sabato 5 gennaio 2008

L’Italia dell’Antimafia - Le assoluzioni e l’ipocrisia delle riabilitazioni.


di Francesco Siciliano
(Avvocato del Foro di Cosenza)


Il processo penale è per definizione una scansione di atti e provvedimenti che portano all’emanazione di un provvedimento finale quale la sentenza in cui i giudici, chiamati a decidere, devono trasfondere il loro libero convincimento.

Tale provvedimento finale, tuttavia, si fonda sul convincimento del giudice che deve formarsi sulla prova di colpevolezza o meno che si riesce a raggiungere all’interno appunto del processo.

Tutti questi elementi si formano all’interno del processo dove, necessariamente, esistono delle regole formali che le parti sono chiamate a rispettare pena l’annullamento della prova ovvero della sentenza che si basa su quella.

Allo stesso modo il processo penale, così come le indagini di polizia giudiziaria, sono ricostruzioni ex post di fatti che, per giungere a un giudizio di colpevolezza devono – in assenza di confessioni del reo –, tra l’altro, trovare conforto in una ricostruzione coerente del fatto e in una motivazione logica del giudizio di colpevolezza.

Tanto, e per fortuna, lo si deve alle regole democratiche della stato di diritto e alla necessità che, soprattutto, nella materia della libertà personale il giudizio trovato all’interno del processo rappresenti, sotto il profilo della categoria scientifica della probabilità e della veridicità, un giudizio quanto più possibile prossimo alla verità reale che è cosa necessariamente vicina alla verità processuale, questo proprio perché la seconda è ricostruzione ex post che segue le leggi della probabilità e non della certezza.

Accade così molto spesso, ma ciò è assolutamente indispensabile per un sistema giuridico maturo, che la ricostruzione di fatti possa mutare in diversi gradi di giudizio così come che, ferma la ricostruzione dei fatti, possa mutare il giudizio di colpevolezza a carico di imputati in funzione dell’iter logico motivazionale seguito dai giudici investiti di quella valutazione.

Il curioso di informazione in merito alle vicende del diritto deve sempre partire dal presupposto che la situazione sopra esposta è una normalità poiché ogni uomo nel suo libero convincimento e in funzione della propria preparazione giuridica può arrivare a diversi risultati pur valutando il medesimo fatto o la medesima ricostruzione ex post di fatti.

Così come, allo stesso modo, quel curioso deve porre attenzione alla circostanza che le leggi dello stato, soprattutto in materia penale, impongono di rendere chiari e inequivocabili i comportamenti che si possono considerare reati e le regole necessarie per stabilirlo (c.d. tipicità della fattispecie criminosa).

Accade quindi che un comportamento o un insieme di comportamenti, all’interno del processo penale, devono essere riguardati con riferimento a una condotta descritta nella legge come reato al fine di potere emettere una sentenza di condanna non essendo possibile che se quel comportamento cessa di avere validità ai fini di un giudizio di colpevolezza con riferimento a quello preso in considerazione, possa essere emessa comunque una sentenza di colpevolezza.

L’argomento è già di per sé molto complesso per poterlo affrontare con estrema semplicità ma in realtà sto cercando di dire che ciò che può apparire “colpevole” a quel curioso del diritto spesso non è così rilevante se riguardato come condotta da valutare ai fini di una condanna per un reato previsto dalla legge e, pertanto, tipizzato dal codice (per tipizzato si intende scandito da formule legislative c.d. precetto e sanzione).

Questa situazione già di per sé estremamente difficile (non si può ovviamente pensare che le fattispecie criminose siano tutte “semplici” come il furto o l’omicidio) lo diviene ancora di più quando il giudizio investe fattispecie complesse come può essere quella del reato associativo di tipo mafioso.

In questo caso l’opera enorme della dottrina e in particolare della giurisprudenza (proprio nel rispetto del famoso brocardo nulla poena sine lege), tende a tipizzare tutte le componenti di un reato quale quello associativo che ha struttura c.d. prulisoggettiva e necessità quindi della caratterizzazione dei ruoli associativi, del dolo di partecipazione ecc..

