di Salvatore Borsellino
(Ingegnere)
da La Repubblica del 24 novembre 2007
Caro direttore, pochi giorni dopo la strage di Via D´Amelio mia madre chiamò me e le mie sorelle, Rita e Adele e ci chiese di farle incontrare le mamme di quei ragazzi che il 19 luglio si erano stretti attorno a Paolo mentre suonava il campanello della sua casa per proteggerlo nell´unica maniera in cui potevano proteggerlo, con i loro corpi.
Non potevano proteggerlo in altro modo perché il prefetto di Palermo Mario Jovine non considerava quella strada un obiettivo a rischio e quindi non ne aveva disposto lo sgombero.
Non potevano proteggerlo perché il procuratore Pietro Giammanco, pur essendo al corrente che era già arrivato in città il carico di tritolo per l´assassinio di Paolo, non aveva ritenuto necessario avvertirlo del pericolo incombente.
O anche peggio, come forse potremmo sapere se si venisse a conoscere il reale contenuto della strana telefonata che lo stesso Giammanco fece a Paolo alle 7 di mattina di quel 19 luglio nel corso della quale la moglie Agnese sentì Paolo gridare la sua rabbia al telefono in faccia a quello che avrebbe dovuto essere il suo capo e, in quanto tale, avrebbe avuto il dovere di vigilare sulla sua incolumità.
Lo stesso Giammanco del quale, come ha dichiarato l´allora maresciallo dei carabinieri Carmelo Canale, Paolo aveva intenzione di chiedere l´arresto perché si potesse scoprire ciò di cui era a conoscenza sull´omicidio Lima, il referente politico, in Sicilia, del senatore a vita Giulio Andreotti.
Grazie alla protezione dei corpi di quei ragazzi che si stringevano introno a lui, Paolo rimase quasi intero dopo lo scoppio tanto che sua figlia Lucia, che volle correre ad abbracciarlo per l´ultima volta, ci poté dire che Paolo sembrava quasi sorridere, aveva i baffi e la faccia anneriti dal fumo ma sembrava sorridere.
Ma di quei ragazzi non si trovò quasi niente, una mano fu trovata in un balcone dei piani alti, un altro venne riconosciuto solo per un brandello del vestito, i pezzi di Emanuela Loi poterono essere riconosciuti solo perché era l´unica donna che faceva parte della scorta.
E in quelle bare – che furono testimoni muti della rivolta dei palermitani, alla cattedrale di Palermo, contro quel branco di avvoltoi che, scacciati da noi familiari dal funerale di Paolo, volevano almeno sedersi in prima fila ai funerali degli agenti di scorta – non c´era quasi nulla. Anche se questo non impedì ad uno Stato che mi vergogno a chiamare con questo nome, di richiedere ai genitori di Emanuela Loi il costo del trasporto di quella bara vuota da Palermo a Cagliari.
Mia madre volle incontrare i genitori di quei ragazzi per chiedere di baciare loro, uno per uno, le mani perché come disse loro, avevano donato la vita dei loro figli per quella di suo figlio.
E oggi uno Stato sempre più indegno, uno Stato di cui sono costretto a vergognarmi di fare parte, uno Stato che mi fa vergognare di essere italiano, costringe i genitori, i figli, i fratelli, i parenti di questi ragazzi e di tante altre vittime della criminalità mafiosa, se non dello stesso Stato, a incatenarsi ai cancelli della Prefettura di Palermo per reclamare a voce alta i loro diritti.
Non, badiamo bene, diritti economici di un vitalizio equiparato a quello delle vittime del terrorismo, che pure spetterebbe loro di diritto, ma il diritto a che la loro dignità venga riconosciuta, il diritto a che non vengano considerati vittime di classe inferiore, il diritto a che nelle commemorazioni che pur servono da passerella a politici in cerca di visibilità, i loro figli, i loro padri, i loro parenti non vengano denominati sbrigativamente «ragazzi della scorta» ma, come è loro diritto, con i loro nomi.
Ma allora perché Paolo Borsellino e Giovanni Falcone non vengono chiamati «i giudici del pool» e basta, forse perché la gente si indignerebbe a non sentire i nomi di quelli che considera degli eroi? Ma perché forse non sono degli eroi anche Agostino Catalano, Eddie Walter Cusina, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina, Rocco Di Cillo, Antonio Montinari, Vito Schifani. Anche di Francesca Morvillo non viene spesso pronunziato il nome, come se non fosse morta anche lei accanto a Giovanni.
A fronte di ciascuno di questi nomi, e della serie interminabile di nomi di eroi che non vengono mai nominati ciascuno di noi non dovrebbe nemmeno solo alzarsi in piedi, ma mettersi in ginocchio, e invece li costringiamo ad incatenarsi ai cancelli di una prefettura per reclamare il rispetto della loro dignità.
Io chiedo perdono a Sonia Alfano e a quelli che come lei stanno portando avanti questa lotta nel nome di tutti per non essere lì insieme a loro, per non essermi incatenato insieme a loro come di sicuro avrebbe voluto e ci avrebbe ordinato di fare mia mamma se fosse ancora in vita.
