giovedì 14 febbraio 2008

Stefano Racheli si è dimesso dal Movimento per la Giustizia


Alcune settimane fa Stefano Racheli si è dimesso dal Movimento per la Giustizia, del quale era, fino a poche settimane prima delle dimissioni, responsabile per il Distretto di Roma.

Pubblichiamo la lettera con la quale ha illustrato le ragioni della Sua scelta.

Stefano ha una storia importante, perché, oltre ad essersi costantemente impegnato nella magistratura associata, è stato anche componente del Consiglio Superiore della Magistratura ed è stato tra coloro che votò per Giovanni Falcone invece che per Antonino Meli (che poi, come noto, venne scelto) per l’incarico di Consigliere Istruttore di Palermo.

Per questa scelta, lasciò Magistratura Indipendente (corrente che lo aveva candidato al C.S.M.) e fondò Proposta ‘88, poi confluita nel Movimento per la Giustizia.

Sulle origini del Movimento per la Giustizia e sugli esiti attuali di quella idea abbiamo scritto un altro post a questo link.

Quello di Stefano è un gesto “grave”, perchè lui è stato fra i fondatori di quello che voleva essere appunto un “movimento” e oggi è ridotto, né più né meno, a una “corrente”.

Condividiamo pienamente le ragioni – esposte seppure molto sinteticamente nella lettera che pubblichiamo – che hanno indotto Stefano a questa decisione.

Pubblichiamo la lettera perché riteniamo che sulle ragioni delle dimissioni di Stefano sarebbe utile per tutti riflettere.

Purtroppo, invece, come ha già dimostrato la totale assenza di “reazioni” alle dimissioni dall’A.N.M. di Ilda Boccassini e di Luigi De Magistris, così come, ormai un anno fa, alle dimissioni di Gherardo Colombo dalla magistratura, la magistratura associata sembra indifferente a tutto, bloccata dalle irrinunciabili ambizioni di pochi, ostinatamente legata a schemi di comportamento che dimostrano ogni giorno di più una vocazione conservativa e, dunque, in relazione alle esigenze di un contesto sempre più difficile per la giurisdizione, sostanzialmente autodistruttiva.

Come accade per la classe politica, molti dei principali protagonisti dell’autogoverno della magistratura (latamente inteso: dunque, non solo il C.S.M., ma anche le componenti della magistratura associata) appaiono così tanto legati alle strutture organizzative e alle logiche comportamentali dalle quali traggono a vari livelli potere, da difenderle senza se e senza ma, non promuovendo e addirittura impedendo quelle prese di coscienza e quei radicali cambiamenti senza i quali l’idea stessa di una giurisdizione indipendente, pensata dai padri costituenti, volge al declino. Travolta dagli interessi di una classe politica che non può in alcun modo tollerare controlli di legalità e dall’egocentrismo e dalla autoreferenzialità di una classe dirigente della magistratura che preferisce le mediazioni che portano ad accettare posti nei ministeri e a isolare magistrati “troppo indipendenti” piuttosto che testimoniare con sincerità i valori in cui dice di credere, ma che invece si tradiscono in misura e con conseguenze sempre più gravi per la giustizia e per il Paese.

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Cari colleghi del Movimento,

come suol dirsi, amicus Plato sed magis amica veritas e dunque, se pure con grande tristezza e non poco rimpianto, occorrerà tirare le somme di accadimenti, recenti e non recenti, in spirito di verità.

Una verità provvisoria e debole, quale è quella che attingiamo noi mortali, ma – se pur spogliata di ogni presunzione – pur sempre una verità che, in quanto tale, non può discostarsi dall’interno sentire.

Non credo che le prassi e la politica seguite dal Movimento consentano a coloro che ne tracciarono a suo tempo l’ordito di identificarsi in esse.

E neppure sembra lo consentono, come i risultati elettorali testimoniano, a molti che in seguito approvarono o addirittura si entusiasmarono per i propositi manifestati dalla nuova formazione.

