martedì 13 maggio 2008

Appello sul caso Schifani



Dal sito della Fondazione Critica Liberale traiamo notizia di un appello promosso da Senza Bavaglio sulla vicenda Schifani-Travaglio.

Ne riportiamo il testo.


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Io non ci sto.

Nei paesi democratici il ruolo dei giornalisti è proprio quello di osservare, verificare e poi raccontare.

Si chiama "diritto di cronaca".

E' uno dei diritti fondamentali su cui si fonda la democrazia.

Si racconta se il politico tradisce la moglie, se in gioventù si faceva qualche spinello, se è stato in un centro di riabilitazione per etilisti, se ha truccato le carte per non andare in guerra.

Per alcuni elettori queste informazioni sono importanti.

C'è chi non ama essere rappresentato da un donnaiolo, e chi non vuole essere rappresentato da un pavido.

È un loro diritto: ognuno deve poter scegliere da chi farsi rappresentare in base ai propri valori e avendone tutte le informazioni necessarie.

Ai politici, in tutto il mondo libero, questo non piace, ma accettano.

Sono le regole del gioco democratico, le uniche inventate finora, di meglio per ora non abbiamo.

E queste regole hanno costretto alla dimissione presidenti degli Stati Uniti e ministri di vari governi.

Tocca al giudice appurare se il giornalista dice il falso.

Ora la domanda di attualità è: il giornalista Marco Travaglio ha raccontato un fatto vero che riguarda Renato Schifani o un fatto falso?

Schifani & Co, l'opposizione & Co e anche gli organismi "DI CONTROLLO" della Rai possono indignarsi quanto vogliono, ma l'unico strumento democratico che ha Schifani è ricorrere al giudice, incaricato in democrazia di valutare se Travaglio ha detto il vero o il falso.

Tutte le altre prese di posizione mirano solo a limitare la democrazia e la libertà di critica della stampa.

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“Giornalismo è diffondere ciò che qualcuno non vuole si sappia, il resto è propaganda” (Horacio Verbitsky)


13 commenti:

Anonimo ha detto...

http://www.noglobal.org/nato/artic/schifani.htm
Capigruppo d'assalto: una vita da Schifani

Dossier tratto dall'Espresso di Agosto 2002

Capigruppo d'assalto: Una vita da Schifani,
società con presunti uomini d'onore e usurai. Consulenze ricevute dai Comuni in odore di mafia. E poi l'ascesa ai vertici di Forza Italia. Berlusconi? «Per me è come Cavour»

di Franco Giustolisi e Marco Lillo


Quando, dopo una settimana di nottate, blitz e tranelli ha portato a casa l'approvazione della legge sul legittimo sospetto, Renato Schifani ha sottolineato con il consueto senso delle istituzioni la sua vittoria sull'Ulivo: «Li abbiamo fregati». Il capo dei senatori forzisti è fatto così. «È la mia chiarezza che dà fastidio alla sinistra», ha detto a un settimanale che gli ha dedicato un editoriale lodando «lo stile Schifani». Questo avvocato di 52 anni, nonostante il riporto e gli occhiali da archivista, è l'uomo prescelto da Silvio Berlusconi come volto ufficiale di Forza Italia. E lui lo ripaga come può. In un articolo sul "Giornale di Sicilia" dal titolo "Cavour e il conflitto di interessi" afferma che anche lo statista piemontese era «in potenziale macroscopico conflitto di interessi perché aveva il giornale "Il Risorgimento", partecipazioni bancarie, grandi proprietà terriere e un'intensa attività affaristica». Proprio come Berlusconi, insomma, eppure nessuno gli disse nulla. Peccato che, come scrive Rosario Romeo a pagina 451 della sua biografia, Cavour appena diventò ministro «decise in primo luogo di liquidare gli affari nei quali era stato attivo fino ad allora». Ma Schifani per amore del capo è disposto a sfidare anche il ridicolo. Come quando si fa riprendere in tv accanto al santino del leader neanche fosse Padre Pio. Avvocato civilista e amministrativista, 52 anni, sposato e padre di due figli, amante delle isole Egadi, è stato eletto nel collegio di Corleone, cuore di quella Sicilia che ha dato il cento per cento degli eletti a Forza Italia. Per descrivere l'eroe del legittimo sospetto, l'uomo che ha scavato nottetempo la via di fuga dal processo milanese per Berlusconi e Previti, si potrebbe partire dalle sue radici democristiane. Ma applicando alla lettera il suo credo, «non bisogna usare il politichese ma parlare con serenità il linguaggio dell'uomo comune», sarà meglio partire da una constatazione: il capo dei senatori di Forza Italia è stato socio di affari (leciti) con presunti usurai e mafiosi.