Tutte necessità queste sacrosante e imposte dal richiamato principio di civiltà giuridica probabilmente molto più datato vista la lingua in cui era stato scritto rispetto al più comunemente sbandierato “garantismo”.

Questo sbarramento di civiltà giuridica impedisce quindi di arrivare a sentenze di condanna per fatti che non rientrano perfettamente nei predetti comportamenti tipizzati dalla legge e dall’opera dell’interprete.

Accade anche poi che, come prima richiamato, tutta la valutazione dei predetti comportamenti penalmente rilevanti e sovrapponibili a quelli che il legislatore ha tipizzato debbano essere provati all’interno delle regole processuali pena l’impossibilità di giungere a un giudizio di colpevolezza se la prova raggiunta su un singolo comportamento sia stata acquisita senza il rispetto di quelle regole.

Anche qui vi è la necessità di un maturo stato di diritto quale quella della certezza che il processo sia scandito da regole certe che garantiscano sia l’imputato che l’esercizio del potere punitivo statuale.

Emblematico in questo ragionamento è il caso di chi, condannato per un reato, si veda riconosciuta in Cassazione la sua non colpevolezza per effetto dell’inutilizzabilità di una prova, non perché non raggiunta, ma perché ricavata con lesione di regole processuali o sostanziali che la rendono di fatto inutilizzabile e quindi da non porre a base di una motivazione di colpevolezza.

Questo molto sinteticamente il quadro delle vicende che interessano i processi penali, ovviamente, avendo riguardo a casi di questo tipo, a situazioni cioè in cui le assoluzioni non derivino dall’accertamento di un errore giudiziario (cosa anch’essa, purtroppo, fisiologica in un sistema di grandi numeri) bensì, appunto, dall’individuazioni di errori procedurali nell’acquisizioni di prove poste a base di un giudizio di colpevolezza.

In un maturo e moderno stato di diritto, tuttavia, il sistema di convivenza civile e democratica non si basa esclusivamente sull’esercizio della funzione giurisdizionale regolatrice di conflitti o esercente il potere punitivo, ma richiede necessariamente anche un’altrettanto maturo esercizio della funzione legislativa e, fuori dai poteri dello stato, un corretto esercizio del diritto di cronaca che è esercizio di un diritto costituzionalmente garantito.

Nel campo dell’informazione, che è poi quello in cui la quasi totalità dei cittadini può trovare una risposta alla propria voglia di sapere del mondo in cui vive è quindi necessario che si dia conto non tanto degli errori giudiziari a fini delegittimanti ma che, nell’esercizio del dovere di informare, si cerchi il più possibile di ricercare la verità dell’informazione.

Verità dell’informazione che poi, sulla base delle proprie scelte, può arrivare a qualsiasi opinione ma che non può prescindere dalla rappresentazione dei fatti, quando di questo si tratti, ovvero dalle specificità tecniche che portano ad un giudizio di colpevolezza o di assoluzione nei casi più intricati come può essere quello dei reati associativi soprattutto con riferimento alla figura del concorrente episodico ed eventuale dell’associazione di tipo mafioso.

L’informazione, infatti, dovrebbe cercare il più possibile di raccontare la verità delle cose al fine di formare realmente nei cittadini una coscienza della propria storia e del proprio tempo.

Dovrebbe quindi essere necessario ad esempio scrivere sulle testate giornalistiche che Tizio è stato assolto dal reato di concorso esterno in associazione mafiosa perché si è stabilito in grado definitivo che questi non ha svolto alcuna opera di “fiancheggiamento” dell’associazione mafiosa così come si dovrebbe avere il rigore morale di scrivere sempre sulle medesime testate che Caio è stato assolto da quella imputazione poiché le prove che ne dimostravano la colpevolezza sono state ritenute inutilizzabili.

