venerdì 22 febbraio 2008

L’Italia dell’Antimafia – La legislazione premiale, il tentativo, i pentiti.



di Francesco Siciliano
(Avvocato del Foro di Cosenza. Legale di Ammazzatecitutti)


Chiunque decida di studiare giurisprudenza entra, se vuole provare a cogliere il senso del proprio percorso di studi, in un circuito che implica percezione e valutazioni sul convivere civile e su molte cose che sembrerebbero ovvie che spesso trova limpidamente descritte in pochi capoversi di una norma di legge.

Questo è per esempio il senso di molte definizioni legislative di tanti fatti quotidiani, quali ad esempio il possedere e potere distruggere la cosa di cui si ha proprietà.

Allo stesso modo, nella specificità di ognuno, lo studente di giurisprudenza subisce il fascino più o meno forte di specifici settori del diritto per la forza che il sistema, quando lo si coglie, riesce ad imprimere al proprio raggiunto sapere.

Accade così che molti insegnamenti universitari rimangano scolpiti nel laureato in giurisprudenza in modo immutabile in modo cioè che sia dia successivamente per scontato che per alcune fattispecie (casi concreti) di tipo simile a quelle studiate durante gli anni vaghi della preparazione universitaria si crede che non si possa dare una risposta diversa da quella appresa su libri e testi di legge a volte millenari.

Accade così che per chi ha subito il fascino particolare del diritto penale si scolpiscano nella sue mente alcuni dati pacifici quasi come il due più due quattro che è patrimonio di ognuno anche nel senso di volere esprimere un fatto incontrovertibile.

In questa prospettiva si inserisce il caso dell’istituto del delitto tentato.

Il tentativo è un istituto che sin dai primi anni dell’università stampa nella mente del futuro operatore del diritto alcuni concetti fondamentali: il momento dell’ideazione del reato e il momento della consumazione.

L’inesperto studente di giurisprudenza, tuttavia, apprende, altresì, che nel nostro ordinamento è necessario che sia punito anche il reato non commesso ma tentato e su questa necessità legge e studia molte considerazioni dottrinarie che, attraverso l’individuazione del pericolo al bene tutelato dalla norma che discende dal tentativo, giustificano la necessità che sia punito anche il tentativo.

Il tentativo quindi come insieme di atti che inequivocabilmente denotano l’intenzione dell’agente di commettere il reato è punibile nel nostro ordinamento.

Sempre l’inesperto studente di giurisprudenza apprende, tuttavia, immediatamente dopo che, ferma la punibilità del tentativo, l’ordinamento offre un “ponte d’oro” al reo che desiste dall’azione o ancor di più che impedisca l’evento del reato.

Il dettato normativo è, altresì, chiaro nell’indicare che quel ponte d’oro non è offerto in base ad un pentimento o ad una spontaneità della desistenza o del ravvedimento operoso ma è offerto in base alla sola circostanza che il reo abbia abbandonato per qualsivoglia motivo l’azione delittuosa o ne abbia impedito l’evento.

Lo studente di giurisprudenza, pertanto, coglie in maniera indelebile due considerazioni: l’esistenza di tale istituto sin dal Codice Zanardelli, e prima ancora dal Codice Napoleonico, e, soprattutto, la scelta del legislatore di premiare (sotto forma di sconto di pena) il reo che si arresti ad un certo momento del suo progetto criminoso ovvero quello che si attivi per impedire l’evento.

Acquisizione, quindi, di un dato incontrovertibile, il legislatore penale non postula giudizi morali ovvero richiede pentimenti, egli concede il “premio” per effetto del risultato che si raggiunge con il pentimento o la desistenza del reo basti che questa scelta sia volontaria.

Nessuna indagine dunque sulle ragioni morali della scelta né sulla personalità del reo.

Distinta è l’ipotesi dell’art. 62 n. 6 c.p., in cui si ripone molta attenzione al comportamento del reo al fine di verificare l’effettivo mutamento di personalità e di pericolosità sociale.

Un dato quindi acquisito è che il legislatore sin da tempi molto remoti premia il reo qualora il fatto reato non si compia o se ne attenuino gli effetti.

Lo studente di giurisprudenza quindi ritiene logico e coerente che il legislatore usi il premio quale mezzo di tutela del bene giuridico sotteso alla norma e come forme di contrasto alla commissione di reati.

