lunedì 12 maggio 2008

Marco Travaglio e Renato Schifani: i fatti.

Versione stampabile


Considerazioni e documenti sul Presidente Schifani e i suoi amici.


di Uguale per Tutti


In qualunque paese anche non particolarmente civile, ma solo banalmente democratico l’unico dovere che hanno i giornalisti è raccontare i fatti.

L’unica cosa che conta è che ciò che scrivono sia vero.

L’unico “processo” che dovrebbero subire è quello sulla verità o no di quello che raccontano.

In qualunque paese anche non particolarmente civile, ma solo banalmente democratico chiunque ricopra una carica pubblica sa di non potere censurare l’informazione e sa di dovere spiegare ai cittadini i fatti che lo riguardano.

In qualunque paese anche non particolarmente civile, ma solo banalmente democratico il concetto di “servizio pubblico” riferito alla televisione di Stato significa “servizio ai cittadini” e non “servizio ai padroni”, servaggio del potere.

L’Italia evidentemente non è un paese democratico e neppure civile.

In Italia, in teoria, l’art. 21 della Costituzione prescrive che “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” e che “la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”.

Ma in pratica i mezzi di comunicazione sono divisi in due categorie. Quelli con pochi lettori/ascoltatori: i blog, i libri, i giornali di provincia, ecc.. E quelli con molti lettori/ascoltatori: le televisioni nazionali e i giornali a grande tiratura nazionale.

I mezzi di comunicazione con molti lettori/ascoltatori sono “in mano” a pochi potenti, che ne fanno l’uso che conviene a loro e ai loro amici.

La televisione pubblica interpreta il concetto di “servizio pubblico” nel senso di “servire chi è al potere”, raccontando in continuazione frottole e tacendo i fatti che i potenti non gradiscono.

Tutto ciò posto, l’altro ieri sera, nel corso della trasmissione di Ratitre “Che tempo che fa”, il conduttore Fabio Fazio, intervistando il giornalista Marco Travaglio, gli ha chiesto a un certo punto chi, secondo lui, decide cosa si pubblica sui giornali e cosa no.

Marco Travaglio ha risposto che lo decidono i politici e ha fatto l’esempio del nuovo Presidente del Senato Renato Schifani, mettendo in evidenza come nessuno, dopo la sua elezione, abbia ricordato i rapporti che lui ha avuto in passato con dei mafiosi.

Il video dell’intervista si può vedere in questo blog a questo link.

Subito dopo si è scatenato un putiferio, pieno zeppo di menzogne incredibili, che è servito a nascondere la realtà delle cose.

Le menzogne sono che sarebbe vietato parlare di qualcuno senza contraddittorio.

La cosa, ovviamente, è del tutto falsa, perché in televisione e sui giornali si parla in continuazione di un sacco di gente senza contraddittorio. Sia nel bene che nel male.

Non è che ogni volta che si parla di Totò Riina si chiede a Totò Riina di partecipare alla trasmissione per dare la sua versione dei fatti. Né ogni volta che si racconta che l’attrice Tizia o il cantante Caio hanno una storia d’amore, li si invita a commentare la cosa.

Dunque, è del tutto ovvio che è falso che per raccontare dei fatti relativi a qualcuno si debba per forza aspettare che il qualcuno sia disposto a venire in trasmissione e commentare la cosa.

Ciò che è vero, invece, è che la televisione e soprattutto quella pubblica non è intesa come un luogo di servizio e in particolare di servizio alla verità, ma come un luogo “al servizio” e in particolare al servizio dei potenti.

Perfettamente emblematica è sul punto la telefonata fra Bruno Vespa e Salvatore Sottile (che si può sentire – recitata – a questo link), nella quale Bruno Vespa si accorda con il portavoce di Gianfranco Fini in modo da organizzare la puntata di Porta a Porta in un modo gradito a Fini. La puntata “gliela confezioniamo addosso” secondo il suo gradimento, promette Vespa.

Questa è l’idea di “servizio pubblico” che c’è oggi in Italia.

Ciò posto, noi sogniamo un paese nel quale i giornalisti raccontano i fatti e i potenti ce li spiegano.

Marco Travaglio ha raccontato delle amicizie preoccupanti del Presidente del Senato.

L’unica cosa che si dovrebbe fare in un paese anche solo appena appena democratico è che il Presidente del Senato dica se ciò che ha raccontato Travaglio è vero o no e, se è vero, come si spiega.

Punto e basta.

Il Presidente Schifani non si dovrebbe indignare, ma dovrebbe solo dire “Non è vero”, oppure “E’ vero, ma ero in buona fede”, oppure “E’ vero, ma non c’era niente di male”, oppure “E’vero, ma prometto di non farlo più”.

E l’unica cosa che dovrebbero fare tutti i cittadini, dal più potente al più umile, è chiedere al Presidente Schifani di commentare il fatto. Il fatto ovviamente sono le sue amicizie. Non l’intervista di Marco Travaglio.

Invece, il Presidente Schifani e tutti i suoi amici, di destra e di sinistra (perché in questi casi si vede più che mai come quelli finti “di destra” e quelli “finti di sinistra” sono molto molto amici), si mettono a fare una gran caciara e cercano di fare in modo che nessuno parli dei fatti.

Il nostro modesto contributo alla democrazia in questo paese sarà oggi il riportare qui il capito 3 del libro di Lirio Abbate e Peter Gomez I complici. Tutti gli uomini di Bernardo Provenzano da Corleone al Parlamento, Fazi editore, 2007, e tre pagine del libro di Peter Gomez e Marco Travaglio Se li conosci li eviti. Raccomandati, riciclati, condannati, imputati, ignoranti, voltagabbana, fannulloni del nuovo Parlamento, Chiarelettere 2008.

Così ognuno potrà leggere e attendere serenamente che qualcuno dia una risposta ai fatti oppure rassegnarsi a che i fatti in Italia non interessano più a nessuno.

In ogni caso, ci permettiamo di dire che ciò che sta andando in onda in questi giorni è l’affermazione unanime, da parte della cosiddetta “destra” e della cosiddetta “sinistra” che l’unica “informazione” possibile deve restare quella che fa comodo ai potenti, mentre le “brutte notizie” vanno assolutamente vietate.

Dunque, se un rumeno ruba una borsetta bisognerà dirlo in tutti i telegiornali per dieci giorni di seguito. Se viene nominato Presidente del Senato una persona che aveva rapporti di affari con dei mafiosi, non bisogna dirlo a nessuno.


Alcune notizie su Lirio Abbate si trovano su Wikipedia.

Sulle minacce a Lirio Abbate e la solidarietà del Presidente Napolitano, si può leggere un articolo a questo link e un altro a questo link.

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Da Lirio Abbate e Peter Gomez, “I complici. Tutti gli uomini di Bernardo Provenzano da Corleone al Parlamento”, Fazi editore, 2007, pagg. 69-84


Laboratorio Villabate.