Quali questi propositi? Quelli propri di chi intendeva, sine spe nec metu (elettoralmente parlando), sparigliare il gioco associativo: non facendo dell’“appartenenza” il fulcro della partecipazione; rifiutando – fuori del C.S.M., ma soprattutto al suo interno – ogni copertura corporativa e ogni legame “di scambio” tra elettori ed eletti; adottando prassi e metodi profondamente “democratici”.

Ma c’è di più.

Il Movimento – voglio ribadirlo a costo di ripetermi – intendeva essere, prima e soprattutto, un nuovo modo di pensare: voleva incarnare una mentalità movimentista che, non acquietandosi (correntiziamente) all’esistente, percorresse l’itinerario indicato da Habermas per gli intellettuali: un itinerario caratterizzato “dal fiuto avanguardistico per ciò che è rilevante. Egli si deve interessare agli sviluppi critici di un fenomeno quando gli altri sono fermi al businnes as usual. Ciò non richiede affatto qualità eroiche, bensì una sospettosa sensibilità per ciò che può danneggiare le infrastrutture normative della collettività; l’anticipazione apprensiva di pericoli che minacciano le condizioni mentali della vita politica collettiva; il senso per ciò che manca e che ‘potrebbe essere altrimenti’. Un po’ di fantasia nell’ideare alternative e un po’ di coraggio nel polarizzare, suscitare scandalo, scrivere pamphlet”.

Non ci fu dubbio per noi “fondatori” (scusate l’autocitazione) che un “movimento” si dovesse caratterizzare, innanzitutto e soprattutto, proprio per il fatto di essere “in movimento” e dunque capace di cogliere e anticipare il futuro; di rendere desuete prassi antiche; di suscitare scandalo facendo cose “inusitate” (in quanto rispondenti ad una logica “nuova”): di avere insomma “un fiuto avanguardistico per ciò che è rilevante”.

Chi, a suo tempo, abbandonò i luoghi (correntizi) di origine, lo fece non solo e non tanto perché convinto che nascondessero troppi interessi personali e pochi interessi istituzionali, ma perché era convinto che la magistratura associata, persistendo in un dato sistema, sarebbe stata presto sorpassata dai tempi.

Per fare tutto ciò occorreva e occorre, innanzitutto e soprattutto, una libera e accresciuta circolazione delle idee: un dibattito privo di preconcetti e (come decretammo) “aperto agli esterni”.

Un dibattito dove alla libertà di espressione di ciascuno corrispondesse la rispettosa e reale attenzione di tutti: senza livelli diversificati di accesso ai fatti; senza “sacerdoti” che celebrassero i misteri della corrente, proclamando dogmi e verità di Stato; senza autoreferenzialità, con linguaggio e cuore limpidi.

Pochissimo di tutto ciò si è verificato né si ha motivo di credere che le cose cambieranno in futuro.

Alle “contestazioni” preelettorali [si fa riferimento alle elezioni per il rinnovo del Comitato Direttivo Centrale dell’A.N.M., tenutesi nel novembre u.s.: ndr] – ignorate, deprecate e, da ultimo, “demonizzate” – si è risposto duramente, senza alcuno spazio per un vero dialogo.

La mailing list del Movimento è stata ridotta al silenzio: quello stesso silenzio in cui si rifugiano quei coniugi che si illudono di consegnare ad esso – piuttosto che a un dialogo litigioso, ma vivificante – le speranze di sopravvivenza del loro rapporto in declino.

E’ vero, non si litiga più platealmente, ma solo perché non c’è più un confronto in atto: tutto sembra essere improntato al manzoniano “sopire, padre molto reverendo!”; si spera, nelle difficoltà, in quel gran rimedio costituito dal tempo, poiché, come ci ricorda Rabelais: “(...) il tempo è padre della verità. Per questo, appunto, come fate voi, Signori, io soprassiedo, diluisco e differisco”.

La politica correntizia (e, purtroppo, non solo correntizia) è oggi troppo spesso impegnata al soprassiedere, diluire, differire.

E’ questa politica che ha indotto a pubblicare, nella lista generale, solo pochi giorni addietro, il documento redatto dal Direttivo in data 24.11.2007.