Nulla quaestio quindi sulla validità di tale legislazione.

Si ritrovano così nei tempi più recenti normazioni quali la legge 14 ottobre 1974 n. 497, con cui l’art. 630 c.p. viene modificato mediante la previsione, per l’agente o il concorrente che si fosse adoperato in modo da consentire alla vittima di riacquistare la libertà senza il pagamento del riscatto, dell’applicazione delle pene previste per il delitto di sequestro di persona (art. 605 c.p.) (norma premiante, questa, poi riprodotta dal decreto legge 21.3.1978 n. 59, convertito con modificazioni nella legge 18.5.1978, seppur limitatamente al concorrente [operando quindi una restrizione dell’operatività di essa] e con l’aggiunta del requisito ulteriore della dissociazione, ed infine accolta nel testo vigente, al comma 4 a seguito della legge 30.12.1980 n. 894).

Allo stesso modo, negli anni ‘70, caratterizzati da una serie di attentati terroristici culminati col sequestro dell’on. Aldo Moro si è assistito a vari esempi di legislazione premiale.

Infatti, pochi giorni dopo il sequestro dell’on. Moro, fu emanato il D.L. 21 marzo 1978 n. 59, il quale riscriveva l’art. 630 c.p., rubricandolo “sequestro di persona a scopo di estorsione, di terrorismo o di eversione” e nella legge di conversione 18 maggio 1978 n. 191 si introdusse la nuova figura del sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione, disciplinata dall’art. 289-bis c.p., lasciando l’art. 630 per il sequestro estorsivo.

In quel caso sembrò scontato il ricorso alla legislazione premiale: basti pensare agli articoli 4 e 5 del D.L. 15 dicembre 1979 n. 625, convertito dalla legge n. 15/1980 agli artt. 1, 2, 3 e 5 della legge 304/1982 ed, infine, all’art. 1 della legge 34/1987.

Ovviamente in quel caso come in altri si assistette, per un verso, alla configurazione di nuove ipotesi di delitto (artt. 270-bis e 280 c.p. rispettivamente introdotti con gli artt. 2 e 3 del D.L. 625/1979) e di una nuove circostanze aggravanti (quella della “finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico”, ipotizzata nell’art. 1 del decreto legge in questione), così come, dall’altro, ad inasprimenti in ordine ai provvedimenti relativi alla libertà personale degli imputati.

In quella fase di emergenza sembrò naturale che si offrissero sia reali incentivi a contrastare il consolidarsi dell’intento delittuoso sia, soprattutto, l’effetto dato da tali controstimoli di riuscire a scompaginare dall’interno i gruppi terroristici rendendo particolarmente conveniente la collaborazione con lo stato.

Tutto questo, a quello studente di giurisprudenza che aveva stampato nella mente l’art. 56 del suo esame di diritto penale appariva una normale e logica scelta di politica criminale posto che sin dai tempi remoti il diritto penali offre sconti a chi desiste dall’azione criminale.

Tale situazione non sembrò necessaria al legislatore quando emanò la legge 13 settembre 1982 n. 646 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 253 del 14 settembre 1982), “Disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazione alle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57 e 31 maggio 1965, n. 575. Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia”, e, ciò va detto, non poteva sconvolgere più di tanto gli studenti di giurisprudenza che avevano già sostenuto l’esame di diritto penale sia perché ancora poco si sapeva del fenomeno mafioso grazie all’assoluta assenza di informazione sul tema sia perché, in ogni caso, le scelte di politica criminale sono evidentemente una valutazione legittima del legislatore.

Nulla quindi di illogico; si potevano cioè fare valutazioni politiche sulla lunga gestazione della legge; sull’assenza per molti, troppi, anni della fattispecie criminosa ma nessuna valutazione di sistematicità giuridica poteva fare pensare a qualcosa di incongruente per la mancanza di un “ponte d’oro” per i rei di associazione a delinquere di stampo mafioso.

Solo su un piano strettamente politico criminale si può affermare che bisognerà attendere il D.L. 13.5.1991 n. 152, convertito dalla L. 12 luglio 203/1991 perché fosse previsto un meccanismo di incentivazione della collaborazione con riferimento ai “reati di mafia”, nonostante sin dai primi anni ‘80 alcuni magistrati, impegnati sul fronte dell’antimafia, prospettassero l’esigenza di introdurre nuove forme di intervento premiale per la criminalità organizzata non caratterizzata politicamente.