«Enrico tu sai da dove vengo e che cosa ero con tuo padre... Io sono mafioso come tuo padre, perché con tuo padre me ne andavo a cercare i voti vicino a Villalba da Turiddu Malta che era il capomafia di Vallelunga ... Ora [lui] non c’è [più], ma lo posso sempre dire io che tuo padre era mafioso ...».
Una frase del genere, anche loro che per lavoro erano abituati ad ascoltare ogni giorno ore e ore d’intercettazioni, non l’avevano mai sentita. Sembravano le parole di un film. Dentro c’era tutto: la minaccia – «io sono mafioso» - il ricatto – «lo posso sempre dire io che tuo padre era mafioso» – i riferimenti ai capi storici di Cosa Nostra – Turiddu Malta, un capofamiglia liberato dal carcere nel 1943 dagli americani – e la politica. Sì, la politica. Quella con la P maiuscola, perché Enrico era il figlio del senatore fanfaniano Giuseppe La Loggia: era Enrico La Loggia, dal 1996 al 2001 capogruppo di Forza Italia al Senato e poi ministro degli Affari Regionali nel governo Berlusconi.
Ma a pronunciare quelle parole non era stato un attore: a scandirle con voce forte e chiara era stato, appena un mese prima di finire in manette, l’avvocato Nino Mandalà.
E’ il 4 maggio 1998. Quel giorno il boss di Villabate sale, verso le 11 del mattino, sulla Mercedes turbodiesel di un uomo d’onore grande e grosso, dalla folta barba scura. È l’auto di Simone Castello, l’imprenditore che, fin dagli anni Ottanta, per conto di Provenzano recapita i suoi pizzini in tutta la Sicilia. I carabinieri l’hanno imbottita di microspie perché sanno che parlare con Castello significa parlare direttamente con l’ultimo Padrino.
Mandalà è su di giri. Le elezioni amministrative sono alle porte, nel direttivo provinciale di Forza Italia di cui fa parte c’è fermento, le riunioni per preparare la lista dei candidati si succedono alle riunioni. Gaspare Giudice lo ha consultato per trovare un uomo da presentare per la corsa al consiglio provinciale a Misilmeri, un paesino a pochi chilometri da Villabate. Lui gli ha fornito un nome: all’ultimo momento però l’accordo è saltato, perché Renato Schifani, neoeletto senatore nel collegio di Coricane, «ha preteso, giustamente, che il candidato di Misilmeri alla provincia fosse suo, visto che Gaspare Giudice ne aveva già quattro», spiega Nino a Simone.
Il deputato, come accadeva sempre più spesso – anzi secondo Mandalà ormai troppo spesso – ha tentato di giustificare l’improvviso voltafaccia. E ha scaricato tutte le responsabilità sui colleghi di partito. «Loro non mi hanno fatto nessuna richiesta, per cui io avevo il problema di completare la cinquina [di candidati]», gli ha detto Giudice, «quindi, non essendoci nessuna richiesta da parte di Schifani, io mi sono fatto avanti e ho fatto a te la richiesta di trovare il candidato».
A ben vedere è una polemica da niente. Di cose così nel mondo della politica ne accadono ogni giorno. E anche l’avvocato Mandalà lo capisce bene. Lui la vita di partito ha cominciato a masticarla fin da ragazzo, quando era un giovane attivista della Democrazia Cristiana. Ma ormai non ne può più. A ogni piccolo incidente, a ogni disguido, sente aumentare la rabbia in corpo. Si sente preso in giro. Per questo adesso ha deciso di incrociare le braccia: lui questa volta i voti non li procurerà a nessuno.
«Io me ne sto fottendo. Chi ha ragione, chi ha torto, non è questo il punto. Rimane il fatto che a me è stata chiesta una candidatura, supplicandomi: “Per favore che siamo nei guai ...” e [invece] m’a trummaru [me l’hanno trombata] ... è giusto?», dice Mandalà al colonnello di Provenzano. La sua prima piccola rivincita, Nino, se l’è comunque già presa. Il candidato proposto da Schifani si è presentato in paese ma è stato respinto in malo modo. Ridendo, Mandalà racconta di avergli detto a brutto muso: «Caro mio io non do indicazioni a nessuno, non mi carico nessuno, Misilmeri non è Villabate, è inutile che vieni da me. Di voti qui non ce n’è per nessuno ...».
La dura reazione del capomafia ha preoccupato i vertici di Forza Italia, tanto che Gaspare Giudice lo ha immediatamente chiamato: «Mi ha telefonato dicendo che stamattina a casa di Enrico La Loggia c’è stata una riunione. [C’erano] La Loggia, Schifani, Giovanni Mercadante [l’allora capogruppo di Forza Italia in Comune a Palermo, arrestato per mafia nel 2006] e Dore Misuraca, l’assessore regionale agli Enti Locali. [Giudice mi ha raccontato che] Schifani disse a La Loggia: “Senti Enrico, dovresti telefonare a Nino Mandalà, perché ha detto che a Villabate Gaspare Giudice non ci deve mettere più piede ... e quindi c’è la possibilità di recuperare Nino Mandalà, telefonagli ...».
Il mafioso è quasi divertito. Tanta confusione intorno al suo nome in fondo lo fa sentire importante. Alzare la voce con i politici è sempre un sistema che funziona. E, secondo lui, anche Renato Schifani ne sa qualcosa. Dice Mandalà: «Simone, hai presente che Schifani, attraverso questo [il candidato di Misilmeri] ... aveva chiesto di avere un incontro con me, se potevo riceverlo. E io gli ho detto no, gli ho detto che ho da fare e che non ho tempo da perdere con lui. Quindi, quando ha capito che lui con me non poteva fare niente, si è rivolto al suo capo Enrico La Loggia che, secondo lui, mi dovrebbe telefonare. Ma vedrai che lui non mi telefonerà. Mi può telefonare che io, una volta, l’ho fatto piangere?».
Nell’auto di Simone Castello la domanda del boss di Villabate è seguita da qualche secondo di silenzio. Poi le microspie dei carabinieri registrano la storia di un’amicizia tradita. Una storia di mafia in cui i capibastone minacciano e i politici, terrorizzati, chiedono piangendo perdono.
Mandalà la narra con astio, tutta d’un fiato. Torna con la mente al 1995, l’anno in cui suo figlio Nicola era stato arrestato per la prima volta. Accusa La Loggia di averlo lasciato solo, di averlo «completamente abbandonato», forse nel timore che qualcuno scoprisse un segreto a quel punto divenuto inconfessabile: lui e Nino Mandalà non solo si conoscevano fin da bambini, ma per anni erano anche stati soci, avevano lavorato fianco a fianco in un’agenzia di brokeraggio assicurativo.
«Non mi aspettavo che dovesse fare niente, che dovesse fare dichiarazioni alla stampa, ma almeno un messaggio, “ti do la mia solidarietà”, [me lo poteva mandare]. Stiamo parlando di un rapporto che risale alla notte dei tempi, quando eravamo tutti e due piccoli – lui è più piccolo di me – [nemmeno] mi ricordo quando ci siamo conosciuti. [Ma] suo padre ... era mio padre, lui era un cristiano con i cazzi, non [come] questo pezzo di merda ... [Poi siamo stati] soci in affari perché abbiamo avuto assieme una società di brokeraggio assicurativo, lui presidente e io amministratore delegato. [Andavamo] in vacanza assieme ...».
Il portaordini di Provenzano cerca d’interromperlo, sembra voler tentare di calmarlo: «Va bene, magari è il presidente [dei senatori di Forza Italia e non si può esporre] ...».
«D’accordo, però, dico, in una situazione come questa ... Dio mio mandami un messaggio. [Poteva farlo attraverso] ‘sto cornuto di Schifani che [allora] non era [ancora senatore], [ma faceva] l’esperto [il consulente in materie urbanistiche] qua al Comune di Villabate a 54 milioni [di lire] l’anno. Melo aveva mandato [proprio] il signor La Loggia. Lui [Schifani] mi poteva dire, mi chiamava e mi diceva: “Nino vedi che, capisci che non si può esporre però è con te, ti manda [i saluti]”. No, e invece non solo non mi manda [a dire] niente lui, ma Schifani ...».
«Dice che non ti conosce ...».
«Schifani, quando quelli là in Forza Italia, gli chiedono “ma che è successo all’amico tuo, al figlio dell’amico tuo” risponde “amico mio? ... no, manco lo conosco, lo conosco a mala pena”. [Così] il signor Schifani [quando veniva a Villabate] per motivi di lavoro [la consulenza per il Comune] vedeva a me e, minchia, scantonava, svicolava, si spaventava come se ... come se prendeva la rogna, capisci? Poi, un giorno, dopo la scarcerazione di Nicola, [io e La Loggia] ci siamo incontrati a un congresso di Forza Italia. Lui viene e mi dice: “Nino, io sai per questo incidente di tuo figlio ...”.
Gli ho detto: “Senti una cosa, tu mi devi fare la cortesia, pezzo di merda che sei, di non permetterti più di rivolgermi la parola”. “Ma Nino, ma è mai possibile che tu mi tratti così?”.
“E perché come ti devo trattare? Perché non è possibile spiegamelo ... chi sei?”.
“No, ma io non dico questo, ma i nostri rapporti ... “. “Ma quale rapporto ...”.
“Senti possiamo fare una cosa, ne possiamo parlare in ufficio da me?”, “Sì, perché no ...”. E ci siano trasferiti in via Duca della Verdura [lo studio di La Loggia] ... stranamente perché il signor senatore è sempre impegnato. Questa volta un’ora è stato con me, gli ho raccontato quello del bel cardillo [gli ho fatto un cazziatone], [gli ho detto] quello che aveva fatto in passato quando era assessore comunale [a Palermo] ai Beni Culturali ... questo gli domandavo le cose e non mi ha fatto mai niente e questa vicenda eccetera eccetera. Alla fine gli dissi: “Senti, mi devi fare una cortesia, tu a me non mi devi cercare più, tu devi dimenticarti che esisto perché la prossima volta che tu ti arrischi a cercarmi e siamo soli, io siccome sono mafioso, io ti [parola incomprensibile nella registrazione], io ti [parola incomprensibile], hai capito! [Perché] io sono mafioso, come tuo padre purtroppo, perché io con tuo padre me ne andavo a cercargli i voti [...] da Turiddu Malta che era il capo della mafia di Vallelunga. Tuo padre che era [parola incomprensibile] e lo poteva dire. Ora lui non c’è più, ma lo posso sempre dire io che tuo padre era mafioso”. [E lui] si è messo a piangere.
“Mi rovini”, [ha detto].
“E perché?”, gli ho risposto, “Io non sono un pezzo di merda come a te che ti rovino. L’ho fatto per dirti che tu hai la coda di paglia come gli altri e fai tutto ... tutto ... ma lo devi fare con gli altri .... ti devi vestire dei panni ... ma non con me, stronzo che sei. Non sai io da dove vengo e cosa ero con tuo padre. Che cornuto vai dicendo. Tuo padre chi era? E mi dici a me ...”».
Simone Castello commenta caustico: «Qua c’è gentaglia ...».
Ma Nino non ha ancora finito: «Lui si è messo a piangere, si è messo a piangere, ma non si è messo a piangere perché era mortificato, si è messo a piangere per la paura. Siccome gli ho detto “ora lo racconto che tuo padre veniva a raccogliere con me da Turiddu Malta”, e l’ho fatto proprio per farlo spaventare, per impaurirlo, per fargli male, ‘sto cretino, minchia, ha pensato che io andassi veramente a fare una cosa del genere. Vedi quanto è cornuto e senza onore, pensava che io lo andavo a rovinare ...». «No! Ma quant’è cretino ...».
«[Figurati che] diceva piangendo: “Mi rovini, mi rovini”». «E questo è il senatore di Forza Italia ...».
«E il presidente dei Senatori di Forza Italia».
«[Il fatto è, Nino, che] sono tutti mezze tacche».
Mandalà serra le labbra, mima uno sputo. «Pù, miserabile che sei ... e senza onore», dice mentre Castello, il colonnello di Provenzano, dà anche lui libero sfogo agli insulti: «Miccichè mezza tacca. Questo Giudice meno di mezza tacca ... Dore Misuraca, non ne parliamo ... Meschini, meschini, meschini, non solo in Forza Italia, negli altri partiti sono pure gli stessi. E appena vengono investiti di questa carica, onorevole, senatore, chi sa chi cazzo si credono di essere, dei superuomini ... sono stupidi, perché poi vanno là e vanno a fare quello che gli dice l’uomo più rappresentativo del movimento, di D’Alema, di Forza Italia e vengono qua e pare che è arrivato chissà chi. [Te lo ricordi] Andrea Zangara di Bagheria, [quello che] è stato senatore della Democrazia Cristiana, ora è deputato regionale? Questo faceva il marmuraru [il cavatore di pietre], a Bagheria lo chiamano Andrea “u marmuraru”, va bene? Io ti posso dire che dal punto di vista delle amicizie politiche lui ce ne ha [per esempio] con Mattarella, ma dal punto di vista dell’uomo della strada lui è nessuno. Lui non sa un cazzo. Se tu ci vuoi parlare di argomenti diciamo di vita, di argomenti di economia, non parla, non sa par-lare, non sa niente ... e questo è uno di quelli che arriva là e vota e determina le mie cose, le tue cose ... Questi sono i politici, Nino, questi sono i politici ...» (1).