Sua eccellenza Filippo Mancuso, solitamente bene informato, ha definito così il suo ex compagno di partito: «Un avvocato del foro di Palermo specializzato in recupero crediti». Schifani gli ha risposto con una lettera in cui difende la sua «onesta e onorata carriera» e nega di avere mai svolto una simile attività. Negli archivi della Camera di commercio di Palermo risulta però una società, oggi inattiva, costituita nel 1992 da Schifani con Antonio Mengano e Antonino Garofalo: la Gms. L'avvocato Antonino Garofalo (socio accomandante come Schifani) è stato arrestato nel 1997 e poi rinviato a giudizio per usura ed estorsione nell'ambito di indagini condotte dal sostituto Gaetano Paci della Procura di Palermo. L'ex socio di Schifani è ritenuto il capo di un'organizzazione che prestava denaro nella zona di Caccamo chiedendo interessi del 240 per cento. Schifani non è stato coinvolto nelle indagini ma certo non deve essere piacevole scoprire di essere stato socio con un presunto usuraio in un'impresa che come oggetto sociale non disdegnava: «L'attività esattoriale per conto terzi di recupero crediti e l'attività di assistenza nell'istruttoria delle pratiche di finanziamento...».

Schifani è stato sempre sfortunato nella scelta dei compagni delle sue imprese. In un rapporto dei carabinieri del nucleo di Palermo, di cui "L'Espresso" è in grado di rivelare i contenuti, si ricostruisce la storia di un'altra strana società di cui il capogruppo di Forza Italia è stato socio e amministratore per poco più di un anno. Si chiama Sicula Brokers, fu istituita nel 1979 e oggi ha cambiato compagine azionaria. Tra i soci fondatori, accanto a un'assicurazione del nord, c'erano Renato Schifani e il ministro degli Affari regionali Enrico La Loggia, nonché soggetti come Benny D'Agostino, Giuseppe Lombardo e Nino Mandalà. Nomi che a Palermo indicano quella zona grigia in cui impresa, politica e mafia si confondono. Benny D'agostino è un imprenditore condannato per concorso esterno in associazione mafiosa e, negli anni in cui era socio di Schifani e La Loggia, frequentava il gotha di Cosa Nostra. Lo ha ammesso lui stesso al processo Andreotti quando ha raccontato un viaggio memorabile sulla sua Ferrari da Napoli a Roma assieme a Michele Greco, il papa della mafia.

Giuseppe Lombardo invece è stato amministratore delle società dei cugini Ignazio e Nino Salvo, i famosi esattori di Cosa Nostra arrestati da Falcone nel lontano 1984 e condannati in qualità di capimafia della famiglia di Salemi. Nino Mandalà, infine, è stato arrestato nel 1998 ed è attualmente sotto processo per mafia a Palermo. Questo ex socio di Schifani e La Loggia era il presidente del circolo di Forza Italia di Villabate, un paese vicino a Palermo e proprio di politica parlava nel 1998 con il suo amico Simone Castello, colonnello del boss Bernardo Provenzano mentre a sua insaputa i carabinieri lo intercettavano. Mandalà riferiva a Castello l'esito di un burrascoso incontro con il ministro Enrico La Loggia, allora capo dei senatori di Forza Italia. Mandalà era infuriato per non avere ricevuto una telefonata di solidarietà dopo l'arresto del figlio (poi scagionato per un omicidio di mafia). E così raccontava di avere chiuso il suo colloquio con La Loggia: «Siccome io sono mafioso ed è mafioso anche tuo padre che io me lo ricordo quando con lui andavo a cercargli i voti da Turiddu Malta che era il capomafia di Vallelunga. Lo posso sempre dire che tuo padre era mafioso. A quel punto lui si è messo a piangere». La Loggia ha ammesso l'incontro ma ne ha raccontato una versione ben diversa. E anche Mandalà al processo ha parlato di millanteria. Nella stessa conversazione intercettata Mandalà parlava di Schifani in questi termini: «Era esperto a 54 milioni all'anno, qua al comune di Villabate, che me lo ha mandato il senatore La Loggia».

Schifani è stato sentito dalla Procura e, senza falsa modestia ha spiegato con la sua bravura la consulenza e lo stipendio: «Il mio studio è uno dei più accreditati in campo urbanistico in Sicilia». Ma per La Loggia sotto sotto c'era una raccomandazione: «Parlai di Schifani con Gianfranco Micciché (coordinatore di Forza Italia in Sicilia) e dissi: sta sprecando un sacco di tempo e quindi avrà dei mancati guadagni facendo politica. Vivendo lui della professione di avvocato dico se fosse possibile fargli trovare una consulenza. È un modo per dirgli grazie. E allora parlammo con il sindaco Navetta». Il sindaco Navetta è il nipote di Mandalà e il suo comune è stato sciolto per mafia nel 1998.