Questo perché fermo restando la definitiva assoluzione di Caio da comportamenti penalmente rilevanti rispetto alle ipotesi di accusa si possa discernere tra chi si è trovato suo malgrado a subire un giudizio di colpevolezza sbagliato e chi ha subito una formazione sbagliata del giudizio di colpevolezza.

Un’opera di questo tipo consentirebbe forse di discernere, sotto il profilo del giudizio non penale, tra le assoluzioni e le riabilitazioni.

Forse chiunque ha bisogno di capire la verità della propria storia che poi è la storia del suo Paese spesso e troppe volte raccontata partendo da un fine precostituito.

5 commenti:

Anonimo ha detto...

Credo che ogni avvocato sappia che un proscioglimento derivato da censure di legittimità per esser stata una attività probatoria giudicata invalida in quanto la formazione della prova è avvenuta in violazione di regole processuali abbia la stessa dignità giuridica e processuale di un proscioglimento nel merito, ossia di un provvedimento di non colpevolezza derivato dall'aver un magistrato giudicato delle prove mancanti o insufficienti. E dico questo perchè in un sistema processuale dove la parità tra accusa e difesa è da sempre una utopia o, se vogliamo, un obiettivo che non si riesce a raggiungere, nonostante il tanto sbandierato art. 111 della costituzione e tutte le riforme che lo hanno preceduto o accompagnato, sono orgoglioso, come cittadino innanzitutto, che un processo possa essere annullato per vizi di forma, chiamiamoli così per essere più semplici. Una prova annullata è una prova che non si è formata correttamente, che non ha garantito il diritto di difesa all'imputato, che non gli ha permesso di poter dire che quella prova non è quel che appare. Che cos'è la prova se non un giudizio filosofico? Ha diritto un soggetto sottoposto a processo penale di poter avere gli stessi mezzi e opportunità difensive di chi lo accusa? In Italia no. E non mi venite a parlare della legge sulle indagini difensive, perchè tutti sanno che esse sono state imbrigliate alla fonte sia dai costi che hanno, sia dai voluti e noti ostacoli attuativi di base.
Quanto alla tipicità della norma, ritengo che si va sempre più verso una legislazione penale cosiddetta "in bianco". E ciò vuoi per la mutevolezza della fattispecie criminosa, sempre più rapida della zoppa politica legisltiva criminale nazionale, sia per la lentezza dell'attività parlamentare, bloccata da veti e discussioni sterili e dannose. Con buona pace del principio di legalità.
Ed allora l'opera della magistratura che vede ampliarsi per forza di cose la sua funzione adeguatrice del diritto appare indispensabile, necessaria, delicatissima. Che Dio ci mandi buoni magistrati, perchè attualmente l'argine all'attività dei nostri parlamentari è sempre di più e solo la Costituzione Repubblica e sempre meno la voce della coscienza individuale di ognuno di essi.
Un'ultima considerazione voglio farla all'espressione in cui si dice che "l'informazione racconta la verità per formare nei cittadini una coscienza della propria storia e del proprio tempo". Non l'ho capita tanto. Dico solo che l'informazione di Montanelli e Biagi, unica scuola che riconosco come valida e irripetibile, ci ha insegnato che l'informazione non deve formare le coscienze, e quando lo fa non è informazione seria.

Anonimo ha detto...