La zona grigia

Da un certo punto di vista l’astio dell’avvocato Mandalà è perfettamente comprensibile. Lui Schifani e La Loggia li aveva sempre considerati degli amici, tanto che erano stati tra gli ospiti importanti del suo secondo matrimonio, avvenuto nei primi anni Ottanta. A quell’epoca Nino Mandalà era appena rientrato in Sicilia da Bologna, dove lavorava nel mondo delle concessionarie d’auto e dove anche suo figlio Nicola era nato. Con loro aveva fondato la Sicula Brokers, una strana società in cui i futuri leader di Forza Italia sedevano fianco a fianco di imprenditori in odor di mafia e boss di Cosa Nostra.
A scorrere le pagine ingiallite di quei documenti societari c’è da rimanere a bocca aperta: la Sicula Brokers viene creata nel 1979 e tra i soci, accanto a Mandalà, La Loggia e Schifani, compaiono i nomi dell’ingegnere Benny D’Agostino, il titolare delle più grandi imprese di costruzioni marittime italiane, poi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, e di Giuseppe Lombardo, l’amministratore delle società di Nino e Ignazio Salvo, i re delle esattorie siciliane arrestati nel 1984 da Giovanni Falcone perché capi della famiglia mafiosa di Salemi.
La Sicula Brokers è insomma una società simbolo di quella zona grigia nella quale, per anni, borghesia e boss hanno fatto affari.
Palermo del resto è sempre stata così: nel dopoguerra i mafiosi erano i campieri dei ricchi, erano gli uomini di fatica ai qua-li la borghesia e l’aristocrazia delegavano l’amministrazione delle terre e dei beni. Un rapporto quasi simbiotico, spesso caratterizzato da reciproci scambi di favori. Ecco quindi che Benny D’Agostino, il socio di La Loggia, Schifani e Mandalà, viaggia nei primi anni Ottanta in Ferrari con don Michele Greco, il “papa della mafia”; ospita nelle sue proprietà i latitanti; si dedica con i prestanome di Provenzano, come il boss Pino Lipari, al controllo della spartizione degli appalti pubblici. Ecco quindi che il senatore Giuseppe La Loggia, il padre di Enrico, stando al racconto di Mandalà, si presenta da un capomafia come Turiddu Malta per domandare il suo appoggio elettorale.
Un fatto quasi normale per l’epoca, tanto che del sostegno dato da Cosa Nostra a La Loggia senior parlerà anche Nick Gentile, un pezzo da novanta nella Cosa Nostra made in USA, consigliere di Al Capone e Lucky Luciano. Nella sua ormai introvabile autobiografia, data alle stampe opportunamente censurata, il boss italoamericano racconta i suoi fraterni rapporti con il senatore fanfaniano e descrive anche la propria amicizia con Gaspare Cusenza, ex sindaco di Palermo e presidente della Sicilcassa fino al 1962. Quello di Gentile è uno spaccato esemplare su mafia e politica in Sicilia nel secondo dopoguerra:

“Nel 1951, per le elezioni, mi ero impegnato a dare il mio appoggio a Peppino La Loggia. Tano Di Leo aveva a Roma un informatore e lo venne a sapere. Venne così a Palermo nel mio negozio. Era furioso. Mi disse che non dovevo assolutamente appoggiare La Loggia. Io replicai che mi ero impegnato per-ché il cognato di La Loggia, quando fui tratto in arresto durante il fascismo, aveva testimoniato a mio favore. Egli era allora podestà di Agrigento. Anche Calogero Volpe era d’accordo con Tano Di Leo contro la parola che avevo dato. Venni chiamato dal senatore Cusenza alla Cassa di Risparmio. Io gli raccontai le mie preoccupazioni per quelle incomprensioni e Cusenza propose di fare una scampagnata tutti quanti assieme per smussare gli angoli. Alla scampagnata dovevamo andare io, Cusenza, Di Leo, La Loggia e Calogero Volpe. Proposi io stesso a Tano Di Leo quella gita ideata da Cusenza, ma egli rifiutò. Informai La Loggia del rifiuto ed egli mi disse: «Zio Cola, dica a Tano, a Volpe e a Cusenza e a tutti gli altri amici che io vengo alla gita per sapere in che cosa ho mancato e, se risulterà che ho mancato, mi scaverete la fossa e mi lascerete là». Di fronte a queste parole di umiltà mi sentii incoraggiato a proseguire nel mio appoggio elettorale. Proprio durante la campagna feci firmare a La Loggia, che era vicepresidente del-la Regione presieduta da Franco Restivo, lo scioglimento dell’amministrazione socialcomunista di Santa Margherita”.