Il capogruppo di Forza Italia è stato sfortunato anche nella scelta dei suoi assistiti. Proprio un suo ex cliente recentemente ne ha fatto il nome in tribunale. La scena è questa: Innocenzo Lo Sicco, un mafioso pentito, il 26 gennaio del 2000 entra in manette in aula a Palermo e viene interrogato sulla vicenda di un palazzo molto noto in città, quello di Piazza Leoni. Le sue parole fanno balenare pesanti sospetti: «L'avvocato Schifani ebbe a dire a me, suo cliente, che aveva fatto tantissimo ed era riuscito a salvare il palazzo di Piazza Leoni facendolo entrare in sanatoria durante il governo Berlusconi perché, così mi disse, fecero una sanatoria e lui era riuscito a farla pennellare sull'esigenza di quegli edifici. Era soddisfattissimo. Perché lo diceva a me? Ma perché io lo avevo messo a conoscenza di qual era la situazione, l'iter, le modalità del rilascio della concessione...».

La Procura dopo aver analizzato le parole del pentito non ha aperto alcun fascicolo per la genericità del racconto. Comunque la storia di questo palazzo, scoperta dal giornalista de "la Repubblica" Enrico Bellavia, è tutta da raccontare. Comincia alla fine degli anni Ottanta quando Pietro Lo Sicco, imprenditore finanziato dalla mafia e zio di Innocenzo, mette gli occhi su un terreno a due passi dal parco della Favorita, una delle zone più pregiate di Palermo. Lo Sicco vuole costruirci un palazzo di undici piani ma prima bisogna eliminare due casette basse che appartengono a due sorelle sarde, Savina e Maria Rosa Pilliu, che non vogliono svendere. Pietro Lo Sicco le minaccia e le sorelle si rivolgono alla polizia. Ma la mafia è più lesta della legge: Lo Sicco ottiene la concessione edilizia grazie a una mazzetta di 25 milioni di lire e comincia ad abbattere l'appartamento a fianco. Quando le sorelle vedono avvicinarsi il bulldozer cominciano ad arrivare nel loro negozio i fusti di cemento. Il messaggio è chiaro: finirete lì dentro. Lo Sicco smentisce di essere il mandante ma la Procura offre alle Pilliu il programma di protezione. Oggi le sorelle sono un simbolo dell'antimafia: vivono proprio nel palazzo costruito da Lo Sicco e confiscato dallo Stato. Il costruttore è stato condannato a 2 anni e otto mesi per truffa e corruzione a cui si sono aggiunti sette anni per mafia.

All'inaugurazione del nuovo negozio costruito grazie al fondo antiracket, il senatore Schifani non c'era. Era dall'altra parte in questa vicenda. Il suo studio ha difeso l'impresa Lo Sicco davanti al Tar. Il pentito Innocenzo Lo Sicco, ha raccontato che lui stesso accompagnava l'avvocato Schifani negli uffici per seguire la pratica. Certo all'epoca l'imprenditore non era stato inquisito e il senatore non poteva sapere con chi aveva a che fare anche se il genero di Lo Sicco era sparito nel 1991 per lupara bianca. In quegli stessi anni Schifani assisteva anche altri imprenditori che sono incappati nelle confische per mafia, come Domenico Federico, prestanome di Giovanni Bontate, fratello del vecchio capo della cupola Stefano. Un settore quello delle confische che il senatore non ha dimenticato in Parlamento. Quando ha presentato un progetto di legge (il numero 600) per modificare la legge sulle confische e sui sequestri.

ha collaborato Giuseppe Lo Bianco


13.08.2002

Google.....che grande invenzione
:-)


mathilda

salvatore d'urso ha detto...

Prima Parte:

da www.dagospia.com
Giuseppe D'Avanzo per “la Repubblica”

E' utile ragionare sul "caso Schifani". E - ancora una volta - sul giornalismo d'informazione, sulle "agenzie del risentimento", sull'antipolitica. Marco Travaglio sostiene, per dirne una, che fin "dagli anni Novanta, Renato Schifani ha intrattenuto rapporti con Nino Mandalà il futuro boss di Villabate" e protesta: "I fascistelli di destra, di sinistra e di centro che mi attaccano, ancora non hanno detto che cosa c'era di falso in quello che ho detto". Gli appare sufficiente quel rapporto lontano nel tempo - non si sa quanto consapevole (il legame tra i due risale al 1979; soltanto nel 1998, più o meno venti anni dopo, quel Mandalà viene accusato di mafia) - per persuadere un ascoltatore innocente che il presidente del Senato sia in odore di mafia.


Che il nostro Paese, anche nelle sue istituzioni più prestigiose, sia destinato a essere governato (sia governato) da uomini collusi con Cosa Nostra. Se si ricordano queste circostanze (emergono da atti giudiziari) è per dimostrare quanto possono essere sfuggenti e sdrucciolevoli "i fatti" quando sono proposti a un lettore inconsapevole senza contesto, senza approfondimento e un autonomo lavoro di ricerca. E' un metodo di lavoro che soltanto abusivamente si definisce "giornalismo d'informazione".