Nulla di incongruente, quindi, mera scelta legislativa della quale ciascuno, sulla base della propria posizione, poteva affermarne la validità o meno.

Tuttavia già in questa prima fase, sul piano strettamente giuridico, molti insigni autori (T. Padovani, E. Musco) dubitavano della validità di una legislazione premiale in tema di associazioni mafiose poiché il pentitismo e la collaborazione con lo stato non serviva a diminuire l’allarme sociale altissimo creato dalla commissione di reati di questo tipo.

La legislazione in tema di antimafia, quindi, sin dalle sue origini dimostra una estrema vischiosità e si sa subisce accelerazioni o decelerazioni in funzione di fatti drammatici che aumentano l’allarme sociale per il fenomeno.

Invero, in periodi di dibattiti sulla validità e sulla utilità anche sociale della legislazione premiale in tema di mafia, l’intensificazione dell’azione di contrasto al fenomeno fu dovuta anche al prezioso contributo di Giovanni Falcone, che era stato nominato nel marzo del 1991 direttore generale degli affari penali presso il ministero di grazia e giustizia, atteso che in quel periodo fu emanato il D.L. 13 maggio 1991 n. 152, convertito dalla L. 12 luglio 1991 n. 203, che disciplinò la prima fattispecie premiale per i dissociati dalle organizzazioni mafiose.

Anche se, solo dopo la strage di Capaci (23 maggio 1992) venne emanato il D.L. 8 giugno 1992 n. 306, convertito in legge subito dopo la strage di via D’Amelio (19 luglio 1992), rubricato “Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa”, con cui furono introdotti, da un lato, inasprimenti per gli imputati di associazione mafiosa, e dall’altro, ulteriori benefici per i collaboratori di mafia.

Principio cardine dell’istituto del pentitismo in tema di reati di mafia, costruito sulla base di un accostamento alla medesima legislazione emanata in tema di reati di terrorismo, è certamente la previsione che “per i delitti di cui all’art. 416-bis del codice penale e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso, nei confronti dell’imputato che, dissociandosi dagli altri, si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori anche aiutando concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella raccolta degli elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei reati, la pena ...”; elemento decisivo della fattispecie legislativa è, quindi, il requisito della dissociazione, da intendersi come la rottura dal pactum sceleris con gli altri membri dell’associazione criminale a nulla rilevando il fine di colui che decide di rompere il pactum sceleris.

Lo studente di giurisprudenza leggendo queste norme – purtroppo successivamente ad omicidi come quello Scopelliti o alle stragi siciliane anche a quelle antecedenti gli anni 90 – ritrova, quindi, la sua sistematicità e la logica di ciò che ha imparato all’università: quel principio scolpito nella sua mente l’art. 56 del codice penale (come già previsto nel codice napoleonico e nello Zanardelli) offre un “ponte d’oro” al reo che desiste dall’azione criminale ovvero con il suo ravvedimento operoso impedisce il compimento dell’evento.

Il medesimo studente di giurisprudenza, tuttavia, perde le sue sicurezze quando si ritrova a leggere di polemiche sull’istituto soprattutto quando queste provengano da altrettanti ex studenti di giurisprudenza divenuti successivamente legislatori.

Ciò perché allo studente di giurisprudenza appare ovviamente logico e coerente (rectius: sistematico) che i dicasteri che si occupano dell’applicazione concreta della legislazione premiale debbano verificare in maniera inequivocabile la “convenienza” per lo stato del patto con il collaboratore così come che ci sia un controllo approfondito dell’uso delle risorse pubbliche messe a disposizione dello strumento premiale e dei collaboratori di giustizia.

Ciò tuttavia non dovrebbe essere motivo per attenuare la portata dell’utilità della collaborazione che lo stato sceglie di offrire a chi contribuisce alla repressione del fenomeno mafioso.

In altri termini i disservizi della scelta premiale fatta dallo stato per la repressione di un fenomeno criminale, almeno per quel modesto studente di giurisprudenza, possono e debbono essere corretti attraverso meccanismi di selezione qualitativa dei collaboratori, ovvero attraverso attività giudiziaria e pregiudiziaria di verifica della convenienza per lo stato alla stipula di quel patto, ma non possono mettere in discussione il “ponte d’oro” proprio perché l’istituito del ponte d’oro è connaturato ai codici penali moderni e premoderni.

