di Massimo Vaccari - Magistrato
“Magistrati che appartengono” è
una vera e propria contraddizione in termini, una locuzione che provoca la
stessa sensazione del raschio di un’unghia su una lavagna.
Perchè un magistrato che
appartiene non può essere imparziale o meglio non può apparire imparziale ed è
quindi privo di una delle qualità essenziali che gli sono richieste.
Eppure di tanti, troppi, magistrati che appartengono alle ormai famigerate correnti ci danno impietosa ma viva testimonianza le chat di Luca Palamara, il signore delle nomine,
pubblicate quasi integralmente da alcuni quotidiani.
Molti suoi interlocutori indicano
l’appartenenza alla stessa corrente dei soggetti di cui parlano utilizzando gli
aggettivi “nostro” e “nostri”, come se fossero attestati di qualità, quando
invece assumono una valenza spregiativa perché sono riferiti a chi amministra
la giustizia in nome del popolo italiano (art. 101, comma 1, Cost.).
E in virtù dell’appartenenza
costoro ritengono giustificate e legittime le più svariate richieste, tutte
parimenti deplorevoli.
Il caso più frequente è quello di
chi segnala questo o quel collega per questo o quell’incarico semi-direttivo o
direttivo in virtù del solo fatto che essi appartengono alla stessa corrente, a
volte con gradi differenti di premura (“assolutamente”, “molto importante”,
“fai tu”).
Troviamo però anche chi rivendica
con Palamara la propria capacità di piazzare i comuni sodali; chi, in virtù
della fedeltà al gruppo, reclama un maggior riconoscimento in termini di
carriera; chi, sempre in virtù dei servigi resi alla corrente
pretende non solo l’assegnazione di un incarico semi-direttivo ma che questa avvenga all’unanimità dei votanti, come se tale dato fosse indicativo di una maggiore
attitudine anzichè solo di una maggiore protervia.
E non manca chi, in ragione
dell’appartenza allo stesso gruppo, cerca di impedire la progressione in
carriera di colleghi di altri gruppi, invitando Palamara a
votare contro di loro.
Sebbene questi comportamenti
siano stati tenuti da magistrati della medesima corrente di Palamara, Unicost, la genia dei magistrati che appartengono è diffusa in tutte le
correnti della magistratura.
Lo stesso ex presidente dell'Anm, nel
corso di una delle sue uscite televisive, ha dichiarato “molto chiaramente” che
chi non è legato a nessuna corrente viene penalizzato nella sua carriera,
ovvero, detto in altri termini, non ha possibilità concrete di aspirare ad
incarichi direttivi.
Un puntuale riscontro a questa
affermazione lo si trova in un’altra chat, pubblicata sul quotidiano "la verità" in cui Nicola Clivio, esponente della
corrente Area, e, all’epoca, membro del Csm, nel segnalare a Palamara, per un
determinato posto, una serie di nominativi di colleghi appartenenti alla propria
corrente, precisa che questa ha deciso di “mollare” una di loro, sebbene, aggiunge
Clivio, sia “una grossa ingiustizia”, perché “è la meno schierata e quindi più
vulnerabile”.
Abbiamo quindi la riprova che, nel
sistema di "eterogoverno" gestito dalle correnti, solo la totale dedizione ad esse può assicurare se non la
certezza almeno concrete possibilità di carriera e del resto le correnti, comeabbiamo già spiegato in un altro articolo cercano di fidelizzare i magistratifin da quando vincono il concorso.
Qual è il risvolto più
preoccupante della diffusione di quello che possiamo definire come il modello
del magistrato che appartiene?
Che costui, una volta ottenuto
dal suo gruppo il sostegno richiesto, dovrà essere disposto a sdebitarsi,
qualora un giorno gli fosse richiesto, con azioni od omissioni secondo un patto
non scritto che non ha limiti predefiniti di contenuto.
In altri termini, egli si
sottopone ad un vincolo che potrebbe anche incidere sull’esercizio della sua
attività giurisdizionale, sebbene l’art. 7 del codice etico dei magistrati
preveda che: “Il magistrato non aderisce e non frequenta associazioni che richiedono
la prestazione di promesse di fedeltà o che non assicurano la piena trasparenza
sulla partecipazione degli associati”.
E pare anche dimenticato
l’insegnamento di Calamandrei secondo il quale l'ndipendenza dei giudici «è
un duro privilegio, che impone, a chi ne gode, il coraggio di restar solo con
se stesso, a tu per tu, senza nascondersi dietro il comodo schermo dell’ordine
superiore». (da “Elogio dei Giudici, scritto da un Avvocato”).
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