Le lontane "amicizie pericolose" di Schifani furono raccontate per la prima volta, e ripetutamente, da Repubblica nel 2002 (da Enrico Bellavia). In quell'anno furono riprese dall'Espresso (da Franco Giustolisi e Marco Lillo). Nel 2004 le si potevano leggere in Voglia di mafia (di Enrico Bellavia e Salvo Palazzolo, Carocci). Tre anni dopo in I complici (di Lirio Abbate e Peter Gomez, Fazi). Se dei legami dubbi di Schifani non si è più parlato non è per ottusità, opportunismo o codardia né, come dice spensieratamente Travaglio a un sempre sorridente Fabio Fazio, perché l'agenda delle notizie è dettata dalla politica ai giornali (a tutti i giornali?).

Non se n'è più parlato perché un lavoro di ricerca indipendente non ha offerto alcun - ulteriore e decisivo - elemento di verità. Siamo fermi al punto di partenza. Quasi trent'anni fa Schifani è stato in società con un tipo che, nel 1994, fonda un circolo di Forza Italia a Villabate e, quattro anni dopo, viene processato come mafioso.

I filosofi ( Bernard Williams, ad esempio) spiegano che la verità offre due differenti virtù: la sincerità e la precisione. La sincerità implica semplicemente che le persone dicano ciò che credono sia vero. Vale a dire, ciò che credono. La precisione implica cura, affidabilità, ricerca nello scovare la verità, nel credere a essa. Il "giornalismo dei fatti" ha un metodo condiviso per acquisire la verità possibile. Contesti, nessi rigorosi, fonti plurime e verificate e anche così, più che la verità, spesso, si riesce a capire soltanto dov'è la menzogna e, quando va bene, si può ripetere con Camus: "Non abbiamo mentito" (lo ha ricordato recentemente Claudio Magris).



Si può allora dire che Travaglio è sincero con quel dice e insincero con chi lo ascolta. Dice quel che crede e bluffa sulla completezza dei "fatti" che dovrebbero sostenere le sue convinzioni. Non è giornalismo d'informazione, come si autocertifica. E', nella peggiore tradizione italiana, giornalismo d'opinione che mai si dichiara correttamente tale al lettore/ascoltatore. Nella radicalità dei conflitti politici, questo tipo di scaltra informazione veste i panni dell'asettico, neutrale watchdog - di "cane da guardia" dei poteri ("Io racconto solo fatti") - per nascondere, senza mai svelarla al lettore, la sua partigianeria anche quando consapevolmente presenta come "fatti" ciò che "fatti", nella loro ambiguità, non possono ragionevolmente essere considerati (a meno di non considerare "fatti" quel che potrebbero accusare più di d'un malcapitato).

L'operazione è ancora più insidiosa quando si eleva a routine. Diventata abitudine e criterio, avvelena costantemente il metabolismo sociale nutrendolo con un risentimento che frantuma ogni legame pubblico e civismo come se non ci fosse più alcuna possibilità di tenere insieme interessi, destini, futuro ("Se anche la seconda carica dello Stato è oggi un mafioso..."). E' un metodo di lavoro che non informa il lettore, lo manipola, lo confonde.


E' un sistema che indebolisce le istituzioni. Che attribuisce abitualmente all'avversario di turno (sono a destra come a sinistra, li si sceglie a mano libera) un'abusiva occupazione del potere e un'opacità morale. Che propone ai suoi innocenti ascoltatori di condividere impotenza, frustrazione, rancore. Lascia le cose come stanno perché non rimuove alcun problema e pregiudica ogni soluzione. Queste "agenzie del risentimento" lavorano a un cattivo giornalismo. Ne fanno una malattia della democrazia e non una risorsa. Si fanno pratica scandalistica e proficuamente commerciale alle spalle di una energica aspettativa sociale che chiede ai poteri di recuperare in élite integrity, in competenza, in decisione. Trasformano in qualunquismo antipolitico una sana, urgente, necessaria critica alla classe politico-istituzionale.

Nel "caso Schifani" non si può stare dalla parte di nessuno degli antagonisti. Non con Travaglio che confonde le carte ed è insincero con i tanti che, in buona fede, gli concedono fiducia. Non con Schifani che, dalle inchieste del 2002, ha sempre preferito tacere sul quel suo passato sconsiderato. Non con chi - nell'opposizione - ha espresso al presidente del Senato solidarietà a scatola chiusa. Non con la Rai, incapace di definire e di far rispettare un metodo di lavoro che, nel rispetto dei doveri del servizio pubblico, incroci libertà e responsabilità. In questa storia, si può stare soltanto con i lettori/spettatori che meritano, a fronte delle miopie, opacità, errori, inadeguatezze della classe politica, un'informazione almeno esplicita nel metodo e trasparente nelle intenzioni.

salvatore d'urso ha detto...

Seconda Parte

LA LETTERA
Su Schifani ho raccontato solo fatti
di MARCO TRAVAGLIO

Caro direttore, ringrazio D'Avanzo per la lezione di giornalismo che mi ha impartito su Repubblica di ieri. Si impara sempre qualcosa, nella vita.

