di Tomaso E. Epidendio
(Giudice del Tribunale di Milano)
E’ un dato di fatto che magistrati appartenenti a diverse correnti (o addirittura a nessuna), alcuni dei quali neppure si conoscevano personalmente, si sono trovati concordi nel considerare necessario un segnale forte di protesta, quale l’astensione, per rimarcare il divario che si stava creando tra singoli associati e il modo di operare della politica associativa, denunciando i rischi dell’adozione della logica dell’appartenenza.
Diversi sono i percorsi personali che hanno portato ciascuno a questo passo, nel mio caso i rischi (ancor maggiori) che degenerazioni correntizie avrebbero comportato con i nuovi assetti dell’ordinamento giudiziario.
I pericoli principali derivano a mio avviso da un riconoscimento solo formale dell’indipendenza che, pur nel rispetto delle competenze degli organi di autogoverno (e anzi proprio attraverso un abnorme aumento dei poteri di questi organi sui singoli giudici), finisce per rappresentare ormai un possibile “rischio interno” rispetto alla sottoposizione del giudice alla sola legge, soprattutto attraverso l’eccessiva burocratizzazione dell’attività che finisce per rendere oscure ed incerte le regole da rispettare, ed esporre i singoli giudici a reazioni di fatto incontrollabili.
Anche su uno dei temi più spinosi, quale la valutazione della professionalità, il nuovo art. 11 al comma 2 contiene una disposizione apparentemente tranquillizzante “la valutazione di professionalità ... non può riguardare in nessun caso l’attività di interpretazione di norme di diritto, né quella di valutazione del fatto e delle prove”; però nello stesso comma alla lett. a) si stabilisce che nel valutare la capacità si debba tenere conto dell’“esito degli affari nelle successive fasi e nei gradi del procedimento e del giudizio”, mentre il successivo comma 4 lett. f) prevede che si tenga conto delle “segnalazioni pervenute dal consiglio dell’ordine degli avvocati sempre che si riferiscano ... ai comportamenti che denotino evidente mancanza di ... preparazione giuridica”: tutti questi parametri valutativi implicano giudizi su come è stata interpretata la legge e su come sono stati valutati i fatti e le prove.
L’elasticità e parziale contraddittorietà delle formule usate, che consentono la più ampia discrezionalità e che coinvolgono aspetti di interpretazione della legge, costituiscono perciò un indubbio fattore di rischio, specie in presenza di previsioni radicali sull’avanzamento in carriera quali la dispensa dal servizio stabilita dallo stesso art. 11 comma 13. Non sembra davvero che sia un evocare fantasmi del passato, richiamare alla memoria il mai abbastanza vituperato esame da aggiunto di cui già Cordero ha detto tutto il male che si doveva e si deve dire.
Analoghe considerazioni possono essere sviluppate in tema di tipizzazione e burocratizzazione del procedimento disciplinare e cautelare, il cui clamore attuale è di per sé significativo delle difficoltà e dei rischi di cui stiamo parlando, soprattutto in un quadro di regole estremamente complicato che, temo, si caratterizzerà per l’emanazione di circolari sempre più lunghe e dettagliate, variabili ai diversi livelli territoriali (tra C.S.M. e Consigli giudiziari, o nuove Commissioni), senza che siano neppure previsti limiti o possibilità di reazione in caso di superamento dei carichi di lavoro tollerabili o di insufficienza o inidoneità delle strutture messe a disposizione, facendo ricadere sul singolo magistrato ogni responsabilità.
Certo sarebbe ingeneroso e non sarebbe neppure fondato ritenere che tutti i problemi di cui sopra nascano soltanto dall’insufficienza della politica associativa. Sarebbe però altrettanto sbagliato nascondersi l’esigenza, in questo contesto, di una radicale presa di distanza dalla logica dell’appartenenza nella politica associativa.
Suggestivo e illusorio è infatti l’argomento secondo cui non ci si dovrebbe preoccupare, in quanto quello che importa sono le persone, perché sono queste a far funzionare le istituzioni bene o male, ed anzi a maggior ragione bisognerebbe andare a votare proprio per eleggere i migliori e consentire la miglior azione possibile.