Il problema è che la mafia, al contrario della politica, non dimentica. Anche a distanza di anni, anzi di decenni, è difficile scrollarsi di dosso certi rapporti, certe antiche relazioni. Ed è difficile anche per Enrico La Loggia che pure, a metà degli anni Ottanta, fa parte come assessore della prima giunta del sindaco Leoluca Orlando e, per diretta ammissione di Nino Mandalà, in quelle vesti risponde di no alle sue richieste di aiuto.
Così le vittorie elettorali di Forza Italia nelle zone di Villabate e Bagheria, feudi di Provenzano e della famiglia Mandalà, diventano vittorie pericolose.
Francesco Campanella, che osserva quanto accade dalla sua poltrona privilegiata di presidente del consiglio comunale, se ne accorge quasi subito. Nel 1994 l’avvocato Nino Mandalà sbandiera i suoi legami importanti. Se ne fa vanto. Dice a Francesco di avere «strettissimi rapporti con il senatore», gli parla del suo matrimonio al quale anche lui e Schifani avevano partecipato, e Campanella capisce che non mente. Il nuovo segretario comunale viene scelto dal sindaco Navetta su «segnalazione di La Loggia» e la stessa cosa accade con Schifani: «I rapporti tra loro erano ancora ottimi durante l’inizio dell’attività politica del Mandalà nel ‘94, tant’è vero che La Loggia era il suo riferimento all’interno di Forza Italia [...]; a un certo punto Schifani fu segnalato da La Loggia come consulente e quindi nominato dal sindaco come esperto in materia di urbanistica. [...] Le quattro varianti al piano regolatore di cui abbiamo parlato, parco suburbano, la variante commerciale, la viabilità, furono tutte concordate dal punto di vista anche di modulazione, di componimento, insomma, dal punto di vista giuridico con lo stesso Schifani».
«L’allora avvocato Schifani interloquiva con Nino Mandalà anche di queste cose?», chiede il pubblico ministero.
«Sì, interloquiva anche con Mandalà, ma poi i fatti più operativi li gestiva l’assessore Geranio, che poi era un assessore della famiglia di Mandalà, perché l’assessore Geranio aveva sposato una sorella del suocero di Nicola Mandalà. Quindi Geranio faceva da spola tra il Comune e lo studio dell’avvocato Schifani. Mi ricordo che in qualche incontro andai anch’io. Poi, a un certo punto, ci fu la questione di fare il piano regolatore generale. [Si trattava di un] argomento [che suscitava] grandi appetiti da parte della famiglia mafiosa di Villabate, poiché il piano regolatore generale, come è notorio, determina la potenzialità edificatoria delle aree e [l’edilizia è] uno degli elementi più importanti dell’attività tipica di Cosa Nostra, [con] l’imposizione, oltre che di pizzo ai cantieri, anche delle forniture. Lì il Mandalà organizzò tutto per filo e per segno interagendo in prima persona. [...] Mi disse che aveva fatto una riunione con Schifani e con La Loggia e che aveva trovato un accordo per il quale i due segnalavano il progettista del piano regolatore generale, incassando anche una parcella di un certo rilievo [...]. L’accordo, che Mandalà aveva definito con i suoi amici Schifani e La Loggia, era quello di manipolare il piano regolatore, affinché tutte le sue istanze – che poi erano [la richiesta] di variare i terreni dove c’erano gli affari in corso e addirittura di penalizzare quelli della famiglia mafiosa avversaria o delle persone a cui si voleva fare uno sgarbo – fossero prese in considerazione dal progettista e da Schifani [...]. Cosa che avvenne, perché poi cominciò questa attività di stesura del piano regolatore e io mi trovai a partecipare a tutte le riunioni che si tennero con lo stesso Schifani, qualche volta allo studio» Schifani e qualche altra volta al Comune. Io [poi] partecipai anche alle riunioni, più tipiche della famiglia mafiosa, in cui Schifani non c’era ...».
Il clan di Villabate si butta a capofitto nell’affare. Dal Nord torna un costruttore che se ne era andato dal paese quando era scoppiata la faida con i Montalto. Si mette in società con Nino Mandalà, assieme a lui contatta tutti i proprietari degli appezza-menti di terreno che sarebbero dovuti diventare edificabili e fa loro firmare dei preliminari di vendita. In buona sostanza la mafia si accaparra tutte le zone in cui si potrà costruire. In un in-contro con il sindaco Navetta e i due Mandalà, Francesco discute il piano regolatore e «gli inserimenti fatti dal progettista con i pareri di Schifani».
Domanda il pubblico ministero: «Io volevo capire questo: le risulta che lo Schifani fosse al corrente all’epoca degli interessi di Mandalà in relazione all’attività di pianificazione urbanistica del Comune di Villabate?».
«Assolutamente sì, il Mandalà mi disse che aveva fatto questa riunione con La Loggia e con lo stesso Schifani e l’accordo era appunto di nominare, attraverso loro, questo progettista che avrebbe incassato questa grossa parcella che in qualche modo avrebbero condiviso lo stesso Schifani e La Loggia [...]».
«Quindi la parcella non sarebbe andata soltanto al progettista?».
«No, il progettista era titolare di un interesse economico che era condiviso dallo stesso Schifani e La Loggia».
«E questa parcella fu liquidata o comunque ne fu stabilita l’entità?».
«Ma guardi, la parcella ... si fece una parcella proforma, perché l’attività poi del piano regolatore in realtà fu interrotta a seguito poi dello scioglimento del consiglio comunale ...». «Parliamo del primo scioglimento [della giunta comunale di Villabate per mafia, quello del 1999]?».
«Esattamente, perché poi non è che il piano regolatore andò in porto; fu adottato uno schema di massima ... a un certo punto eravamo pronti per l’adozione finale, ma poi questo processo fu interrotto [...] per cui fu quantificata un’ipotetica parcella complessiva che era veramente notevole, adesso non ricordo l’importo, saranno state liquidate una serie di spettanze relative al lavoro che effettivamente fu svolto».
«E questa liquidazione avvenne formalmente soltanto al progettista?».
«Ovviamente. [...] Schifani comunque era stipendiato a quell’epoca come esperto, aveva il compenso di esperto». «Era stato nominato dal sindaco Navetta?».
«Esattamente [...]. Ma poi, per completare quello che lei mi aveva chiesto, i rapporti con La Loggia si deteriorarono a seguito, come ho detto, anche dell’arresto del figlio e di questo in-somma allontanamento dello stesso Mandalà dai vertici di Forza Italia. Tanto è vero che il Mandalà si lamentava di questo atteggiamento di La Loggia che non lo salutava addirittura più neanche se lo incontrava per strada. Si lamentava di questo cambio totale nei suoi confronti; [si era passati] dall’essere amici e addirittura soci in determinate attività, e in un primo momento sponsor delle attività politiche e di queste vicende, all’assoluto allontanamento dal personaggio Mandalà».
«Sì, ma io vorrei capire a questo proposito: poiché abbiamo già detto più volte che l’arresto di Nicola Mandalà avviene nel marzo del ‘95, il 17 marzo del ‘95, e poiché mi è parso di capire che tutti questi rapporti, questi contatti, questi incontri finalizzati alla pianificazione urbanistica del Comune di Villabate tra Mandalà, La Loggia [sono successivi] ...».
«L’allontanamento di La Loggia da Mandalà fu successivo anche quando La Loggia cominciò ad avere cariche di un certo rilievo; mi ricordo che nella seconda legislatura ricopriva la carica di capogruppo al Senato, quindi c’era stato anche un rompersi del rapporto [...]».
«Sì, però rimane da capire, signor Campanella, esattamente in che epoca si collocano o si colloca, se solo una, quella riunione tra Mandalà, La Loggia e Schifani in relazione alla pianificazione urbanistica del Comune di Villabate».
«Questa si colloca sicuramente in epoca successiva all’arresto di Mandalà Nicola, nell’epoca in cui stavamo adottando questi atti, ma ci saranno anche le carte, l’adozione del consiglio comunale dello schema di massima [...]».
«Quindi c’è un allontanamento progressivo, mi pare di capire?».
«Esattamente, lui lamentava con me questo fatto che più volte, ma in epoca successiva appunto alle vicende ...».
«All’arresto di Nicola diciamo?».
«Esattamente, addirittura il La Loggia non lo salutava neanche».
«Cioè cercava di prendere le distanze?».
«Esattamente ...».


«Una vergognosa pulizia etnica»