Ma, per quanto mi riguarda, temo di essere ormai irrecuperabile, avendo lavorato per cattivi maestri come Montanelli, Biagi, Rinaldi, Furio Colombo e altri. I quali, evidentemente, non mi ritenevano un pubblico mentitore, un truccatore di carte che "bluffa", "avvelena il metabolismo sociale" e "indebolisce le istituzioni", un manipolatore di lettori "inconsapevoli", quale invece mi ritiene D'Avanzo. Sabato sera sono stato invitato a "Che tempo che fa" per presentare il mio ultimo libro, "Se li conosci li eviti", scritto con Peter Gomez, che in 45 giorni non ha avuto alcun preannuncio di querela.

E mi sono limitato a rammentare un fatto vero a proposito di uno dei tanti politici citati nel libro: e cioè che, raccontando vita e opere di Renato Schifani al momento della sua elezione a presidente del Senato, nessun quotidiano (tranne l'Unità e, paradossalmente, Il Giornale di Berlusconi) ha ricordato i suoi rapporti con persone poi condannate per mafia, come Nino Mandalà e Benny D'Agostino (ho detto testualmente: "Schifani ha avuto delle amicizie con dei mafiosi. rapporti con signori che sono poi stati condannati per mafia"; la frase "anche la seconda carica dello Stato è oggi un mafioso", falsamente attribuitami da D'Avanzo, non l'ho mai detta né pensata).

Quei rapporti, contrariamente a quanto scrive D'Avanzo, sono tutt'altro che "lontani nel tempo", visto che ancora a metà degli anni 90 Schifani fu ingaggiato, come consulente per l'urbanistica e il piano regolatore, dal Comune di Villabate retto da uomini legati al boss Mandalà e di lì a poco sciolto due volte per mafia. Rapporti di nessuna rilevanza penale, ma di grande rilievo politico-morale, visto che la mafia non dimentica, ha la memoria lunghissima e spesso usa le sue amicizie, anche risalenti nel tempo, per ricattare chi tenta di scrollarsele frettolosamente di dosso. In qualunque altro paese, casomai capitasse che il titolare di certi rapporti ascenda alla seconda carica dello Stato, tutti i giornali e le tv gli rammenterebbero quei rapporti: per questo, negli altri paesi, il titolare di certi rapporti difficilmente ascende ai vertici dello Stato.

Che cosa c'entri tutto questo con le "agenzie del risentimento" e il "qualunquismo antipolitico" di cui parla D'Avanzo, mi sfugge.

Secondo lui i giornali, all'elezione di Schifani a presidente del Senato, non hanno più parlato di quei rapporti perché nel frattempo non s'era scoperto nulla di nuovo. Strano: non c'era nulla di nuovo neppure sul riporto di Schifani, eppure tutti i giornali l'hanno doviziosamente rammentato. I lettori giudicheranno se sia più importante ricordare il riporto, oppure il rapporto con D'Agostino e Mandalà (che poi, un po' contraddittoriamente, lo stesso D'Avanzo definisce "sconsiderato"). Ora che - pare - Schifani ha deciso di querelarmi, un giudice deciderà se quel che ho detto è vero o non è vero.

Almeno in tribunale, si bada ai fatti e le chiacchiere stanno a zero: o hai detto il vero o hai detto il falso. Io sono certo di avere detto il vero, e tra l'altro solo una minima parte. Oltretutto c'è già un precedente specifico: quando, per primo, Marco Lillo rivelò queste cose sull'Espresso nel 2002, Schifani lo denunciò. Ma la denuncia venne archiviata nel 2007 perché - scrive il giudice - "l'articolo si presenta sostanzialmente veritiero".

Approfitto di questo spazio per ringraziare i tanti colleghi e lettori (anche di Repubblica) che in questi giorni difficili mi hanno testimoniato solidarietà. Tenterò, pur con tutti i miei limiti, di continuare a non deluderli.

(14 maggio 2008)

salvatore d'urso ha detto...

Terza parte

LA RISPOSTA
Non sempre i fatti sono la realtà
di GIUSEPPE D'AVANZO

Non so che cosa davvero pensassero dell'allievo gli eccellenti maestri di Marco Travaglio (però, che irriconoscenza trascurare le istruzioni del direttore de il Borghese). Il buon senso mi suggerisce, tuttavia, che almeno una volta Montanelli, Biagi, Rinaldi, forse addirittura Furio Colombo, gli abbiano raccomandato di maneggiare con cura il "vero" e il "falso": "qualifiche fluide e manipolabili" come insegna un altro maestro, Franco Cordero.

Di questo si parla, infatti, cari lettori - che siate o meno ammiratori di Travaglio; che siate entusiasti, incazzatissimi contro ogni rilievo che gli si può opporre o soltanto curiosi di capire.