In realtà la forma delle istituzioni in cui ci si trova ad operare non è indifferente e condiziona e plasma l’azione dei singoli, di tal che occorre avere una “buona” forma ordinamentale che garantisca dagli eccessi, perché i singoli possano agire per il meglio e perché tutti noi possiamo sentirci garantiti nella nostra indipendenza (il fatto che sia esistito Pericle non ci tranquilizza certo dai pericolo della “monarchia del primo cittadino”).
Non credo quindi che, in questo contesto e con queste premesse, una protesta trasversale che denunci la logica dell’appartenenza possa essere liquidata come una mera forma di “qualunquismo”.
Tutti noi sappiamo che il termine “qualunquismo” deriva dal movimento sorto intorno alla rivista dell’Uomo Qualunque fondata nel 1944 da Guglielmo Giannini e animata da una viscerale ostilità verso la politica e soprattutto dei partiti antifascisti, che ebbe un certo successo elettorale, talmente effimero da non superare la legislatura: analoga sorte toccherà un decennio dopo ai “poujadisti” francesi, uniti intorno a Pierre Poujard, fondatore dell’Unione dei Commercianti e degli artigiani, anch’egli ricondotto a un qualunquismo di destra con venature xenofobe.
Confondere questi fenomeni con il presente significa a mio avviso non aver colto differenze essenziali tra chi esprime solo generica avversità verso la politica (in questo caso sarebbe quella associativa) ma poi contraddittoriamente si costituisce anch’esso in formazione politica, e chi invece non contesta la necessità della “politica (associativa)”, ma solleva specifiche critiche sugli indirizzi presi su problemi ben individuati, chiedendo ben precisi comportamenti.
Penso che alla forza dei valori imposti dal fatto non si possano opporre ragioni procedurali di fedeltà alla linea del gruppo di cui si fa parte e che, in questi casi, la logica dell’appartenenza (proprio per difendere i valori che il gruppo rappresenta) comporti la necessità di una protesta che è fisiologica e istituzionale e che sarebbe un errore non considerare o delegittimare, perché significherebbe privare il gruppo medesimo (corrente o movimento che sia) della necessaria dialettica tra i suoi vertici (o rappresentanti) e i propri associati.
La trasversalità della protesta e il fatto che la medesima non voglia rappresentare un gruppo autonomo, più che una contraddizione dovrebbe essere vista come un segnale della gravità delle ragioni al suo fondamento, ragioni più estese rispetto a quelle di una singola corrente e tali da riunire consenso anche tra i diversi gruppi, secondo una dinamica ben conosciuta, per la quale sembra inutile scomodare la teoria delle reti sociali, ma che comunque non può far dimenticare l’insufficienza degli approcci tradizionali (sottesi all’accusa di qualunquismo) ad esaminare fenomeni moderni che ormai presentano una ben diversa complessità di rapporti e legami contestuali di diversa forza tra i vari individui.
Credo invece che alla base di questo fenomeno stia, a mio avviso, l’emersione di una visione più concreta e realistica della medesima esigenza che sta a cuore a tutti nell’associazione, quella di tutelare l’indipendenza della magistratura, e dei problemi che questo obiettivo comporta e che hanno evidenziato insufficienze lamentate da più parti: emblematico ad esempio quello delle rivendicazioni retributive da più parti avanzate, che non possono certo essere sdegnosamente liquidate come una bassezza rispetto alla tutela di più alti principi, posto che una delle forme più larvate e insidiose di attacco al prestigio e all’indipendenza di una istituzione è proprio quella di impoverirla in sé e nei suoi componenti.
Solo attraverso una netta inversione di tendenza e un progressivo abbandono della stretta logica dell’appartenenza (di cui è figlia la stessa accusa di qualunquismo) si possono affrontare queste nuove ed esiziali sfide, per vincere le quali il ruolo dell’associazione è e rimane fondamentale ma solo a patto che si distacchi definitivamente dalle logiche denunciate.
Per ottenere ciò è a mio avviso necessario un segnale forte e questo è dato dall’astensione.