Anche la drammatica vicenda Tortora in fondo ha dimostrato la necessità dell’azione di riscontro aliunde del contributo derivante dal “premio” così come la reale pericolosità, per il crimine, di quel patto (alludo al complotto Tortora come tentativo di bloccare sul nascere l’istituto).

Tutto chiaro quindi: lo studente di giurisprudenza sa che il legislatore penale considera utile scardinare con patti (rectius: istituti premianti) i fenomeni criminali; allo stesso modo la figura dell’agente provocatore insegna che anche l’azione di contrasto ai fenomeni criminali finisce a volte per avvalersi di infiltrati che compiono spesso reati di persone cioè che stimolano l’azione criminale al fine di farla perseguire dalla giustizia “si tratta di uno sporco lavoro ma qualcuno lo deve pur fare” (Ligabue).

Lo studente di giurisprudenza quindi perde la coerenza e sistematicità della sua formazione culturale quando legge “Modifica della disciplina della protezione e del trattamento sanzionatorio di coloro che collaborano con la giustizia nonché disposizioni a favore delle persone che prestano testimonianza”, legge n. 45 del 13 febbraio 2001, G.U. n. 58 del 10 marzo 2001 (suppl.ord.) e, soprattutto, scopre (ma lo aveva già immaginato) che successivamente accade questo:

Tabella/La grande flessione. I collaboratori di giustizia al Nord

Anno, Torino, Milano, Venezia
1999, 5, 13, 0
2000, 3, 10, 1
2001, 5, 1 1, 1
2002, 0, 10, 0

Oggi, 36, 97, 20

La tabella indica gli ingressi dei nuovi collaboratori di giustizia negli anni dal 1999 a oggi. La cifra finale indica i collaboratori oggi operanti.

A Milano, dal 1992 a oggi, i collaboratori che hanno goduto, almeno per un periodo, di programma di protezione sono 207 (Fonte: Direzione distrettuale antimafia di Torino, di Milano e di Venezia).

Sempre quell’oramai da definirsi ingenuo studente di giurisprudenza si chiede, ma era ovvio, se si diminuisce la convenienza, i pentiti calano, non ci avevano pensato?

E poi nessuno aveva letto queste dichiarazioni:

«Ed è proprio questo quello che noi tecnici, che giornalmente ci confrontiamo operativamente con questi problemi, indichiamo quando parliamo di questa attenzione a corrente alternata da parte di chi deve provvedere a fornirci le strategie, i mezzi, le strutture per poter operare.

Quante volte abbiamo affermato nel passato che è veramente strano che ci si accorga della presenza della mafia quando avvengono i fatti di sangue, cioè quando qualcosa ha turbato l’equilibrio interno dell’organizzazione mafiosa, e non ci si renda conto che esiste quando invece queste cose passano tranquillamente, cioè nel momento in cui la mafia è particolarmente forte.

È necessario andare alla radice del fenomeno colpendo sistematicamente e permanentemente tutte le strutture portanti dell’organizzazione mafiosa in quanto tale, indipendentemente dagli altri delitti commessi; in altri termini, la mafia è un fenomeno troppo serio perché lo si possa affrontare in maniera poco seria.

Chi pensa che possano esservi scorciatoie di qualsiasi tipo, chi pensa che la mafia si possa affrontare con leggi di emergenza quando è un fatto endemico di certe zone del meridione con una diffusività in tutto il territorio dello stato e all’estero, sbaglia di grosso.

La collaborazione di alcuni elementi di spicco di Cosa Nostra e la conclusione di inchieste giudiziarie approfondite hanno inferto indubbiamente un duro colpo alla mafia.

Ma che la celebrazione tra mille difficoltà di questi processi ha indotto Cosa Nostra ad un ripensamento di strategie certamente non ha segnato l’inizio della fine del fenomeno mafioso.

Il declino della mafia, più volte annunciato, non si è verificato e non è purtroppo prevedibile nemmeno oggi.

È vero che non pochi uomini d’onore, diversi dei quali di importanza primaria, sono detenuti; tuttavia i vertici di Cosa Nostra sono latitanti ed è proprio questa una delle particolari capacità della mafia, quella di modellare con prontezza ed elasticità i valori arcaici all’impero di esigenze della mafia.