Che cos'è un "fatto", dunque? Un "fatto" ci indica sempre una verità? O l'apparente evidenza di un "fatto" ci deve rendere guardinghi, più prudenti perché può indurci in errore? Non è questo l'esercizio indispensabile del giornalismo che, "piantato nel mezzo delle libere istituzioni", le può corrompere o, al contrario, proteggere? Ancora oggi Travaglio ("Io racconto solo fatti") si confonde e confonde i suoi lettori. Sostenere: "Ancora a metà degli anni 90, Schifani fu ingaggiato dal Comune di Villabate, retto da uomini legato al boss Mandalà di lì a poco sciolto due volte per mafia" indica una traccia di lavoro e non una conclusione.

Mandalà (come Travaglio sa) sarà accusato di mafia soltanto nel 1998 (dopo "la metà degli Anni Novanta", dunque) e soltanto "di lì a poco" (appunto) il comune di Villabate sarà sciolto. Se ne può ricavare un giudizio? Temo di no. Certo, nasce un interrogativo che dovrebbe convincere Travaglio ad abbandonare, per qualche tempo, le piazze del Vaffanculo, il salotto di Annozero, i teatri plaudenti e andarsene in Sicilia ad approfondire il solco già aperto pazientemente dalle inchieste di Repubblica (Bellavia, Palazzolo) e l'Espresso (Giustolisi, Lillo) e che, al di là di quel che è stato raccontato, non hanno offerto nel tempo ulteriori novità.

E' l'impegno che Travaglio trascura. Il nostro amico sceglie un comodo, stortissimo espediente. Si disinteressa del "vero" e del "falso". Afferra un "fatto" controverso (ne è consapevole, perché non è fesso). Con la complicità della potenza della tv - e dell'impotenza della Rai, di un inerme Fazio - lo getta in faccia agli spettatori lasciandosi dietro una secrezione velenosa che lascia credere: "Anche la seconda carica dello Stato è un mafioso...". Basta leggere i blog per rendersene conto. Anche se Travaglio non l'ha mai detta, quella frase, è l'opinione che voleva creare. Se non fosse un tartufo, lo ammetterebbe.

Discutiamo di questo metodo, cari lettori. Del "metodo Travaglio" e delle "agenzie del risentimento". Di una pratica giornalistica che, con "fatti" ambigui e dubbi, manipola cinicamente il lettore/spettatore. Ne alimenta la collera. Ne distorce la giustificatissima rabbia per la malapolitica. E' un paradigma professionale che, sulla spinta di motivazioni esclusivamente commerciali (non civiche, non professionali, non politiche), può distruggere chiunque abbia la sventura di essere scelto come target (gli obiettivi vengono scelti con cura tra i più esposti, a destra come a sinistra). Farò un esempio che renderà, forse, più chiaro quanto può essere letale questo metodo.

8 agosto del 2002. Marco telefona a Pippo. Gli chiede di occuparsi dei "cuscini". Marco e Pippo sono in vacanza insieme, concludono per approssimazione gli investigatori di Palermo. Che, durante le indagini, trovano un'ambigua conferma di quella villeggiatura comune. Prova maligna perché intenzionale e non indipendente. Fonte, l'avvocato di Michele Aiello. Il legale dice di aver saputo dal suo assistito che, su richiesta di Pippo, Aiello ha pagato l'albergo a Marco. Forse, dicono gli investigatori, un residence nei dintorni di Trabia.

Michele Aiello, ingegnere, fortunato impresario della sanità siciliana, protetto dal governatore Totò Cuffaro (che, per averlo aiutato, beccherà 5 anni in primo grado), è stato condannato a 14 anni per associazione a delinquere di stampo mafioso. Pippo è Giuseppe Ciuro, sottufficiale di polizia giudiziaria, condannato a 4 anni e 6 mesi per aver favorito Michele Aiello e aver rivelato segreti d'ufficio utili a favorire la latitanza di Bernardo Provenzano. Marco è Marco Travaglio.
Ditemi ora chi può essere tanto grossolano o vile da attribuire all'integrità di Marco Travaglio un'ombra, una colpa, addirittura un accordo fraudolento con il mafioso e il suo complice? Davvero qualcuno, tra i suoi fiduciosi lettori o tra i suoi antipatizzanti, può credere che Travaglio debba delle spiegazioni soltanto perché ha avuto la malasorte di farsi piacere un tipo (Giuseppe Ciuro) che soltanto dopo si scoprirà essere un infedele manutengolo?

Nessuno, che sia in buona fede, può farlo. Eppure un'"agenzia del risentimento" potrebbe metter su un pirotecnico spettacolino con poca spesa ricordando, per dire, che "la mafia ha la memoria lunghissima e spesso usa le amicizie, anche risalenti nel tempo, per ricattare chi tenta di scrollarsele frettolosamente di dosso" . Basta dare per scontato il "fatto", che ci fosse davvero una consapevole amicizia mafiosa: proprio quel che deve essere dimostrato ragionevolmente da un attento lavoro di cronaca.

Cari lettori, anche Travaglio può essere travolto dal "metodo Travaglio". Travaglio - temo - non ha alcun interesse a raccontarvelo (ecco la sua insincerità) e io penso (ripeto) che la sana, necessaria critica alla classe politico-istituzionale meriti onesto giornalismo e fiducia nel destino comune. Non un qualunquismo antipolitico alimentato, per interesse particolare, da un linciaggio continuo e irrefrenabile che può contaminare la credibilità di ogni istituzione e la rispettabilità di chiunque.