(Giudice del Tribunale di Milano)
E’ un dato di fatto che magistrati appartenenti a diverse correnti (o addirittura a nessuna), alcuni dei quali neppure si conoscevano personalmente, si sono trovati concordi nel considerare necessario un segnale forte di protesta, quale l’astensione, per rimarcare il divario che si stava creando tra singoli associati e il modo di operare della politica associativa, denunciando i rischi dell’adozione della logica dell’appartenenza.
Diversi sono i percorsi personali che hanno portato ciascuno a questo passo, nel mio caso i rischi (ancor maggiori) che degenerazioni correntizie avrebbero comportato con i nuovi assetti dell’ordinamento giudiziario.
I pericoli principali derivano a mio avviso da un riconoscimento solo formale dell’indipendenza che, pur nel rispetto delle competenze degli organi di autogoverno (e anzi proprio attraverso un abnorme aumento dei poteri di questi organi sui singoli giudici), finisce per rappresentare ormai un possibile “rischio interno” rispetto alla sottoposizione del giudice alla sola legge, soprattutto attraverso l’eccessiva burocratizzazione dell’attività che finisce per rendere oscure ed incerte le regole da rispettare, ed esporre i singoli giudici a reazioni di fatto incontrollabili.
Anche su uno dei temi più spinosi, quale la valutazione della professionalità, il nuovo art. 11 al comma 2 contiene una disposizione apparentemente tranquillizzante “la valutazione di professionalità ... non può riguardare in nessun caso l’attività di interpretazione di norme di diritto, né quella di valutazione del fatto e delle prove”; però nello stesso comma alla lett. a) si stabilisce che nel valutare la capacità si debba tenere conto dell’“esito degli affari nelle successive fasi e nei gradi del procedimento e del giudizio”, mentre il successivo comma 4 lett. f) prevede che si tenga conto delle “segnalazioni pervenute dal consiglio dell’ordine degli avvocati sempre che si riferiscano ... ai comportamenti che denotino evidente mancanza di ... preparazione giuridica”: tutti questi parametri valutativi implicano giudizi su come è stata interpretata la legge e su come sono stati valutati i fatti e le prove.
L’elasticità e parziale contraddittorietà delle formule usate, che consentono la più ampia discrezionalità e che coinvolgono aspetti di interpretazione della legge, costituiscono perciò un indubbio fattore di rischio, specie in presenza di previsioni radicali sull’avanzamento in carriera quali la dispensa dal servizio stabilita dallo stesso art. 11 comma 13. Non sembra davvero che sia un evocare fantasmi del passato, richiamare alla memoria il mai abbastanza vituperato esame da aggiunto di cui già Cordero ha detto tutto il male che si doveva e si deve dire.
Analoghe considerazioni possono essere sviluppate in tema di tipizzazione e burocratizzazione del procedimento disciplinare e cautelare, il cui clamore attuale è di per sé significativo delle difficoltà e dei rischi di cui stiamo parlando, soprattutto in un quadro di regole estremamente complicato che, temo, si caratterizzerà per l’emanazione di circolari sempre più lunghe e dettagliate, variabili ai diversi livelli territoriali (tra C.S.M. e Consigli giudiziari, o nuove Commissioni), senza che siano neppure previsti limiti o possibilità di reazione in caso di superamento dei carichi di lavoro tollerabili o di insufficienza o inidoneità delle strutture messe a disposizione, facendo ricadere sul singolo magistrato ogni responsabilità.
Certo sarebbe ingeneroso e non sarebbe neppure fondato ritenere che tutti i problemi di cui sopra nascano soltanto dall’insufficienza della politica associativa. Sarebbe però altrettanto sbagliato nascondersi l’esigenza, in questo contesto, di una radicale presa di distanza dalla logica dell’appartenenza nella politica associativa.
Suggestivo e illusorio è infatti l’argomento secondo cui non ci si dovrebbe preoccupare, in quanto quello che importa sono le persone, perché sono queste a far funzionare le istituzioni bene o male, ed anzi a maggior ragione bisognerebbe andare a votare proprio per eleggere i migliori e consentire la miglior azione possibile.
In realtà la forma delle istituzioni in cui ci si trova ad operare non è indifferente e condiziona e plasma l’azione dei singoli, di tal che occorre avere una “buona” forma ordinamentale che garantisca dagli eccessi, perché i singoli possano agire per il meglio e perché tutti noi possiamo sentirci garantiti nella nostra indipendenza (il fatto che sia esistito Pericle non ci tranquilizza certo dai pericolo della “monarchia del primo cittadino”).