Vi chiedo perdono, la lotta che stiamo combattendo ha troppi fronti e non sempre si riesce ad essere dove il nostro cuore ci vorrebbe portare, ma sappiate che sono insieme a voi, che Paolo Borsellino è insieme a voi e che insieme a lui la lotta di tutti noi, di tutti noi uniti, riuscirà a realizzare il sogno di giustizia e di libertà per cui sono morti i vostri figli, i vostri padri, i vostri compagni, i vostri fratelli.
3 commenti:
Colgo l'occasione di questo chiaro intervento di Salvatore Borsellino per riportare di seguito il contenuto di un mio post, pubblicato sul mio blog http://fabiovagnarelli.blog.kataweb.it/ , quella che espongo è un'idea che ho da molto, non ho mai capito fino a che punto efficace e/o realizzabile, sarei felice di ricevere commenti e stroncature, per crescere, assieme.
Grande criminalità: brevi considerazioni e una proposta.
Vasti territori della Repubblica sottratti alla sovranità dello Stato, le persone che vi abitano in soggezione della criminalità organizzata, nella quotidianità del loro vivere. Siamo ormai abituati a considerare ciò una situazione normale, o quasi, ma non lo è, non può esserlo.
In queste regioni la lotta tra i malavitosi e le istituzioni non è quella fisiologica delle società industrializzate, ma quella primordiale per il controllo del territorio, e lo Stato lo ha perso, ha abbandonato milioni di suoi cittadini in balia di feroci criminali, così come sono abbandonati i rappresentanti delle Istituzioni, anch’essi cittadini lì residenti.
Se la situazione non è ordinaria, non lo possono neanche essere gli strumenti da approntare per combatterla.
Qualsiasi persona che sia espressione dell’apparato pubblico, della legalità statuale, sia esso magistrato, generale, guardia carceraria o impiegato della Questura, con quale spirito di indipendenza e di imparzialità potrà mai operare? I malavitosi sanno dove lui vive con i suoi cari, dove va a scuola la figlia, dove viene parcheggiata l’auto, dove c’è la casa da bruciare. E non sono criminali qualsiasi; se uno di questi dicesse loro un giorno, ad esempio “ho visto i suoi figli, dottore, creature piene di salute …”, frasi innocenti, per ricordare (ma non ce n’è bisogno) come ogni suo affetto, bene, sia nella loro piena disponibilità di annientamento.
E vengo al punto: la migliore legislazione contro questa malavita non potrà risultare vincente, a mio avviso, finché gli uomini delle istituzioni, per primi quelli posti nei ruoli più marginali, ma con accesso a luoghi “sensibili” (si pensi agli impiegati di un tribunale, di un carcere, ai poliziotti, ai carabinieri) saranno esposti alla coabitazione ambientale di cui ho sopra detto; non potranno tutelare la legalità a vantaggio di tutti, non potendo tutelare neanche se stessi.
Che fare, allora? Si potrebbe ipotizzare che tutta una serie di apparati dello Stato (quelli preposti ai vari controlli, forze dell’ordine, ispettori del lavoro etc.) siano formati da personale non residente, senza cognome, solo un nome e una matricola identificativa: arrivano sul posto con appositi mezzi di trasporto, vivono in alloggiamenti protetti, alternano un intenso periodo di operatività ad un equo e ristoratore periodo di riposo, nella loro casa lontana, e comunque non conosciuta. Funzionari dello Stato anonimi, come sono anonimi coloro che, mascherati, operano nei reparti speciali delle varie polizie, persone motivate che devono avere e sentire dietro di loro uno Stato presente, che ha come priorità assoluta quella di riprendere il controllo del territorio, primo fattore identificativo di una identità statale.
Il tutto senza badare a spese, ovviamente. Ma del resto, quanto costa al nostro Paese la mafia, la camorra, la sacra corona unita, in termini economici, sociali e politici? E quanto vale la qualità di vita dei nostri sfortunati concittadini, costretti a vivere sotto questi vergognosi gioghi?
A proposito, non vi sembra che sulla criminalità organizzata ci sia oggi un grande silenzio, dovessimo ancora una volta scoprire che la mafia non esiste?
Fabio Vagnarelli - Gubbio
A quelli che non hanno mai smesso di combattere per la giustizia :
http://www.youtube.com/watch?v=-aEAmwzxxKo&NR=1
È una lettera bellissima. Parole durissime piene di tanta indignazione ma anche di profonda dignità e di grande umanità.
I familiari delle vittime di mafia non saranno mai risarciti abbastanza ed è assurdo che lo Stato sia stato tanto lontano da loro al punto da costringerli ad incatenarsi ai cancelli della Prefettura di Palermo per chiedere il riconoscimento degli stessi diritti già acconsentiti alle vittime di terrorismo.
Sembra che finalmente ieri sera la commissione Affari costituzionali della Camera abbia approvato l’emendamento alla legge finanziaria per l’equiparazione dei diritti. Mi auguro che siani stati veramente risolti i problemi posti dai familiari delle vittime di mafia ... per non vergognarci così come si è vergognato Salvatore Borsellino ...
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