce ad indurla a svolgere, visto che, secondo la solita Cassazione, il GUP deve rinviare a giudizio tutte le volte in cui le prove paiono suscettibili di sviluppi in sede dibattimentale, concetto davvero assurdo che sottende la piena consapevolezza di quanto detto sopra: accade spesso che il p.m. lavori male, troppo spesso a senso unico, troppo spesso con ampi guasti di tecnica investigativa, e dunque il suo fascicolo non reggerebbe ad un vaglio vero; lasciamo dunque che se la giochi in dibattimento e vediamo lì che succede.

Come se non gli bastassero gli anni concessigli per comporre il suo fascicolo e ottemperare al suo onere della prova nonché dovere costituzionale.

Quando si passi dal contraddittorio cartolare dell’udienza a quello pieno del dibattimento, i dati (stavolta pianamente ricavabili dalla giurisprudenza edita) segnalano con chiarezza che l’accertamento cui è dedicato il giudizio dibattimentale si svolge, sempre con inquietante frequenza, in maniera monca e alterata.

Qui, il clou dell’accertamento sull’accaduto storico delineato nel capo d’imputazione dovrebbe svolgersi teoricamente in assoluta pienezza di spazio concesso al diritto alla prova; e invece il tema delle prove è tra i più dolenti.

Sarebbe possibile rappresentare lungamente e nel dettaglio i molteplici aspetti di una prassi che si muove –in essenza- lungo tre direttrici: la limitazione del diritto all’ammissione della prova, la svalutazione delle forme acquisitive e, infine, la scarsa fedeltà della sentenza alle sue risultanze. 
L’onore del demerito spetta senz’altro all’esame incrociato, istituto in relazione al quale da almeno un decennio la dottrina lamenta la costante violazione delle forme e l’inesistenza di effettive sanzioni per le condotte che divergono da uno schema il cui rispetto è nientemeno che garanzia di genuinità del risultato di prova che s’intende ottenere.

Solo chi abbia avuto la (s)ventura di trovarsi in un'aula d’udienza ad ascoltare il giudice che decide di “proteggere” le insipienze investigative disvelate dal contraddittorio dibattimentale, senza risparmiarsi domande suggestive e persino domande nocive,  sa quanta amarezza provochi tutto questo nel difensore che resta lì, con due alternative in mano: fare come Sansone alle prese con i Filistei e scagliarsi lancia in resta contro chi avrebbe dovuto assicurargli imparzialità e terzietà, oppure tacere (per il bene del proprio assistito, si dice, ma sarà vero?) con l’ulcera assicurata.

E non riponga speranze, il cittadino malcapitato, nelle virtù taumaturgiche della Cassazione.

Da tempo la Corte insiste nel segnalare ai ricorrenti la necessità di accuratezza del ricorso: la necessità di adottare un certo format per l’atto, un certo passo di scrittura, un certo font, un certo modo di dimostrare la corrispondenza tra censure e atti processuali.
Non vi è dubbio che si tratti di legittime istanze, persino condivisibili: alcuni font agevolano lo sguardo del lettore; date suddivisioni e allegazioni rendono più celere il lavorio mentale di comprensione.
Ma non si può che rimanere interdetti nel notare che a tanto scrupolo nel tracciare input di intellegibilità ai ricorrenti, non corrisponde analoga attenzione per lo jus litigatoris; il tutto senza parlare della qualità dello jus constitutionis espresso dalla Corte, per dirla con Calamandrei.

Il problema della qualità dei pronunziamenti della Cassazione è da tempo all’attenzione scientifica e l’idea pare esser quella che i numeri determinino la scarsa fattura del prodotto.

Sarà, ma sempre più spesso leggiamo sentenze i cui contenuti starebbero bene, forse (ma anche con molte riserve), in bocca ad un pubblico ministero nel corso di una requisitoria che non vada troppo per il sottile, ma che letti nero su bianco in una sentenza della S.C. fanno davvero specie: tra tutti merita rammentare la decisione con cui si è detto che, in buona sostanza, la consulenza tecnica del pubblico ministero vale di più di quella difesa, per principio; ma gli esempi sarebbero innumerevoli e inadatti allo stile di questo blog.

Domandiamoci, invece, per una pura curiosità che meriterebbe distinto studio: ma quanti sono gli ex pubblici ministeri oggi in Cassazione?
Il ruolo del giudice, tratteggiato in modo memorabile da Calamandrei, è un ruolo che in sé esige caratteristiche di nobiltà e responsabilità, di cui, purtroppo, s’incontrano esempi via via più rari: giudici con cui è un piacere trattare il processo, perché sentono il ruolo che ricoprono, con pari consapevo-lezza ed abnegazione. Per questi autentici rappresentanti di un ruolo necessariamente improntato a “grandezza morale”, la formula del ragionevole dubbio è effettivamente diventata, dopo dieci anni di vigenza codicistica, un diktat che permea di sé l’intera loro condotta, dall’istruttoria, sino al momento clou della decisione.

Si torni, allora, all’assunto iniziale circa l’idea di un processo penale ormai dedito, in termini significativi, alla ricerca della “verità apparente”.

Consideriamo qualcosa che potremmo ritenere scontato, recuperando insegnamenti basilari: la sentenza è, nel suo nucleo primario, un fatto giuridico di accertamento, risultante dei tre momenti indispensabili a costituire quest’ultimo, ovvero una situazione d’incertezza iniziale, un processo di chiarificazione, seguito da una dichiarazione di scienza (e volontà, nel comando del dispositivo) munita di efficacia preclusiva.

Il ragionamento, avvertiva lucidamente Falzea, non è limitato al piano tecnico-giuridico, ma sottende inevitabilmente anche un piano etico-giuridico, perché «la sentenza deve avere la funzione di rendere giustizia: senonché come sentenza giusta non è pensabile se non una sentenza che accerti secondo la loro realtà e verità le situazioni giuridiche preesistenti». 
Se però rinunciamo all’idea che il processo penale sia fondato su un accertamento e se ammettiamo che possa dichiarare una verità solo apparente, fornendo una regiudicata la cui unica dignità sta nel suo esistere a prescindere dalla corrispondenza ai fatti, rinunciamo pure all’idea che il diritto serva a conformare questa società in cui viviamo.
 

2 commenti:

bartolo ha detto...

Peccato si sia dimesso, da segretario PD, proprio adesso, Zingaretti. Con questa denuncia della Prof.ssa Cristiana Valentini (fin troppo generosa) che qualsiasi sinistra priva di “strani” compromessi dovrebbe far propria; soprattutto in virtù dell’intesa zingarettiana con la speaker di Mediaset, l'ex segretario avrebbe fatto ballare il Parlamento. Riforma immediata della Giustizia! Altro che Carta Bianca ai Capi delle Procure.

francesco Grasso ha detto...

La più alta, autorevole della verità apparente: i depistaggi e/o il procedimento depistatore.