di Federico Rampini
(Giornalista)
da Repubblica.it del 4 giugno 2009
“Per anni io e i miei amici abbiamo cercato di rintracciare il giovane che tenne testa ai carriarmati di Tienanmen - mi dice il dissidente cinese Xu Youyu - all’inizio abbiamo temuto che fosse stato arrestato, poi che fosse morto. Su di lui si formarono delle leggende, qualcuno sosteneva che si era fatto la chirurgia plastica per non farsi riconoscere. Oggi sono propenso a credere che sia ancora vivo”.
Xu non divulgherà mai degli indizi che possano portare a rintracciare quell’ex contestatore, la figura-simbolo della resistenza di vent’anni fa.
L’immagine fece il giro del mondo intero, divenne il simbolo della tragedia di Pechino.
È il 5 giugno 1989, già da 24 ore procede implacabile l’intervento militare per schiacciare la “primavera democratica”, quando diversi fotografi occidentali affacciati alle finestre del Beijing Hotel riprendono la scena.
Una colonna blindata scende lungo il Viale della Pace Eterna, di colpo è costretta a immobilizzarsi. Un giovane si è piazzato in mezzo alla strada, blocca il carroarmato di testa.
Sta ritto in piedi, con la mano sinistra tiene la giacca a penzoloni, con la destra due sacchetti di plastica della spesa.
La scena sembra irreale: i tank fermi uno dopo l’altro in fila indiana, quella figura esile che sembra soggiogarli.
L’autista del primo blindato fa manovra, cerca di aggirare il ragazzo sulla destra.
Lui gli si para davanti di nuovo, allarga le braccia come si fa per domare una bestia.
Poi il giovane fa un salto, sale sul carroarmato per parlare col soldato visibile dalla feritoia.
“Tornate indietro! Smettete di uccidere il nostro popolo!” è l’urlo che i testimoni ricordano.
Poi tutto accade in un attimo: il ragazzo è sceso dal blindato, ora è circondato da amici che lo aiutano a scappare.
La sua sorte è rimasta un mistero affascinante.
In Occidente quelle foto divennero il ricordo di un coraggio inaudito, rafforzarono la solidarietà verso la protesta studentesca.
Si è creduto che il regime cinese avrebbe fatto il possibile per catturare il protagonista di quel gesto sfrontato.
Nel ventesimo anniversario del massacro, ricostruire quelle ore aiuta a capire la strategia della repressione: chi fu colpito, come, con quali priorità.
La Cina di oggi è figlia del dopo-Tienanmen, quando il regime stabilì un ordine e una logica nel castigo.
Lontano da Tienanmen. “La repressione armata - ricorda Xu - non avvenne a Piazza Tienanmen ma più lontano. Le cataste di cadaveri io le vidi sulle vie Fuyou e Changan. I massacri peggiori avvennero all’ingresso dei blindati in città, e nelle aree di Fuxingmen e Muxidi”.
Il ragazzo che sfidò i tank senza che dai blindati partisse un solo colpo, era per fortuna troppo vicino a Tienanmen: una piazza dal potente significato simbolico, dove i leader comunisti volevano ridurre al minimo lo spargimento di sangue.
Tienanmen è da secoli il luogo sacrale del potere cinese, all’ingresso della Città Proibita dove viveva l’imperatore.
La sua importanza è stata rafforzata dall’iconografia rivoluzionaria: il rinascimento repubblicano della Cina si fa risalire alla manifestazione degli studenti il 4 maggio 1919 in quella piazza; Mao Zedong vi proclamò la vittoria del comunismo nell’ottobre 1949 e la sua salma imbalsamata è custodita nel mausoleo centrale.
Per questo nel maggio 1989 gli studenti scelsero di lanciare proprio lì lo sciopero della fame.
Per questo la propaganda del regime nelle terribili giornate di giugno si ostinava a ripetere che “nessuno era stato ucciso a Tienanmen”.
Il numero delle vittime è tuttora un segreto di Stato, le stime raccolte da Amnesty International variano fra 700 e 3.000 morti.
Ma le versioni concordano su questo: pochi morirono dentro il “cerchio magico”, il perimetro della piazza stessa.
Deng Xiaoping, l’anziano leader che orchestrò l’intervento dell’esercito, non voleva lasciare in eredità al regime comunista la maledizione di una carneficina avvenuta in un luogo troppo gravido di storia.