Non credo quindi che, in questo contesto e con queste premesse, una protesta trasversale che denunci la logica dell’appartenenza possa essere liquidata come una mera forma di “qualunquismo”.
Tutti noi sappiamo che il termine “qualunquismo” deriva dal movimento sorto intorno alla rivista dell’Uomo Qualunque fondata nel 1944 da Guglielmo Giannini e animata da una viscerale ostilità verso la politica e soprattutto dei partiti antifascisti, che ebbe un certo successo elettorale, talmente effimero da non superare la legislatura: analoga sorte toccherà un decennio dopo ai “poujadisti” francesi, uniti intorno a Pierre Poujard, fondatore dell’Unione dei Commercianti e degli artigiani, anch’egli ricondotto a un qualunquismo di destra con venature xenofobe.
Confondere questi fenomeni con il presente significa a mio avviso non aver colto differenze essenziali tra chi esprime solo generica avversità verso la politica (in questo caso sarebbe quella associativa) ma poi contraddittoriamente si costituisce anch’esso in formazione politica, e chi invece non contesta la necessità della “politica (associativa)”, ma solleva specifiche critiche sugli indirizzi presi su problemi ben individuati, chiedendo ben precisi comportamenti.
Penso che alla forza dei valori imposti dal fatto non si possano opporre ragioni procedurali di fedeltà alla linea del gruppo di cui si fa parte e che, in questi casi, la logica dell’appartenenza (proprio per difendere i valori che il gruppo rappresenta) comporti la necessità di una protesta che è fisiologica e istituzionale e che sarebbe un errore non considerare o delegittimare, perché significherebbe privare il gruppo medesimo (corrente o movimento che sia) della necessaria dialettica tra i suoi vertici (o rappresentanti) e i propri associati.
La trasversalità della protesta e il fatto che la medesima non voglia rappresentare un gruppo autonomo, più che una contraddizione dovrebbe essere vista come un segnale della gravità delle ragioni al suo fondamento, ragioni più estese rispetto a quelle di una singola corrente e tali da riunire consenso anche tra i diversi gruppi, secondo una dinamica ben conosciuta, per la quale sembra inutile scomodare la teoria delle reti sociali, ma che comunque non può far dimenticare l’insufficienza degli approcci tradizionali (sottesi all’accusa di qualunquismo) ad esaminare fenomeni moderni che ormai presentano una ben diversa complessità di rapporti e legami contestuali di diversa forza tra i vari individui.
Credo invece che alla base di questo fenomeno stia, a mio avviso, l’emersione di una visione più concreta e realistica della medesima esigenza che sta a cuore a tutti nell’associazione, quella di tutelare l’indipendenza della magistratura, e dei problemi che questo obiettivo comporta e che hanno evidenziato insufficienze lamentate da più parti: emblematico ad esempio quello delle rivendicazioni retributive da più parti avanzate, che non possono certo essere sdegnosamente liquidate come una bassezza rispetto alla tutela di più alti principi, posto che una delle forme più larvate e insidiose di attacco al prestigio e all’indipendenza di una istituzione è proprio quella di impoverirla in sé e nei suoi componenti.
Solo attraverso una netta inversione di tendenza e un progressivo abbandono della stretta logica dell’appartenenza (di cui è figlia la stessa accusa di qualunquismo) si possono affrontare queste nuove ed esiziali sfide, per vincere le quali il ruolo dell’associazione è e rimane fondamentale ma solo a patto che si distacchi definitivamente dalle logiche denunciate.
Per ottenere ciò è a mio avviso necessario un segnale forte e questo è dato dall’astensione.
3 commenti:
LA MAGISTRATURA DEVE RIMANERE INDIPENDENTE E IMPARZIALE, COSA CHE PURTROPPO NON STA AVVENDENDO.
SONO CONVINTA CHE IL PRIMO MODO DI DIFENDERSI DAL CONTROLLO DELLA POLITICA SUL VOSTRO OPERATO DEVE PARTIRE DA VOI TUTTI MAGISTRATI COALIZZATI INSIEME.