Il 24 maggio 1998, tre settimane dopo la chiacchierata in auto tra Nano Mandalà e Simone Castello, Villabate va alle urne per le elezioni comunali. Giuseppe Navetta, il sindaco uscente nipote del capomafia, stravince. La sua coalizione, formata da una sorta di ammucchiata tra partiti del centrodestra e del centrosinistra come Rinnovamento Italiano, Forza Italia, AN, CDU e CDR per l’UDR, raccoglie 6.876 voti, pari al 69,7 per cento dei consensi. I festeggiamenti però durano poco. Il 9 giugno l’avvocato Mandalà finisce in manette insieme ai boss della cosca di Caccamo, nell’ambito dell’inchiesta in cui è indagato il deputato Gaspare Giudice. Cinque mesi dopo, tocca agli imprenditori-uomini d’onore che a Bagheria garantivano la latitanza di zio Binu. “Presi i colonnelli di Provenzano”, titolano euforici i giornali. Tra di loro ci sono anche Simone Castello e l’ingegner Vincenzo Giammanco, capo dell’ufficio tecnico del Comune e nipote del senatore DC Ignazio Mineo, ucciso nel 1984, e dell’ex capomafia di Bagheria, Antonino Mineo, ammazzato nel 1989.
A quel punto si muove anche il governo di centrosinistra, presieduto da Massimo D’Alema. Il 16 aprile 1999 il Consiglio dei Ministri ordina lo scioglimento dei consigli comunali di Villabate, Bagheria e Ficarazzi, a causa «del condizionamento da parte della criminalità organizzata». Le prime due amministrazioni sono in mano al Polo delle Libertà, la terza è invece governata dalla sinistra.
Il coordinatore siciliano di Forza Italia, Gianfranco Miccichè, dichiara: «E stata una vergognosa pulizia etnica. Il cielo ha corrisposto ai desideri reconditi del vicepresidente del Consiglio Sergio Mattarella e così, dopo questa operazione di pulizia etnica, costui potrà tentare la riconquista del territorio». Poi conferma «la stima e la fiducia nei confronti dei sindaci di Bagheria e Villabate e degli amministratori che con essi hanno lavorato». Su quelli di sinistra del Comune di Ficarazzi dice, invece, di «non esprimere giudizi giacché non li conosco». Alleanza Nazionale è appena più prudente. I deputati Nino Lo Presti e Enzo Fragalà si riservano di chiedere l’annullamento degli scioglimenti dopo aver letto i provvedimenti, ma azzardano un’ipotesi: «E probabile che dietro tutto questo vi sia una ragione politica. C’è forte il sospetto che si sia voluto privare i cittadini di questi paesi delle rappresentanze moderate». Poi, per far quadrare il cerchio, spiegano che anche il Comune rosso di Ficarazzi è stato sciolto nel tentativo di «equilibrare un provvedimento altrimenti fazioso e di parte». Roberto Centaro, futuro presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, ma in quel momento capogruppo di Forza Italia nello stesso organismo, protesta per un’inesistente violazione di un altrettanto inesistente segreto d’ufficio: «E gravissimo che la notizia dello scioglimento sia stata anticipata da esponenti dell’Ulivo i quali, in nome e per conto del presidente del Consiglio e del ministero dell’Interno, avevano preannunciato in merito una conferenza stampa».
E quasi inutile chiedersi se queste dichiarazioni vengano fatte in buona o in mala fede. Quello che conta è il risultato: leggendole sui giornali gli uomini d’onore pensano di non essere soli.
Eppure, quando il 16 aprile 1999 il consiglio comunale di Villabate viene sciolto per la prima volta per mafia, almeno in Forza Italia si sa bene come stanno le cose.
Appena due mesi prima, il 19 e il 20 febbraio, sia Renato Schifani che Enrico La Loggia erano stati ascoltati in Procura come testimoni sui loro rapporti con Mandalà e l’amministrazione comunale. E in un interrogatorio che sembrava una partita a poker si erano sentiti leggere il contenuto dell’intercettazione tra il boss di Villabate e il colonnello di Provenzano. Con consumata abilità i magistrati avevano prima lasciato parlare liberamente i parlamentari. Poi, a poco a poco, avevano chiesto spiegazioni sulle singole affermazioni di Mandalà. Il risultato, soprattutto per La Loggia, era stata un’imbarazzata deposizione in cui l’allora capogruppo dei senatori azzurri aveva cambiato progressivamente versione.
Davanti ai PM La Loggia aveva spiegato di aver incontrato Nino a Villabate, col quale non aveva mai avuto «una conoscenza assidua», solo perché l’avvocato era lo zio del sindaco Navetta. Aveva detto che effettivamente, il 4 maggio 1998, si era tenuta nel suo ufficio una riunione del vertice del partito alla quale avevano partecipato tutti i politici citati da Mandalà nella sua conversazione con Simone Castello. Lui però non ricordava che qualcuno in quell’occasione gli avesse chiesto di telefonare a Mandalà per «recuperarlo».
Una telefonata con il boss c’era comunque stata, ma qualche settimana dopo la riunione. A chiedergli di farla non era stato però Schifani [il quale, sentito come teste ventiquattr’ore prima di La Loggia, aveva già negato di aver avanzato una simile richiesta], ma Gaspare Giudice: «Eravamo proprio in campagna elettorale e, insomma, io resistevo un po’ a ‘sta cosa, perché non avevo tutto ‘sto piacere a chiamare Mandalà. [Alla fine] vinto come dire dalla richiesta pressante, chiamai anche Mandalà per chiedergli come va con questo candidato [un candidato diverso da quello sponsorizzato da Schifani], eccetera eccetera. Lui mi rispose, per la verità, in maniera un po’ sgarbata per dire: io ce 1’-ho con tutti voi, qui le cose vanno male e non so nemmeno se mi impegnerò in questa campagna [...]».
Poi il parlamentare si era attorcigliato in un complicato ragionamento sul perché della freddezza di Mandalà: «Io ho immaginato, non che lo avessi saputo, ma l’ho immaginato [che Mandalà fosse sgarbato a causa della vicenda di suo figlio]. [Lui] era stato accusato di reati gravi, omicidio o qualcosa del genere – accuse dalle quali poi, ma ho solo un ricordo vago, credo sia stato riconosciuto innocente – poi mi pare che si liberò. [Quindi io immaginavo che lui ce l’avesse con me] perché io non mi ero fatto vivo, diciamo, per dare un gesto di solidarietà. E quindi, non perché me lo abbia detto Mandalà, ma forse me lo deve aver riferito qualcun altro, diciamo persone di comune conoscenza, lui c’era rimasto male. Questa è l’unica ragione che io posso immaginare».
La prudenza di La Loggia, i suoi discorsi carichi di «diciamo», «ho immaginato», «non me lo ha detto lui», si erano però interrotti subito quando i PM gli avevano letto la parte di intercettazione ambientale in cui il capomafia raccontava a Castello di averlo fatto piangere durante un incontro avvenuto proprio nel suo studio, dopo un convegno di Forza Italia.
Con un’improvvisa correzione di rotta, il futuro ministro degli Affari Regionali era allora sembrato recuperare la memoria per qualche secondo. E pur negando di aver visto Mandalà vis-à-vis nel proprio ufficio di via Duca della Verdura aveva detto: «E’ esattamente come poc’anzi io stavo cercando di ricordare, adesso mi ricordo con più precisione ... la mia, come dire, illazione sul perché lui ce la potesse avere con me, viene confermata sostanzialmente, almeno questa è l’unica cosa vera di tutta questa conversazione: cioè lui ce l’aveva con me perché io non mi ero fatto sentire quando lui ebbe questo problema grave del figlio. Io l’ho incontrato in una occasione pubblica, quindi può darsi sia stato durante il congresso ... e gli dissi: “Ah, Nino è molto che non ci vediamo, penso che tu ora ce l’hai con me perché non mi sono fatto vivo”, e lui mi rispose bruscamente: “Ah, certo da te non mi sarei mai aspettato questa dimenticanza”. Ci dissi: “Vàbbè, quando vuoi, se lo riterrai, ne potremo riparlare con calma, quando vuoi ci vediamo”. Cioè la cosa finisce lì perché poi, tutto il resto che io me lo sarei portato in ufficio, sarei stato un’ora con lui eccetera eccetera, io non me lo ricordo affatto, cioè non credo che sia successa questa cosa. Cioè questo è frutto poi di come lui, probabilmente, ha colorito, diciamo, tutta la vicenda per farsi probabilmente bello con questo signore che io non conosco affatto. [...] Onestamente non credo che Mandalà abbia nessuna, ma proprio nessuna occasione di potermi fare spaventare, non si capisce bene per che cosa». La Loggia aveva infine affrontato la questione della nomina di Schifani a consulente urbanistico del Comune di Villabate. E anche qui aveva ovviamente escluso di averla contrattata con il boss: «Lui è uno dei migliori avvocati esperti in urbanistica d’Italia (2). Io parlai della sua nomina con Miccichè, perché il senatore Schifani aveva organizzato tutti i dipartimenti di Forza Italia, aveva fatto un lavoro enorme ... E io dissi: “Ma guarda se tra questi sindaci che sono stati eletti, se è possibile fargli trova-re una consulenza perché ha perso molto tempo e ha avuto dei mancati guadagni”. Adesso però non ricordo se parlai io direttamente con il sindaco Navetta o tramite Miccichè».
Il tentativo di La Loggia di marcare il più possibile le distanze da Mandalà era insomma evidente. E persino comprensibile. In fondo il boss Mandalà, dopo essersi allontanato per qualche me-se dalla vita di partito in seguito all’arresto di suo figlio, era ritornato in Forza Italia alla grande entrando a far parte, come primo degli eletti, nel direttivo provinciale. L’imbarazzo personale e politico aveva insomma un senso. Meno facile da capire invece era il perché gli azzurri avessero definito, per bocca di Miccichè, una «pulizia etnica» lo scioglimento di un Comune come Villabate, dove il sindaco era il nipote del presunto capomafia.

(1) Interrogato in aula, Nino Mandalà ammetterà di aver detto per davvero a La Loggia quelle frasi, ma sosterrà di aver millantato con lui la propria mafiosità: «Chiaramente quando dico a La Loggia “Io sono mafioso” lo dico in maniera ironica e lo dico perché lui mi aveva rinnegato per la paura che io fossi mafioso. E sulla questione dei voti volevo ferir-lo ... perché suo padre era un galantuomo e non aveva assolutamente rapporti con ambienti mafiosi». Mandalà confermerà anche il pianto di La Loggia spiegando: «Piangeva per la paura che io potessi rivelare quelle frasi, ma che erano solo mirate a ferirlo, ma che non corrispondevano a verità. Temeva che potevano danneggiarlo. Ma io gliele ho sparate in faccia per ferirlo».