E’ incredibile che una debacle quale è quella verificatasi nelle recenti elezioni abbia ricevuto dal Movimento (gruppo che si dice politicamente avvertito e vivo) un commento così generico e tardivo.

Solo questo – viene da chiedersi – ci si è detti nel Movimento?

E se ci si è detti dell’altro, perché questo “altro” non viene detto pubblicamente?

Veramente il Movimento crede – come sembrerebbe doversi desumere dal detto documento – che la sconfitta non abbia nulla a che fare con le critiche e le analisi avanzate da vasti settori (interni e esterni al Movimento) e che essa sia figlia solo della “delusione per l’esito della vicenda ordinamentale”; dell’essere “apparsi, con M.D., gli unici o prevalenti responsabili di una gestione associativa”; dell’avere scontato “un’inadeguata comunicazione che ha reso disagevole l’apprezzamento esterno di talune decisioni e ha contribuito a rendere meno riconoscibile la nostra diversità”.

Veramente si crede che le “giunte unitarie”, il “volemose bene”, il restare nel sistema non abbiano recato danno alcuno a chi si presentava come “nuovo”?

Ma c’è di peggio.

C’è che non solo è stata denervata la mailing list generale, ma la stessa lista “riservata” è destinata a identica sorte, apparendo, allo stato, un vasca di decantazione per argomenti scottanti: una decantazione determinata – così sembrerebbe – dalla necessità di non rendere pubblici fatti in contrasto con gli slogans ufficiali.

Rimangono così ignoti ai più fatti di estrema gravità che impongono a chi ne ha conoscenza un silenzio nel quale è difficile distinguere dove finisce il dovere di fedeltà alla riservatezza e dove comincia la connivenza.

Come è stato benissimo detto, da ultimo, da Marco Panicucci e da Tomaso Epidendio, il problema non è di poco conto.

Se infatti il “chiuso” e l’“appartenenza” ben poco si addicono all’agire di magistrati (associati o meno), in niente e per nulla essi possono caratterizzare chi è nato per rompere le chiusure e le “appartenenze”, a chi ha chiamato a raccolta gli uomini di buona volontà, perché liberamente parlando e confrontandosi, potessero affrontare tutti i temi reali accuratamente glissati dalle nomenkalture, dedite per lo più ad affrontare problemi finti o di comodo (questo desiderio di dibattito serio e privo di “appartenenza” è stato, da ultimo, l’ispiratore della corale richiesta di una mailing-list che non sia riservata agli aderenti di questa o quella corrente).

Prendere atto di tutto ciò ha – per chi tutto ciò non condivida – non già il sapore dell’avverarsi di una profezia (e tanto meno di una vittoria), ma quello ben più amaro di un insuccesso personale.

Tanto più amaro quanti più siano gli anni e le fatiche spesi perché il Movimento potesse essere ciò che aveva promesso.

Tanto più triste quanto più sia abbia consapevolezza dell’alto senso morale che anima tanti colleghi e amici del Movimento.

Ma, come dicevo all’inizio, amicus Plato ... Non si può avere l’intima convinzione dell’agonia (politica) del Movimento e attestare pubblicamente la sua validità e vitalità.

Non si può avere l’intima convinzione della sua reticenza verticistica e attestare pubblicamente la sua democraticità e trasparenza.

Non si può militare in una “corrente” e, al tempo stesso, criticare le correnti in quanto forma “degenerate” dell’associazionismo.

Chi è più in là con gli anni ha innanzitutto un dovere di testimonianza secondo criteri e dettami che, per fallibili che siano, lo obbligano a procedere in una direzione ben precisa.

Un dovere di testimonianza concernente – sia chiaro – non altro che la progettualità e la prassi politiche seguite dal Movimento: si può essere tutti stimatissime persone pur dividendosi nello scegliere e seguire strade politicamente inconciliabili.

Nessuno me ne vorrà dunque se prendo atto, con un rammarico e una commozione che non intendo nascondere, del fatto che il Movimento ha scelto vie inconciliabili con quella scelta da me vent’anni or sono.

Un saluto un po’ triste, ma sinceramente cordiale, a tutti.

Roma, 13 gennaio 2008.

Stefano Racheli


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