Se oltre a ciò si considerano la sua capacità di mimetizzazione nella società, la tremenda forza di intimidazione derivante dall’inesorabile ferocia delle punizioni inflitte ai trasgressori o a chi si oppone ai suoi disegni criminosi, l’elevato numero e la statura criminale dei suoi adepti, ci si può rendere conto dello straordinario spessore di quest’organizzazione, sempre nuova e sempre uguale a se stessa.

L’organizzazione siciliana denominata Cosa Nostra è la più pericolosa esistente al mondo e spero che non ci sia nessuno che pensi che io lo dica con orgoglio di siciliano … [risa dell’interlocutore] ... perché capita anche questo, capita anche questo!»
(Giovanni Falcone).

Qualcuno di quegli studenti di giurisprudenza comincia a chiedersi vabbè è normale in tempi di “celodurismo” vedrai aboliranno anche la figura del delitto tentato.

E invece no, la diminuita convenienza del pentitismo è una riflessione culturale approfondita anche sul piano giuridico e non è assolutamente espressione di “celodurismo” così come non è espressione di celodurismo puro e crudo la posizione di chi intende istituire una commissione di inchiesta sui pentiti (Messaggero, 14 gennaio 2008).

Alla fine di questa sommaria argomentazione sull’uso del ponte d’oro nei confronti del reo si dovrebbero cercare di trarre delle conclusioni anche propositive sulla questione.

Il dato di partenza è certamente quello dell’istituto giuridico e delle sue ragioni.

Nei nostri codici il legislatore sin da tempi molto remoti ha scelto di “premiare” il reo o l’associato che, senza avere alcun rilievo il motivo della sua scelta, eviti il reato ovvero contribuisca alla repressione di fenomeni criminali: ciò è un dato storico e si spera irrinunciabile; allo stesso modo errori singoli nell’uso dell’istituto ovvero singoli abusi costituenti addirittura privilegi non inficiano la bontà dell’istituto ma impongono di perseguire i singoli fatti di abuso; la legislazione premiale non può essere oggetto di commissione d’inchiesta parlamentare semmai gli abusi possono essere oggetto di processi penali qualora abbiano integrato fattispecie di reato; in tempi di celodurismo e di messaggi subliminali è auspicabile che la dottrina giuridica resti tale argomentando di istituti giuridici senza trascendere in considerazioni politiche.

Ultima notazione: ho ascoltato interamente i discorsi di apertura della campagna elettorale e ho sentito parole come “alzati”, “siediti”, “italiani”, “padani”, “precari”, “sogni”, “speranza”, “concepito”, “diritto all’autodeterminazione”, “famiglia”, “coppie di fatto”, “yes we can”, mentre è purtroppo scomparsa la parola mafia.

Si sa la campagna elettorale è per definzione il periodo in cui si raccolgono voti.

«E’ normale che esista la paura, in ogni uomo, l’importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, altrimenti diventa un ostacolo che impedisce di andare avanti» (Paolo Borsellino).


4 commenti:

Anonimo ha detto...

Ho assistito ad un memorabile dibattito, circa vent'anni fa, nel quale il Prof. Padovani, citando Kant, sosteneva che "quand'anche il mondo stesse per finire, l'ultimo condannato a morte dovrebbe comunque espiare la sua pena".

La sua opinione era pienamente condivisa dal pubblico, ma era contrastata fortemente dagli avvocati presenti, specialmente dai penalisti, nonché dai magistrati. Non v'è bisogno di spiegarne il perché. Dirò soltanto che laddove nei primi erano evidenti le esigenze di "tutela" dei propri clienti, nei secondi prevaleva un'idea "burocratica" di giustizia, secondo la quale poco importava che il singolo fosse punito, rilevando soltanto il complessivo risultato finale, considerato quasi alla stregua di un'asettica "statistica giudiziaria".

Quanto sopra premesso, devo dire che le considerazioni esposte dall'Avvocato Siciliano sono apparentemente condivisibili. Mi chiedo, tuttavia, se sia davvero opportuno premiare chi collabora con la giustizia e, soprattutto, se convenga veramente premiare i collaboratori restando in vigore l'odierno sistema sanzionatorio penale.

Perché, a ben vedere, si tratta di un problema di proporzioni.