(2) Renato Schifani non si occupa però solo di urbanistica. Sul finire degli anni Ottanta ha assistito imprenditori legati a Cosa Nostra nei procedimenti per la confisca dei loro beni. L’ex ministro di Grazia e Giustizia Filippo Mancuso (Forza Italia) nel corso di una violentissima polemica lo ha definito «principe del Foro del recupero crediti». Il riferimento era probabilmente a una società, oggi inattiva, costituita nel 1992 da Schifani con Antonio Mengano e Antonino Garofalo, la GMS. L’avvocato Antonino Garofalo (socio accomandante come Schifani) è stato arrestato nel 1997 e rinviato a giudizio per usura ed estorsione. L’ex socio di Schifani, poi assolto dopo un processo durato otto anni, era allora ritenuto il capo di un’organizzazione che prestava denaro nella zona di Caccamo chiedendo interessi del 240 per cento. Schifani non è comunque mai stato coinvolto nelle indagini.

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Da Peter Gomez e Marco Travaglio, “Se li conosci li eviti. Raccomandati, riciclati, condannati, imputati, ignoranti, voltagabbana, fannulloni del nuovo Parlamento”, Chiarelettere 2008, pagg. 268-270.


Schifani Renato Giuseppe (FI)
Anagrafe: Nato a Palermo l’11 maggio 1950.
Curriculum: Laurea in Giurisprudenza; avvocato; dal 2001 capogruppo di FI al senato; 3 legislature (1996, 2001, 2006).
Soprannome: Fronte del Riporto.
Segni particolari: Porta il suo nome, e quello del senatore dell’Ulivo Antonio Maccanico, la legge approvata nel giugno del 2003 per bloccare i processi in corso contro Silvio Berlusconi: il lodo Maccanico-Schifani con la scusa di rendere immuni le «cinque alte cariche dello Stato» (anche se le altre quattro non avevano processi in corso). La norma è stata però dichiarata incostituzionale dalla consulta il 13 gennaio 2004. L’ex ministro della Giustizia, il palermitano Filippo Mancuso, ha definito Schifani «il principe del Foro del recupero crediti», anche se Schifani risulta più che altro essere stato in passato un avvocato esperto di questioni urbanistiche. Negli anni Ottanta è stato socio con Enrico La Loggia della società di brookeraggio assicurativo Siculabrokers assieme al futuro boss di Villabate, Nino Mandalà, poi condannato in primo grado a 8 anni per mafia e 4 per intestazione fittizia di beni, e dell’imprenditore Benny D’Agostino, poi condannato per concorso esterno in associazione mafiosa.

Secondo il pentito Francesco Campanella, negli anni Novanta

“il piano regolatore di Villabate, strumento di programmazione fondamentale in funzione del centro commerciale che si voleva realizzare e attorno al quale ruotavano gli interessi di mafiosi e politici, sarebbe stato concordato da Antonino Mandalà con La Loggia. L’operazione avrebbe previsto l’assegnazione dell’incarico ad un loro progettista di fiducia, l’ingegner Guzzardo, e l’incarico di esperto del sindaco in materia urbanistica allo stesso Schifani, che avrebbe coordinato con il Guzzardo tutte le richieste che lo stesso Mandalà avesse voluto inserire in materia di urbanistica. In cambio, La Loggia, Schifani e Guzzardo avrebbero diviso gli importi relativi alle parcelle di progettazione Prg e consulenza. Il piano regolatore di Villabate si formò sulle indicazioni che vennero costruite dagli stessi Antonino e Nicola Mandalà [il figlio di Antonino che per un paio d’anni ha curato gli spostamenti e la latitanza di Bernardo Provenzano, nda], in funzione alle indicazioni dei componenti della famiglia mafiosa e alle tangenti concordate”.

Schifani, che effettivamente è stato consulente urbanistico del comune di Villabate, e La Loggia hanno annunciato una querela contro Campanella.

Assenze: 321 su 1447 (22,2%) missioni 20 su 1447 (1,4%).
Frase celebre: «Li abbiamo fregati!» (dopo l’approvazione della legge sul legittimo sospetto, che doveva servire per spostare i processi contro Berlusconi e Previti da Milano a Brescia, 1° agosto 2002).

«In vacanza alle isole Eolie, Renato Schifani, in compagnia di alcuni amici, ha dovuto aspettare per un’ora di fila che si liberasse un tavolo in un ristorante del centro di Lipari. Il capogruppo di Forza Italia a Palazzo Madama ha pazientemente atteso il proprio turno, senza sollevare alcuna obiezione e senza pretendere un trattamento di favore» (comunicato ufficiale dell’ufficio stampa del sen. Schifani, 15 agosto 2006).

«Rita Borsellino sfrutta il nome del fratello per fini politici» (12 settembre 2003).

«Sono un sessantottino, ho partecipato anch’io alle occupazioni. Sto dedicando la mia vita a lui, io credo molto in Silvio Berlusconi (...) Mi sono innamorato di Berlusconi perché ho visto in lui quella naturalezza e genuinità della politica che non avevo visto in passato. È un grande stratega e un grande leader» («Libero», 29 luglio 2007).

«Oggi Cuffaro ha ripreso saldamente in mano il timone di una Sicilia che già è cresciuta così come i dati sul Pil e sulla disoccupazione ai minimi storici ci indicano. Dobbiamo anche riconoscere al governatore siciliano che è stato e continua ad essere l’unico garante della unità della coalizione, risultato questo che, in un sistema maggioritario, è garanzia di stabilità e quindi di quella risorsa fondamentale per lo sviluppo che è la governabilità di un territorio. Forza Italia sarà al suo fianco in questa nuova fase di governo della Regione per sostenere quella linea riformistica che è alla base del proprio credo politico» (dopo la condanna di Cuffaro a 5 anni per favoreggiamento, Agi, 19 gennaio 2008).


14 commenti:

Anonimo ha detto...

Non riesco a trovare parole per un commento.
Per la mia sensibilità tutto quanto scritto si commenta da solo.
Da un po' di tempo però mi chiedo una cosa: non sarà che gli Italiani si meritano tutto questo?
Io penso che stiamo vivendo un periodo storico assimilabile al medioevo: oscuro, ma anche di preparazione al rinascimento (almeno spero).
Concordo pienamente con l'autore dell'articolo: invece di gridare allo scandalo ed alle epurazioni i ns. rappresentanti diano spiegazioni di quanto a loro attribuito. A volte ciò che è più semplice appare di complicazione inaudita...o forse sono soltanto deliri da onnipotenti che ritengono l'occupazione di cariche istituzionali soltanto un privilegio e non una fonte di responsabilità e doveri.
Mathilda

Anonimo ha detto...

Grande Redazione!!!
Però attenzione, non può essere tutto riconducibile alla mafia, altrimenti da questo "merdaio" non se ne esce più!
L'offesa alla seconda carica dello Stato sta nell'aver detto che dopo di Schifani, in quel ruolo, ci si aspetta di trovarsi la muffa o meglio ancora il lombrico, in quanto la muffa è utilizzabile a fin di bene. Ecco, non riesco a capire perché dopo aver elencato fatti inconfatibili, poi si cade in queste bassezze. Per le quali si rischia di dare ai mascalzoni la possibilità anziché di rispondere ai fatti seri e concreti, di tergiversare su argomenti dove possono dimostrare il loro vittimismo.
Bartolo
LA LETTERA!!!
Gentile De Luca,
sempre sulla normalità di questo Paese!!!
Un giornalista attraverso il Servizio Pubblico Televisivo, da del lombrico alla seconda carica dello Stato; la seconda carica dello Stato, in passato, ha avuto rapporti con mafiosi; un senatore, nonché braccio destro del capo del Governo, dice pubblicamente di un mafioso che è stato un eroe. La gravità di quest'ultima circostanza, sfuggita a chiunque, nell'intento di accusare l'autore di aver elogiato un mafioso, sta nel fatto che la parte politica di cui lo stesso autore è espressione, oggi al Governo del Paese, rimanga indifferente nell'apprendere che cittadini detenuti che si rifiutavano di accusare ingiustamente qualcuno, venivano fatti morire dai precedenti governi con le torture del 41 bis. Non solo, anzi, per mano del nuovo Ministro della Giustizia, perseverano nell'applicazione di quel regime carcerario. Temiamo che ad ogni applicazione di 41 bis si voglia indurre quel detenuto ad accusare ingiustamente qualcuno. O, questo nobile gesto metodologico, vige soltanto quando al potere stanno i comunisti?
Italianiii......Sveglia!!!
Con la solita stima, bartolo iamonte.