Nei mesi successivi la repressione seguì un criterio, non fu indiscriminata.
L’intellettuale dissidente Zhang Boshu, che oggi è uno dei firmatari di Charta 08, ricorda la caccia alle streghe.
“Deng e i suoi sapevano che l’uso della forza militare era stato illegale. Perciò dopo il 4 giugno gli arresti, le condanne e le deportazioni, tutto avvenne in segreto. Non ci fu un solo processo pubblico. C’erano i super-ricercati e le liste di proscrizione nei luoghi di lavoro. Le sezioni del partito comunista erano incaricate di fare le istruttorie a carico dei colpevoli. Era così in ogni luogo di lavoro, comprese le università e l’Accademia delle Scienze dove lavoro”.
Zhang ricorda di essere stato fortunato, di aver scansato le punizioni più esemplari.
“Eravamo tantissimi ad aver partecipato al movimento per la democrazia. Per mesi quella era stata una protesta di massa. Era impensabile punire tutti: avrebbero dovuto arrestare metà della popolazione di Pechino. Io scampai al peggio perché non ero iscritto al partito. Uno dei bersagli contro cui si accanirono dopo il 4 giugno erano i comunisti doc. La priorità di Deng era l’epurazione interna. Il nemico più odiato era la corrente dei riformisti democratici all’interno del partito, gli amici di Zhao Ziyang, il segretario generale che Deng aveva deposto con un golpe. Quella era la minaccia, perché Zhao aveva goduto di un consenso reale tra gli stessi comunisti, il partito si era spaccato in due”.
Andò peggio agli operai. Due pesi e due misure si avvertirono nel diverso trattamento riservato a studenti e operai.
Già l’8 giugno 1989 l’ufficio della Pubblica sicurezza di Shanghai arrestava 13 operai, 3 dei quali vennero condannati a morte e fucilati dal plotone di esecuzione.
Delle 48 esecuzioni pubbliche a Pechino nei giorni seguenti nessuna ebbe per vittima uno studente.
Era partita la grande operazione di recupero delle élite, la lunga marcia per cooptare intellettuali e studenti al servizio del potere.
La vera lezione che i leader comunisti impararono da quelle giornate è questa: non bisogna mai più ritrovarsi “contro” la parte più istruita e moderna della società.
Per gli irriducibili cominciò la traversata del deserto, una serie di vessazioni che durano ancora oggi: promozioni negate, niente permessi di viaggio all’estero, l’emarginazione costante.
Uno stillicidio di vendette che non ha impedito a Xu e Zhang di continuare la loro lotta per i diritti umani.
Con tutti gli altri il regime è stato magnanime, e l’elargizione di vantaggi alle professioni intellettuali è stata redditizia.
“Vent’anni dopo - ammette Zhang - non c’è all’orizzonte una forza alternativa al partito comunista, non esiste un movimento che possa guidare la transizione pacifica verso la democrazia. E’ dentro il partito comunista che deve nascere questa spinta per il cambiamento”.
1 commenti:
Molti anni fa lessi qualche pagina di un libro scritto da un industriale italiani che si trovò a Pechino durante la rivolta di Tien An Men. Malgrado che questo industriale fosse fermamente anticomunista, la sua tesi è ben diversa dalla vulgata ufficiale. Egli afferma che la rivolta cominciò perchè gli studenti protestavano contro la riduzione delle sovvenzioni alle università statali, sovvenzioni che il regime comunista stava incanalando verso la nascente industria privata. Si trattava, se ho ben capito, di una rivolta fatta in nome dell'ortodossia comunista. Lo stesso industriale aveva rilevato che, mentre molti manifesti in cinese protestavano contro le autorità in nome dell'ortodossia comunista, i manifesti in inglese chiedevano più libertà e democrazia. Lessi pure che le autorità cinesi, prima di procedere alla repressione, inviarono molti militari in mezzo alla folla che li malmenò e li disarmò in presenza di molte telecamere della televisione di stato che ripresero queste scene e le trasmisero largamente suscitando una reazione di rigetto nei confronti di studenti considerati dei piccoli borghesi da parte della società rurale della Cina di quell'epoca.
Questo lessi e questo scrivo. Bene inteso la repressione ci fu e fu brutale.
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