SE I MAGISTRATI SONO I PRIMI A NON SENTIRSI SICURI E PROTETTI DALLE ISTITUZIONI POSSONO ESSERLO I CITTADINI?
CREDO CHE ABBIATE NON SOLO L'OBBLIGO MORALE DI DIFENDERE LA VOSTRA CATEGORIA, MA AVETE UN OBBLIGO SOPRATTUTTO VERSO I CITTADINI ITALIANI PER I QUALI DOVETE APPLICARE LE LEGGI E TUTELARE I LORO DIRITTI.
NON POTETE ESSERE I PRIMI A FARVI COMANDARE E PIEGARE DAI POTERI FORTI E DAL SISTEMA CORROTTO ALTRIMENTI COME PUO' LA GENTE PENSARE DI VIVERE IN UNO STATO DI DIRITTO ED ESSERE GIUDICATI IN MANIERA EQUA ED IMPARZIALE?
QUELLO CHE E' SUCCESSO ULTIMAMENTE CON DE MAGISTRIS E LA FORLEO E' EMBLEMATICO, E' LA PROVA IRREVERSIBILE CHE LA LEGGE NON E' UGUALE PER TUTTI E CHE VIGE LA LEGGE DEL: VINCE SEMPRE E SOLO IL PIU' FORTE.
PENSO CHE LA MAGISTRATURA DOVEVA FARE FRONTE COMUNE PER TUTELARE DUE MAGISTRATI, NE AVREBBE GUADAGNATO IN IMMAGINE E CREDIBILITA'.
LA GENTE PARTEGGIA PER LA FORLEO E DE MAGISTRIS PROPRIO PERCHE' FANNO IL LORO DOVERE NON PER SE STESSI, MA IN NOME DELLA LEGGE E QUINDI DI TUTTI NOI ITALIANI.
SONO MAGISTRATI MA ANCHE CITTADINI COME NOI, CERTAMENTE CON PIU' POSSIBILITA' DI CAMBIARE LE COSE IN QUESTO PAESE E BEN VENGANO QUINDI PERSONE COME LORO, VANNO AIUTATE NON OSTACOLATE.
POI NON POSSO CHE PROVARE OGNI VOLTA IL TIMORE CHE MAGISTRATI INDIPENDENTI FACCIANO PRIMA O POI LA FINE DI ALTRI LORO COLLEGHI CHE ABBANDONATI DALLE ISTITUZIONI HANNO PAGATO CON LA LORO VITA L'INTEGRITA' MORALE.
NON POSSIAMO SACRIFICARE OGNI VOLTA GENTE CHE VUOLE FARE SOLO IL SUO DOVERE.
NON LO SI PUO' PERMETTERE!
VOGLIAMO LA LEGALITA'E LA GIUSTIZIA IN QUESTO PAESE SENZA IL SACRIFICIO DI NESSUNO!
PER NON ABBASSARE LA GUARDIA!
WWW.CENTOMOVIMENTI.COM - 30 OTTOBRE 2007
Parola ai Magistrati
Tommaso Merlo
Perché se un Magistrato viene minacciato non dovrebbe denunciare pubblicamente quanto gli accade? Il Magistrato è un funzionario pubblico che rischia la propria vita per perseguire la Giustizia, e se forze terze lo ostacolano nel suo lavoro impedendogli la ricerca della verità, perché mai non dovrebbero denunciarle? Cosa dovrebbero fare, subire le intimidazioni in silenzio finché qualcuno non gli chiuderà la bocca per sempre? Oppure dovrebbero arrendersi a coloro a cui stanno dando fastidio per amore del quieto vivere o della carriera?
I Magistrati non possono parlare di fatti relativi ad inchieste specifiche. Ma qui si sta parlando d'altro. E cioè di quando la funzione pubblica di un Magistrato in sè, viene impedita dalla politica o minacciata da forze criminali occulte. In tali circostanze, i cittadini hanno diritto di essere informati, perché se nel proprio paese ci sono gruppi d'interessi, palesi o meno, che si ritengono al di sopra della legge, ne va della democrazia. In gioco c'è infatti sia l'indipendenza della Giustizia che l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
Per questo, i richiami alla riservatezza piovuti su De Magistris e sulla Forleno, sembrano alquanto impropri soprattutto se giungono da certa sinistra. Quando la Procura di Milano si occupava di Berlusconi, la Boccassini era issata ad eroina della Giustizia italiana. E quella stessa sinistra non perdeva occasione di lodare il coraggio della "rossa". Oggi, invece, oltre ad un silenzio agghiacciante da parte del Governo in palese conflitto d'interessi sulla triste vicenda Mastella, si percepisce il fastidio politico per quei Magistrati intrepidi.