Anonimo ha detto...

Complimenti!!
Bellissimo articolo, hai detto esattamente quello che penso ma non sarei mai stata capace di scriverlo così bene!!
Se non ti dispiace lo riporto sul mio blog, citando la fonte ovviamente...

Grazie

Unknown ha detto...

Da tempo alla ricerca di fonti di informazione e di commento alternative (non ne posso più di quelle "ufficiali"), ho trovato questo blog. Ho letto l'articolo sul "caso Travaglio". Posso solo dire che, da tanto che lo condivido, vorrei averlo scritto io. Continuerò a leggere e ad informarmi su queste pagine. A livello concettuale, la situazione del nostro paese e del sistema che lo gestisce mi è molto chiara; qui trovo le conferme oggettive dei miei convincimenti.
Se posso esprimere il mio parere su quello che leggo anche nei commenti degli altri visitatori del blog, non credo che gli italiano si meritino tutto questo, io credo che gli italiani SIANO tutto questo. La nostra è una società senza ideali e senza controllo, caratterizzata da un edonismo di bassa lega, facilmente manipolabile da imbonitori e affabulatori. Una società non diventa così per trasformazione spontanea; è il risultato di un'azione di condizionamento, quasi scientifica, svolta nel lungo periodo e per questo praticamente impossibile da modificare, se non in un periodo altrettanto lungo.
L'attuale periodo storico è assimilabile al Medio Evo? Spero proprio di no; il Medio Evo durò un migliaio di anni prima di sfociare nel Rinascimento e poi ci vollero altri tre secoli e mezzo prima di arrivare alla Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo e del Cittadino. In conclusione: ben vengano giornalisti "illuminati" che mettono a nudo le falle del sistema e rivelano cose che i "potenti" non vorrebbero fossero dette. Sono però così pessimista da pensare che queste esternazioni non siano in grado di produrre alcun effetto, se non in ristrette elite di persone. In altre parole: l'opinione pubblica generalista se ne frega se chi gestisce il potere è, o meno, onesto e irreprensibile, anzi forse lo preferisce così perché se lo sente più simile.

Anonimo ha detto...

Complimenti anche da parte mia... mi fa male sentire giovani che dicono cose del tipo:"Ma hai sentito che cose va a dire in giro Travaglio? Ma come si fa a fargli dire quelle cose?".
Persone che ritenevo intelligenti e capaci.... che tristezza...
Grazie

Anonimo ha detto...

Sottoscrivo in pieno quanto detto da Alessandro. E aggiungo che sta a noi nel nostro piccolo cercare di apportare quelle minuscole variazioni sul tema che aiuteranno - si auspica - ad una svolta anche se ahimè molto lontana nel tempo.

T.

Anonimo ha detto...

Per i "complici" e i serventi del potere il "fatto" non è costituito dalle ambigue frequentazioni del Presidente del Senato Renato Schifani, ma dalle parole del giornalista Marco Travaglio.
Si indignano perchè Travaglio ha parlato di muffa e di lombrichi, e fingono di non vedere i pescecani.

salvatore d'urso ha detto...

Per Bartolo Iamonte...

Ma io non ci vedo nessuna offesa per quanto riguarda il lombrico... poichè se hai seguito il discorso di Travaglio dalla A alla Z... diceva che dopo tutto ciò che ha fatto questa persona non è compatibile con quella carica dello stato e che in precedenza non c'erano stati presidenti del senato con quel passato, che la carica rivestita è stata di legislatura in legislatura sempre peggiore fino ad arrivare a questo signore... dopo ci aspettano i lombrichi... che ha detto di male?... ha espresso un giudizio su chi c'era prima confrontandoli con gli ultimi presidenti delle camere fino a schifani...

Cioè quella carica istituzionale da chi viene infangata scusa? Da travaglio che si riferisce a quel personaggio o da quel personaggio con quel passato?

Guardiamo un pò più la luna e non il dito...

Anonimo ha detto...

“Ladri di Verità, Ladri di Legalità, Ladri di Democrazia.”

Più che invocare sanzioni contro Anno Zero e contro un giornalista che onora la professione, raccontando fatti, si dovrebbe parlare della ferita quotidianamente inferta alla democrazia da tutti quei Tg e contenitori di sedicente approfondimento del duopolio Raiset, che sembrano avere quale unico compito l’occultamento della verità, dei fatti, della conoscenza.
Guardiamoci in faccia e diciamocelo: se democrazia è “conoscere per deliberare”, in questo paese siamo messi davvero male.
L’ultimo rapporto di Freedomhouse(2007) colloca l'Italia al 61° posto nel mondo per libertà di stampa.
Voglio esprimere a Marco Travaglio, autore di un libro quale “La scomparsa dei Fatti”, tutta la mia solidarietà e stima.
Tra tanti ladri di verità, almeno qualcuno che non racconta bugie o stende “veli pietosi” dovremmo tenercelo stretto.
“C’è chi nasconde i fatti perché altrimenti non lo invitano più in certi salotti, dove s’incontrano sempre leader di destra e leader di sinistra, controllori e controllati, guardie e ladri, puttane e cardinali, prìncipi e rivoluzionari, fascisti ed ex lottatori continui, dove tutti sono amici di tutti ed è meglio non scontentare nessuno.”(Marco Travaglio)

Anonimo ha detto...

“Conoscere per deliberare”, questo era il motto caro al Presidente della Repubblica Luigi Einaudi.
Guardatevi attorno. Avete l’impressione che queste parole abbiano un senso in questo nostro microcosmo?
E adesso allargate il campo. Pensate al linciaggio che sta subendo Marco Travaglio, colpevole agli occhi di uno schieramento bipartisan di aver raccontato dei fatti.
Ci siete? Non so voi, ma io mi sento oppresso da questa marea montante che vuole a tutti i costi mettere la sordina alla libertà di stampa.
Non possiamo sapere. Non abbiamo il diritto di sapere.
Vogliono mettere la sordina a tutto, e forse sarebbe ora che qualche magistrato rispolveri l’art. 294 del codice penale, che, come noto, parla di attentato ai diritti civili e politici dei cittadini italiani.
Più che invocare sanzioni contro Anno Zero e contro un giornalista che onora la professione, raccontando fatti, si dovrebbe parlare della ferita quotidianamente inferta alla democrazia da tutti quei Tg e contenitori di sedicente approfondimento del duopolio Raiset, che sembrano avere quale unico compito l’occultamento della verità, dei fatti, della conoscenza.
Guardiamoci in faccia e diciamocelo: se democrazia è “conoscere per deliberare”, in questo paese siamo messi davvero male.

Anonimo ha detto...