Se la pena è in assoluto lieve, appare logico che lo sconto di pena importi, quale risultato, delle conseguenze afflittive sostanzialmente risibili per il collaboratore, sino a non fargli pagare alcunché per il male che ha fatto. Anzi, sino al punto di far pagare i cittadini per mantenere al sicuro, magari con identità cambiata e protezione assicurata, uno squallido e sporco individuo, la qual cosa ripugna di per sé alle coscienze.

Ma se la pena fosse in assoluto pesante, lo sconto sarebbe senza dubbio molto più desiderabile di quanto lo sia ora.

Mi spiego. Provate a pensare al carcere subito da Jean Valjean nei "Miserabili". Palla al piede, lavori forzati, pane e acqua, tavolaccio di legno ove dormire, niente donne, nessuno svago. Solo un incubo protratto, tale da far desiderare la morte come unica, definitiva liberazione.

Se di quest'ultima specie fosse la pena destinata ai mafiosi, già il solo fatto di poter dormire in un letto, anziché sovra un tavolaccio, indurrebbe senza dubbio molti a "collaborare", senza indugio alcuno !

E se vi fossero ulteriori dure, certe e immediate sanzioni per chi collaborasse falsamente, credo che le false collaborazioni sarebbero finite da tempo.

Conosco già le obiezioni che saranno addotte. Tra di esse, la principale è quella per cui un sistema sanzionatorio "duro" non serve a nulla se prima non si procede ad assicurare alla giustizia i colpevoli, se prima non si trovano i collaboratori che permettano alle forze di polizia di arrestare gli imputati. L'effettività della pena è un maggior deterrente della sua gravità, come molti ripetono oggi.

A tale obiezione vorrei rispondere che anche con il sistema attuale un inizio vi è stato. Vi è stato, in particolare, un momento nel quale alcuni, pochi, allettati dai promessi sconti di pena, hanno iniziato a "collaborare".

Lo stesso fenomeno, lo stesso principio varrebbe, però, qualora lo sconto fosse proporzionato alla pena.

Se minaccio una pena edittale bassa, in valore assoluto applico uno sconto elevato. Se minaccio una pena edittale alta, sempre in valore assoluto applico uno sconto inferiore al primo. Ma il risultato, pensateci bene, è lo stesso !

Anzi, a ben vedere, il sollievo arrecato dalla cessazione di vere sofferenze protratte nel tempo è assai più desiderabile di uno sconto di un anno, o due, o tre in un sistema che prevede soltanto la privazione della libertà quale fondamentale sanzione afflittiva.

Con un sistema sanzionatorio pesante, la "reazione a catena" delle collaborazioni si innescherebbe egualmente, ma facendo salvo il principio retributivo, che rimane uno dei fondamenti della pena, oltre al principio di prevenzione generale e speciale, che attualmente è quasi del tutto vanificato.

Altrimenti, si dovrebbe avere almeno la coerenza di non chiamare più la "pena" con questo nome.

Per concludere, resta evidente che la lotta alla mafia non può prescindere anche da altri, forse più importanti, fattori ordinamentali e soprattutto sociali. Ma tali fattori credo possano, anzi, debbano ben coesistere con il rispetto dell'idea del diritto che fonda le basi del nostro vivere civile.

Grazie dell'attenzione.

Anonimo ha detto...

Per Paolo Emilio.

Gentile Paolo Emilio,

io sono d'accordo con Lei.

E devo aggiungere anche che, secondo il mio modesto parere, troppi magistrati hanno "gestito" i "pentiti" in un modo decisamente "poco efficace", offrendo benefici troppo "generosi", non solo non necessari, ma addirittura a volte anche controproducenti.

C'è stato un momento nel quale, addirittura, a cavallo di una riforma legislativa che esigeva che i "pentiti" venissero a confermare in dibattimento quanto dichiarato in "istruttoria", molti di loro si sono permessi di "ricattare" lo Stato, dettando condizioni per la "conferma" delle loro dichiarazioni.

Dodici anni fa, ho scritto una cosa su questo tema e rileggendola mi sono reso conto che forse è ancora attuale.

Sicché nei prossimi giorni la proporrò alla Redazione e ai lettori.

Molte grazie per la Sua preziosa attenzione e partecipazione al nostro blog.

Un caro saluto.

Felice Lima

Anonimo ha detto...