Perché, cosa è cambiato? La cosa certa è che la Forleo sta indagando sulla vicenda Unipol in cui sono coinvolti gli ex vertici Ds, oggi Pd.E che De Magistris si occupava di un giro di corruzione a spese della Commissione Europea e nel quale potrebbe essere coinvolto Mastella e perfino Prodi oltre a dozzine di politici calabresi. Inchieste scomode al punto che con Prodi è avvenuto quello che ha tentato di fare Previti per anni. La politica ha bloccato le inchieste prima ancora che giungano a termine. La classica difesa dai processi.
Vicende di una gravità assoluta per gli equilibri democratici, e che se non si porrà rimedio, apriranno scenari agghiacciati in cui la politica deciderà quali processi si potranno celebrare e quali no. Una situazione aggravata dalle intimidazioni che devono subire i Magistrati impegnati a far luce su vicende che toccano i piani alti del potere e quelli della pubblica amministrazione. Per questo, i magistrati come De Magistris e la Forleo hanno tutto il diritto di parlare. Anzi, il dovere.
COMMENTA QUESTO ARTICOLo nel blog di centomovimenti.com
Ultimamente mi preoccupano e mi rincuorano alcune cose accadute nelle vicende De Magistris e Forleo.
Dal mondo politico è arrivato un messaggio quasi all'unanimità di invitare al silenzio con riferimenti espliciti ai magistrati in questione con l'utilizzo soprattutto mediatico ma non solo (e questo mi inquieta molto) di convincere l'opinione pubblica che i magistrati non hanno il diritto di far sapere cosa sta accadendo direttamente alle loro vicende e indirettamente all'indipendenza della magistratura.
Ultimi episodi sono gli interventi dal mondo politico di Luciano Violante, iscritto al PD, che in una trasmissione televisiva ha invitato esplicitamente i magistrati a non denunciare i fatti mediaticamente per evitare che l'opinione pubblica dubitasse del buon funzionamento delle istituzioni proposte a garantire l'ordine e la gisutizia.
Lo stesso avvertimento proviene anche dal C.S.M. dove il vice Presidente Nicola Mancino ex Ministro degli interni quando furono ammazzati i giudici Falcone e Borsellino, dove lo stesso Mancino invitò Borsellino per incontrarlo mentre stava interrogando Gaspare Mutolo, a sole 48 ore dalla strage, gli fece invece incontrare il capo della Polizia Parisi e il funzionario del Sisde Contrada. Da quell'incontro Paolo uscì sconvolto tanto, come raccontò lo stesso Mutolo, da tenere in mano due sigarette accese contemporaneamente. Di cosa si dissero in quell'incontro nulla si sa... Mancino non ricorda... e Salvatore Borsellino ha sempre chiesto all'ex ministro di fare uno sforzo di memoria... ma pare che nessuno dei tre ricordi ciò che si disse in quel giorno.
Ieri la Forleo ha ribadito che continuerà a parlare e che rifiuta la scorta dei carabinieri ritenendo che non è la piazza che la minaccia ma le istituzioni...
Risposte dal mondo politico alla Forleo non ne arrivano... e ciò preoccupa e rincuora...
Preoccupa perchè vuol dire che la Forleo ha ragione su tutto ciò che sta facendo e denunciando, anche sull'utilizzo degli strumenti mediatici, ciò vuol dire che chi ha finora accusato questi magistrati di turbare l'opinione pubblica invitandoli alla discrezione si trova allora, secondo logica, dalla parte del torto e cioè dalla parte di chi non vuole che queste vicende vengano rese note... e teoricamente dovrebbe pagarne le conseguenze a livello politico. Di solito chi invita al silenzio chi subisce dei sopprusi è lo stesso che commette questi sopprusi, vedi l'omertà in Sicilia sulle vicende mafiose. L'unico interessato a voler far tacere chi subisce la prepotenza malavitosa è la stessa mafia.