(14 maggio 2008)

salvatore d'urso ha detto...

MARCO TRAVAGLIO 11.05.2008 FIERA DEL LIBRO DI TORINO
PARTE1
http://www.youtube.com/watch?v=mYWJ9A8aLdY
PARTE2
http://www.youtube.com/watch?v=ZTY53tsh4KI
PARTE3
http://www.youtube.com/watch?v=jfhVv0F9cOs
PARTE4
http://www.youtube.com/watch?v=6Fzewkb3fIM

salvatore d'urso ha detto...

ALTRI INTERVENTI DI TRAVAGLIO ALLA FIERA DEL LIBRO

Marco Travaglio - Fiera del Libro 2008 - parte 1
http://it.youtube.com/watch?v=jEigI7zzEjs&feature=related

Marco Travaglio - Fiera del Libro - parte 2
http://it.youtube.com/watch?v=LiVaIK_PW_Y

Marco Travaglio - Fiera del Libro - parte 3
http://it.youtube.com/watch?v=r-U4OJlldMk

Marco Travaglio - Fiera del Libro - parte 4
http://it.youtube.com/watch?v=v_F68L01eGU

Marco Travaglio - Fiera del Libro - parte 5
http://it.youtube.com/watch?v=bNfdkLayqYk

Marco Travaglio - Fiera del Libro - parte 6
http://it.youtube.com/watch?v=PjSeDRev2D0

salvatore d'urso ha detto...

Bellissimo intervento di Santoro:

SANTORO FIERA DEL LIBRO TORINO con Travaglio e Gomez PT1
http://it.youtube.com/watch?v=RbQllpqFWzA

SANTORO FIERA DEL LIBRO TORINO con Travaglio e Gomez PT2
http://it.youtube.com/watch?v=VhlNqFV4miQ&feature=related

SANTORO FIERA DEL LIBRO TORINO con Travaglio e Gomez PT3
http://it.youtube.com/watch?v=JYXMw1D8hno&feature=related

salvatore d'urso ha detto...

De Magistris - bellissimo anche il suo intervento.

De Magistris alla Fiera del Libro Torino PT1
http://it.youtube.com/watch?v=7yUVVSz1BUE&feature=related

De Magistris alla Fiera del Libro Torino PT2
http://it.youtube.com/watch?v=uvHKzPdAD8s

salvatore d'urso ha detto...

Peter Gomez – Interventi su Mafia e Politica...

Intervento di Peter Gomez alla fiera del libro di TORINO PT1
http://it.youtube.com/watch?v=7U0YdveLEJc&feature=related

Intervento di Peter Gomez alla fiera del libro di TORINO PT3
http://it.youtube.com/watch?v=4AeGfwsbEVI&NR=1

Intervento di Peter Gomez alla fiera del libro di TORINO PT4
http://it.youtube.com/watch?v=t5_Smjfep6w

(non ho trovato la parte 2)

Anonimo ha detto...

Noto che quando "certi fatti" accomunano un politico al "malaffare" tanta stampa, C.S.M., istituzioni si ergono tutti a "difesa" fanno quadrato e lanciano dardi contro chi osa.
E poi...
tutte le sere interminabili dibattiti sulla criminalità, la mafia, le collusioni i voti di scambio, ecc.ecc.ecc.
Ma stiamo parlando di un altro paese?
Non non credo, stiamo parlando dell'Italia e dei suoi veri mali.
Ci vorrà molta pazienza, attenzione, divulgazione, con tutti i mezzi e verrà il tempo che chiedere il voto ai cittadini diventerà un salto nel buio e non un pallottoliere con cui si tiene il conto.
Alessandra

Anonimo ha detto...