Per Paolo Emilio e per il dott. Lima
Debbo innanzitutto rigranziarvi entrambi per l'attenzione che mi prestate, in particolare quella del dott. Lima che tra l'altro mi pubblica. Voglio solo precisare che in questi interventi sull'antimafia, spero non particolarmente modesti, mi sono prefisso un filo conduttore unitamente ad una necessaria specificità di ogni intervento. Così facendo, capisco a volte di perdere la complessità del problema e di non considerare condivisibili obiezioni. In altre parole capisco bene che la certezza della pena, inasprita o meno, sia la necessità in qualunque stato di diritto e con riferimento a qualsivoglia reato e, che, pertanto, se si raffronta qualsiasi intervento alla mancanza di certezza della pena ogni considerazione rischia di degradare ad aria fritta. Il dato di partenza, quindi, di ogni considerazione è pertanto la necessità della certezza della pena perchè ovviamente in assenza di questa anche la legislazione premiale cessa di avere utilità posta l'assenza della pena reale rispetto alla commissione di reati. L'intervento, però, come altri, ha la velleità di denudare le incompresibili contraddizioni in cui cadono spesso i tecnici quando affrontano i problemi di istituti concreti non nel loro reale funzionamento ma nella loro ispirazione dogmatica. Invero, nessuna norma potrebbe prevedere l'abolizione della pena, il sistema però ci fà assistere all'abrogazione di molte figure di reato e alla medesima applicazione concreta della pena: da ciò, tuttavia, spero non si potrebbe argomentare la dannosità della previsione della pena in occasione della condanna per la commissione di un reato. Allo stesso modo assistiamo spesso ad atteggiamenti del legislatore che, non per mutato sentire sociale, ma per altre voluntas legis non ancora codificate, rende quasi impercettibili alcune figure di reato come ad esempio quella dell'abuso di ufficio paragonabile nel concreto ad una contravvenzione. Insomma l'intervento era e resta ancorato al solo problema della legittimità della legislazione premiale sganciata da valutazioni etico morali per scardinare fenomeni criminali radicati e potenti come quelli delle associazioni a delinquere, direi, di tipo mafioso e di tipo mafioso affaristico ( corruzione). Ciò non esclude che il meccanismo premiale non può diventare un'altra forma di "clientela" ovvero un'altro luogo in cui il merito scompare: l'ammissione ai programmi di protezione, infatti, dovrebbe avvenire per qualità della collaborazione e non per altri fini.
Mi scuso ma io appartengo a quella categoria di persone che contrariamente a quanto sostiene il Sen. Iannuzzi crede che non sia una teoria l'esistenza di complicità tra mafia e politica

Anonimo ha detto...

Il cortese (come sempre) intervento di Francesco Siciliano mi impone due importanti precisazioni.

La prima riguarda il fatto che, non solo Francesco non deve alcuna gratitudine al blog, che pubblica i Suoi scritti, ma siamo noi sinceramente grati a Francesco per i contributi preziosi che dà a un blog, nel quale Lui è di casa quanto ognuno degli altri "redattori".

La seconda riguarda più specificamente il merito dello scritto che stiamo commentando.

E' una giornata densa di impegni e, dunque, non ho il tempo di rileggere tutto, ma la mia idea è che ciò che ho scritto non si poneva in antitesi con ciò che ha scritto Francesco Siciliano.

Le considerazioni di Francesco riguardano i principi che regolano la materia; le mie intendevano sottolineare il ruolo che in questa questione hanno avuto e hanno le condotte concrete dei magistrati che quei principi hanno applicato e applicano, a volte molto bene altre volte in maniera opinabile.

Lo stesso Francesco nel Suo scritto fa riferimento alle responsabilità dei singoli operatori.

Il mio intervento, quindi, e la mia adesione alle osservazioni di Paolo Emilio non erano critici rispetto a quanto detto da Francesco.

E anche la pubblicazione del mio intervento sullo stesso tema è rimandata di qualche giorno, proprio per lasciare ai lettori il tempo di leggere e apprezzare l'interessantissimo scritto di Francesco.

Peraltro, poi, è fisiologico che su tante questioni anche i redattori del blog possano avere opinioni diverse.

Non a caso, vista la delicatezza della materia, il mio intervento è, appunto, "mio" e non della Redazione, non essendoci stato il tempo per verificare su cosa siamo d'accordo e su cosa, eventualmente, no.

Un grazie sincero a tutti e, in particolare, a Francesco e Paolo Emilio.

Felice Lima