Non so se sia possibile essere ascoltati, quando gli argomenti sono diversi da quelli che il coro ama gridare e commentare all’unisono. Un cittadino qualsiasi, anche se ingenuo come me, forse ha diritto di rammaricarsi per la confusione d’idee, che cerca di contagiarlo, apparsa in commenti sulle dichiarazioni di Travaglio durante una trasmissione di “Che tempo che fa”.
Questo blog, sembra a me, si sforza sempre di assumere un atteggiamento sereno, ma commenti sia della redazione sia di alcuni lettori mi lasciano disorientato.
Non credo proprio sia il caso di entrare nell’analisi di quegli argomenti pubblicati dai libri di Travaglio e di altri autori, o da articoli, sul passato di Schifani, venduti per documenti su “fatti importanti”. Ognuno si prende la responsabilita’ di quello che scrive per vendere. Mettersi a discutere sul diritto alla liberta’ di stampa e’ qui ozioso, tanto tale diritto e’ ovvio e garantito.
Cio’ che invece sconcerta un povero ingenuo come me e’ che si faccia rientrare nel diritto alla liberta’ di stampa anche il “diritto” alla liberta’ di diffamazione. Il concetto di diffamazione e’ definito dagli articoli 594, 595, 596, 597 del codice penale. Non i libri, ma le esternazioni di Travaglio in televisione circa la qualita’ umane e morali di Schifani, fatte davanti a qualche milione di telespettatori, sono diffamazione (che, fra l’altro, per l’art. 596 bis del c.p., potrebbe coinvolgere le responsabilita’ penali del conduttore della trasmissione Fazio e di qualche dirigente della RAI), aggravata dal fatto che il giudizio diffamatorio di Travaglio riguarda un’alta carica dello Stato (art.595 c.p., quarto comma).
Non c’entra proprio nulla la “verita’” dei fatti sui quali il personale giudizio diffamatorio di Travaglio si basa. Fra l’altro, nessuno di tali “fatti”, dei quali Schifani sarebbe protagonista, ricade in ambiti penalmente rilevanti, e querele contro Travaglio non coinvolgerebbero i giudici nell’accertamento della verita’ dei “fatti” (come mostra di rallegrarsi Travaglio), se questi fatti non ricadono nell’ambito dei reati.
In conclusione, la diffamazione dovuta ad un’affermazione denigratoria fatta davanti a milioni di persone non solo non e’ giustificabile per le motivazioni che la generano (ognuno puo’ liberamente farsi una filosofia etica anche sul gioco delle ambiguita’ che “prudono”, e che tanto solleticano le masse), ma e’ per giunta penalmente perseguibile, soprattutto perche’ fatta attraverso un mezzo di diffusione come la televisione.
E ancor piu’ deplorevole appare a me la diffamazione in considerazione del fatto, questo si’ inoppugnabile, che Travaglio stava in quella trasmissione per fare pubblicita’ al suo libro, dove si tratta anche della persona di Schifani; onde la diffamazione verbale emersa nell’intervista di Fazio e’ apparsa come un pungolo verso il mercato di simile letteratura. Un ingenuo come me puo’ leggere e indignarsi o esaltarsi, o restare indifferente, per la letteratura di dietrologi di mestiere, ma trova strano che reclamare il diritto alla libera diffamazione non sia ritenuta cosa biasimevole.
Un ipotetico esempio non guasta, e mi appiglio ad un sorprendente commento del signor D’Urso (non me ne voglia) su questo blog. Se a qualche intemperante saltasse in mente di scrivere, su questo blog, che “c’e’ un preoccupante scadere di qualita’ nei commenti qui pubblicati sul caso in esame, fino a quello inqualificabile del signor D’Urso” (aggiungendo un’ermetica quanto maliziosa allusione ai “noti trascorsi” del signor D’Urso, che spiegherebbero la qualita’ del suo commento), “dopo il quale” – si affermasse pure – “un peggior commento potrebbe, forse, essere prodotto solo dal turpiloquio di un mentecatto”, ritengo che il signor D’Urso avrebbe ragione di sentirsi diffamato, pur non essendo Presidente del Senato e pur non verificandosi l’evento durante una trasmissione televisiva della RAI.
E sarebbe strano se il signor D’Urso non reagisse e con lui, forse, anche qualche suo amico. (Per Travaglio lo scadere di qualita’ di personaggi pubblici fin forse alla muffa non sarebbe nemmeno metafora appropriata, perche’ almeno dalla muffa si puo’ ricavare la penicillina; mentre da gente come Schifani…).

Mario Ludovico
Poznan, 14 maggio 2008

Anonimo ha detto...

Per Mario Ludovico Poznan. Nonostante tutti i reati da lei individuati nella condotta di Marco Travaglio, a tutt'oggi il Presidente Schifani non ha né proposto querela né promosso alcun giudizio civile, ma solo, come sempre fanno queste persone in questi casi, annunciato con grande pompa di "avere dato mandato ai suoi legali di procedere".

Dunque, a tutt'oggi, il Presidente Schifani non si è ritenuto giuridicamente leso.

Poi, Mario Ludovico, se lei si fa un giro sui giornali, cartacei e internettiani, scoprirà quanti e quali insulti riceva ogni giorno Marco Travaglio da tutti.

Infine, faccia un esperimento. Riveda il video della trasmissione Annozero di un paio di settimane fa e immagini che tutte le infinite parolacce dette da Sgarbi a Travaglio le avesse dette Travaglio a Sgarbi.

E immagini cosa sarebbe successo.

E soprattutto, si chieda perchè non le viene in mente di elencare qui tutti i reati commessi da Sgarbi in quella occasione.

Non me ne voglia, perchè questo mio commento non vuole essere ostile, ma temo che siamo, come sempre, al dito che indica la luna e tutti guardano il dito.

Una persona dice che il Presidente del Senato molti anni fa era socio in affari e amministratore di una società composta da mafiosi (non di secondo piano, ma proprio i capi della mafia); lui stesso ammette (cfr L'Unità di ieri) che quei mafiosi gli sono stati presentati dall'on. La Loggia, il cui padre viene indicato come mafioso; siamo a Villabate dove tutti conoscono tutti; il Presidente del Senato era già allora un affermato avvocato, sicchè è difficile poter credere che non sapesse con chi faceva affari; questa cosa potrebbe anche non significare nulla, ma certo dovrebbe fare riflettere e far sì che si pretenda dal Presidente del Senato che almeno dia una sua versione pubblica e chiara di questa cosa; e alcuni, fra i quali lei Mario Federico, sono invece colpiti dalla "muffa" ed è della muffa che vogliono parlare.

Ma la muffa, oltre a essere utile per fare le medicine, non ha mai fatto stragi. La mafia invece purtroppo si.

Achille

Unknown ha detto...

Il "core business" di questo blog è sui problemi della Giustizia in Italia ma se mi permetto di fare un commento sulla trasmissione Ballarò di ieri sera non credo di essere completamente fuori tema, dato che c'era l'On. Antonio Di Pietro che tentava di fare riferimento a fatti (e atti) giudiziari, anche se nessuno gli andava dietro.
Nella puntata di ieri sera abbiamo potuto ammirare maggioranza e minoranza (la chiamo così perché da quanto ho visto non si può certo fregiare dell'appellativo di "opposizione") che cinguettavano sulle note del più classico degli inciuci.
Le uniche voci fuori dal coro erano: Di Pietro, appunto, che faceva la figura del Don Chisciotte (dato che il suo alleato del PD On. Letta non ci pensava proprio a supportarlo), poi la signora sindacalista e infine la signora economista, dalla Germania, che a un certo punto sembrava prossima ad una crisi di nervi per quanto era costretta a sentire, con scarse possibilità di replica. I governativi, l'On. Cicchitto in testa, travisavano in diretta quello che le due signore si arrabattavano a sostenere, però lo facevano con il sorriso sulle labbra. Un sorriso che stava a significare: tanto abbiamo vinto (a un certo punto della trasmissione lo hanno anche detto). Facevano caciara corale solo quando c'era da coprire qualche affermazione a loro non gradita.
Ad ogni modo, mi sembra di rilevare un evidente cambio di rotta, a livello comportamentale, da parte del team del PdL.
Finché erano "opposizione" (in questo caso il termine è calzante) ad ogni intervento dicevano tutti esattamente la stessa cosa, con la stessa intonazione e con lo stesso identico livore. Roba da Actor's Studio. Ora, probabilmente, il direttore del coro ha detto che bisogna cambiare movimento: dall'Andante Mosso all'Allegretto. Perciò basta con l'acidità a pH2, bisogna sorridere (tanto abbiamo vinto) ed aprire agli avversari politici.
In questo clima di "nuova ed eterna (?) alleanza" con l'Altissimo (giuro che questa è involontaria...), la minoranza ha visto magnanimamente riconosciuto il suo governo ombra (o ombra del governo?). Non bisogna stupirsi, quindi, per averla vista insorgere come un sol uomo, insieme alla maggioranza, quando Travaglio ha detto quelle cose sulla seconda carica dello stato.
Perché finché quelle cose si scrivono sui libri sembra che ci si possa anche passare sopra, così la libertà di espressione è salva (e i lettori, pur tanti che siano, a livello di voti non sono un'enormità e forse nemmeno votano), ma se si dicono in una trasmissione televisiva con milioni di spettatori, quindi ci si rivolge ad una massa eterogenea di persone che verosimilmente vota, il discorso sembra che sia molto diverso.
Verrebbe da pensare che le televisioni abbiano il potere di influenzare l'opinione pubblica...

Anonimo ha detto...

Per il signor Achille (14.05.2008). Una breve replica.
Circa il desolante comportamento di Sgarbi contro Travaglio durante "Annozero", ebbi modo di esprimere un mio commento su altro blog, nel quale invece apprezzavo e consideravo "eccellente" il comportamento di Travaglio. Mentre non mi preme sapere se Travaglio querelera' Sgarbi o no. La diffamazione, che li' c'e'abbondantemente stata (al punto da far provare vergogna per il comportamento di Sgarbi anche da parte di telespettatori come me), non e' reato perseguibile d'ufficio, ma e' reato.
Le potenziale/attuale querela di Schifani contro Travaglio non e' il nocciolo della mia nota, con la quale cerco di distinguere fra liberta' di stampa (pettegolezzo compreso) e "diritto" alla diffamazione, stando al reato di diffamazione come definito dal nostro codice penale.
Circa i deliziosi nonche' profondi teoremi, enunciati sotto il titolo de "Il dito e la luna", fra i numerosi articoli e blog sull'argomento Travaglio-Schifani, ritengo condivisibile una nota di Giuseppe D'Avanzo apparsa ieri 14 maggio a pag. 39 di "La Repubblica".
Mario Ludovico
Poznan, 15 maggio 2008