Caro Salvatore,
Grazie per il tuo impegno informatico!
La visione di alcuni filmati, segnalati da te, mi ha indotto a differenti riflessioni e sentimenti. Mi ero galvanizzato con quelli di de Magistris per poi, subito dopo, afflosciarmi con quelli di Gomez e Santoro.
E' assurdo parlare di 'ndrangheta senza conoscere la benché minima realtà di questo miserabile fenomeno, come si fa? Ci vuole anche un minimo di onestà intellettuale, prima di sciorinare a vanvera falsità fatte diventare verità dalla stessa disinformazione che, a ragione, loro stessi contestano. A chi conviene aver fatto passare per l'organizzazione criminale più pericolosa al mondo la 'ndrangheta, non sono riuscito a capirlo. Capisco invece, quando si dicono le verità, tipo quelle di de Magistris: in Calabria, se indaghi sul traffico di droga, sul racket delle estorsioni, sulla delinquenza comune e organizzata senza toccare le collusioni politiche e amministrative, da ogni parte delle Istituzioni ricevi elogi ed incoraggiamenti ad andare avanti. Appena tocchi i livelli superiori dove risultano intrecciati potere politico, massonico, giudiziario sei finito. Poi, a supporto della sua analisi, fa esempi di cui lui stesso è stato protagonista diretto, già risalenti al 1995; e, immediatamente informato il CSM, ancora nessun riscontro! Ancora, questa volta, il Procuratore Pignatone, insediatosi a capo della Procura reggina da poche settimane, con riferimento ad una complessa indagine antindrangheta, così ha commentato le risultanze investigative sulla stessa: devo ammettere di aver provato non poca “nausea” nel constatare le modalità di operare degli ambienti mafiosi; e si riferiva alla circostanza che gli stessi ambienti criminali risultano conniventi in modo ignominioso con gli apparati addetti al loro contrasto. Per finire, la volta del Procuratore Nazionale antimafia Grasso, più volte con riferimento alla realtà calabrese ha affermato: In Calabria, non è la 'ndrangheta che tenta l'infiltrazione negli enti territoriali bensì, è lo Stato che stenta ad infiltrarsi.
Beh... se questo avviene perché la 'ndrangheta è l'organizzazione criminale più pericolosa esistente al mondo è anche possibile che io sia un Orango tango!!!
bartolo iamonte.

Anonimo ha detto...

A proposito di libertà ex art. 21 Cost., mi sembra che la questione sia di estremo interesse attuale considerando, in particolare, quanto oggi avvenuto alla Camera nel corso del dibattito per la fiducia al nuovo Governo Berlusconi, laddove l'intervento di dura opposizione del parlamentare Antonio Di Pietro, più volte interrotto dai banchi della maggioranza, infastidita dalle dichiarazioni di tale deputato, non ha trovato adeguata tutela da parte del presidente dell'assemblea, on. Fini, il quale poi nello scambio di battute avute con lo stesso Di Pietro, ha finito quasi per sindacare il merito delle affermazioni e delle opinioni espresse, nel pieno esercizio delle sue funzioni istituzionali, dallo stesso deputato della minoranza.
Se stanno così le cose, quindi, ad inizio della nuova legislatura, è facile prevedere tempi bui e molto duri nel futuro di tutti coloro che oseranno manifestare liberamente il proprio pensiero, usando la loro testa, senza condizionamenti e senza demagogie, primi quindi fra tutti i magistrati ed i giornalisti scomodi, o comunque non “inquadrati”, che non si rassegneranno a seguire le masse per assecondare facili o scontate verità e malintesi sensi di democrazia, siccome non ancora pronti, o in ogni caso non abituati, ad inchinarsi al governante di turno, attualmente poi vigente una “pax veltrusconiana”.
Napoli, 14 maggio 2008 – Federico De Gregorio

Anonimo ha detto...

Soltanto per rinfrescare la memoria a quanti inviano commenti. appunto abbiano memoria......

http://www.repubblica.it/online/politica/rainominedue/berlu/berlu.html

ROMA - Basta con programmi come "Sciuscià", "Il fatto" o "Satyricon". Ad affermarlo con forza, all'indomani delle nomine Rai, è il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi: "Ho già avuto modo di dire - spiega, nella conferenza stampa conclusiva della sua visita in Bulgaria - che Santoro, Biagi e Luttazzi hanno fatto un uso della televisione pubblica, pagata con i soldi di tutti, criminoso; credo sia un preciso dovere della nuova dirigenza Rai di non permettere più che questo avvenga".

Più chiaro di così, il premier, che è anche proprietario delle reti Mediaset, non poteva essere. Ma i cronisti presenti vogliono sapere di più, e gli chiedono se ciò significa un allontamento delle tre persone in questione dall'azienda di Viale Mazzini. "Ove cambiassero - risponde Berlusconi - nulla "ad personam', ma siccome non cambieranno...". Insomma, non c'è scelta: Michele Santoro, Enzo Biagi e Daniele Luttazzi devono fare fagotto, secondo il capo del governo. Su questo punto, Berlusconi è inamovibile: e infatti, a chi gli fa notare che Santoro ha un contratto molto ricco con la Rai, e rescinderlo sarebbe anti-economico, lui ribatte così: "Non è un problema mio".

E la reazione del conduttore di Sciuscià all'esternazione berlusconiana non si fa attendere. Il premier è "un vigliacco" che "abusa dei suoi poteri": queste le parole del giornalista. Poco dopo è il turno di Daniele Luttazzi, che definisce "non democratica" questa gestione del servizio pubblico.

Ma il premier dice anche altro sulla Rai. Ricorda, ad esempio, che nel programma della Casa delle Libertà "è prevista la privatizzazione, con il mantenimento in mano pubblica di una rete per adempiere al servizio pubblico".

Infine, un accenno alle recentissime nomine. "Finalmente - dichiara - torneremo alla televisione pubblica, di tutti, non faziosa, oggettiva e non partitica come è stata invece con l'occupazione militare da parte della sinistra".

(18 aprile 2002)

mathilda