Mi rincuora invece perchè vuol dire che la Forleo ha ragione e la sporcizia che c'è dietro o sotto sta venendo a galla. E' un esempio di civiltà dove gli oppressi dovrebbero prenderla da esempio per cominciare a loro volta a denunciare gli abusi subiti.
Ora cosa si denota dal fatto che quasi tutto il mondo politico ha preso le distanze dal difendere e incoraggiare la Forleo a parlare ma al contrario di invitarla al silenzio, si denota che il comitato d'affari dietro queste vicende è molto più ampio di quanto ci potevamo immaginare, addirittura trasversale, dove la questione morale denunciata dall'ultimo grande personaggio politico di questo paese, Berlinguer, è andata a farsi friggere anche da chi si fa scudo ancora oggi della memoria di quel grande uomo POLITICO.
E quanti sono coinvolti in questo famoso comitato d'affari? Quanti magistrati hanno venduto i loro ideali di giustizia per potersi colludere con questo sistema? Quanti ufficiali dell'esercito, della polizia, dell'arma dei carabinieri e della Guardia di finanza sono coinvolti? Quanti funzionari statali o di banche fanno parte di questo sistema? Quanti industriali e professionisti hanno deciso di intraprendere questa strada per trovare posizioni privilegiate rispetto al resto dei cittadini italiani?
Suona tanto di P2... ma chi sono questi poteri occulti quindi? Si parla spesso di poteri occulti ultmamente ma nessuno ne parla esplicitamente... ma basta guardare in faccia alla realtà per capire questo famoso potere cos'è e da chi è composto... basta seguire un pò la storia e le vicende del nostro paese sommandole agli ultimi eventi di Milano e di Catanzaro per capire di cosa stiamo parlando...
Ricordando l'ultima puntata di Annozero, il servizio deidicato a Salvatore Borsellino dove una ragazzina di 18 anni, piangente, chiedeva alle prossime elezioni a chi dovrebbe dare la sua fiducia, il suo voto... a 18 anni quella ragazza ha capito perfettamente qual è la realtà... la finta democrazia che ci sognamo di esportare nel resto del mondo a suon di bombe... quei paesi ne farebbero certamente a meno di questo tipo di democrazia...
Ci sarebbero da scrivere dei libri e magari tante cose non possono essere dette per prudenza... ma la realtà che percepiamo è quella di essere impotenti e delegittimati quando il ruolo della rappresentanza viene tradito per trasformarsi in un'oligarchia partitocratica autoreferenziale.
Magari in tutto questo gioca anche il fatto che alcuni articoli costituzionali sono ambigui, paerchè lasciano torppa libera interpretazione a chi ne vuol far mal uso, o addirittura sbagliati come ad esempio l'art. 67 che prevede il mandato imperativo, dove il singolo rappresentante del popolo è libero anche di non tener conto dell promesse fatte in campagna elettorale e dalle idiologie promosse in fase elettorale. Il mandato vincolato sarebbe la soluzione ottimale, dove ciò che prometti devi fare. E dove magari su questioni dove l'opinione pubblica in maggioranza risulta contraria al provvedimento da prendere, questa deve essere ascoltata...
Concludo, se Violante ed altri, quindi, risultano avere torto marcio su tali avvertimenti, se i carabinieri non assolvono al loro ruolo in quanto non indagano sulle denunce effettuate dalla Forleo, se la scorta della stessa Forleo risulta inutile in quanto le minacce pervengono dal mondo delle istituzioni, se De Magistris, al quale è stata avocata l'inchiesta e al quale si è chiesto il trasferimento, risulta che nel registro degli indagati ci sono i nomi di due ministri, se da 30 a questa parte la politica e la stampa hanno continuato a martellare sul malfunzionamento e la delegittimazione del terzo potere, dove sul malfunzionamento vero e proprio poca luce è stata fatta e se le regole di trasparenza sono completamente assenti, ma dico... siamo proprio sicuri che l'Italia sia davvero un paese democratico?
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