Processo e informazione, tematiche a dir poco complesse, che si complicano ulteriormente quando interagiscono.
A prescindere da disquisizioni astratte dobbiamo prendere atto che entrambi nel nostro paese non funzionano.
Il processo penale a causa dei tempi lunghi che occorrono per la sua celebrazione non assicura la certezza della pena e del diritto. Condivido la lettera pubblicata su www,radiocarcere.com. Per renedere efficiente il sistema giudiziario
occorrebbe rendere esecutiva la sentenza di primo grado e rivedere il sistema delle impugnazioni.
La sentenza di primo grado esecutiva permeterebbe alla pena di giungere non decenni dopo la commissione del fatto. In questo modo più di un beneficio si avrebbe. La domanda di giustizia sarebbe soddisfatta. La pena raggiungererebbe i suoi fini. Potrebbe essere così sia rieducativa sia essere utile alla prevenzione dei reati, attraverso la forza intimidatrice. La pena dop il primo grado porterebbe all'eliminazione della custodia cautelare come strumento di anticipazione della pena. Il reo sarebbe punito a seguito di un giudizio pieno e non a seguito di un giudizio sommario quale quello cautelare. Le impugnazioni per come sono previste non garantiscono decisioni più giuste di quelle adottate dai primi giudici. A volte appaionio inutili: arresti in flagranza e rei confessi. Inutili e soolo dilatorie, proposte al solo fine di guadagnare prescrizione o altri benefici. I giudici di appello inoltre non sono infatti più qualificati di quelli del primo grado. Il giudizio d'appello inoltre pardossalmente si forma sulle carte e non sulla testimonianza orale, caratteristica del primo grado, la quale garantisce una decisione più giusta.
Carlo Lancellotti

Anonimo ha detto...

Per quanto riguarda l'informazione, Maurizio Dati, asserisce di non capire tanto. A me sembra che l'avvocato Siciliano abbia voluto dire che l'informazione specie nei processi per mafia è essenziale che sia veritiera e precisa nella ricostruzione dei fatti, in modo che la stessa acquisisca una funzionale sociale atta ad arginare e far capire in modo chiaro il complesso fenomeno mafioso. L'informazione non è di nessuno, appartiene soltanto alla verità! Più chi la fa riesce ad avvicinarsi ad essa, più rende un servizio alla crescita civile di un Paese.
barto iamonte

Anonimo ha detto...

"Emblematico in questo ragionamento è il caso di chi, condannato per un reato, si veda riconosciuta in Cassazione la sua non colpevolezza per effetto dell’inutilizzabilità di una prova, non perché non raggiunta, ma perché ricavata con lesione di regole processuali o sostanziali che la rendono di fatto inutilizzabile e quindi da non porre a base di una motivazione di colpevolezza".

E' proprio questo il punto. Poiché la riforma del codice di procedura penale ha introdotto questo assurdo principio, capiterà (ed è capitato) che per un "cavillo" qualsiasi degli assassini o dei mafiosi siano rimessi in libertà, con gioia dell'avvocato (non mi riferisco all'Autore che mi ha preceduto, ovviamente, ma a qualcuno con meno scrupoli...) che vedrà aumentata la propria parcella (con lo scellerato patto di quota lite) e nell'indifferenza del magistrato, che si sarà, giustamente, limitato ad "applicare la legge".

Prima non era così. Il principio chiamato in causa ha ragione storico-sociale di esistere soltanto nel "due process of law" degli ordinamenti anglo-americani (dove peraltro il grado di giudizio è spesso unico), ma nessuna ragione può trovare negli ordinamenti romano - germanici, dove conta soprattutto il libero convincimento del giudice.

Anche un profano del diritto comprende benissimo che se si è raggiunta, sia pur violando regole processuali, la piena evidenza probatoria che un delitto è stato commesso, la soluzione più equa e giusta sarebbe da un lato condannare eventualmente chi avesse contribuito alla illecita formazione delle prove, ma dall'altro lato acquisire comunque quelle prove agli atti del processo e anche in base alle stesse condannare l'imputato, qualora la sua responsabilità emergesse in modo palese.

Invece non si fa né l'una, né l'altra cosa. Con i risultati che vedete.

Ho sempre scelto di privilegiare la sostanza alla forma, e la sostanza sono i fatti acquisiti, comunque lo siano ! Se uno commettesse financo un reato per acquisire quelle prove, e per tale reato fosse punito anche severamente, non per questo le prove non potrebbero essere utilizzate. Per quale motivo ?

Dirà l'avvocato: perché forse la prova avrebbe potuto essere contrastata e smentita dall'imputato. Discorso meramente teorico. Lei stesso dice, testualmente, riferendosi alla prova: "NON PERCHE' NON RAGGIUNTA". E se è raggiunta, a mio modo di vedere se ne devono trarre le conseguenze ! Ricordi che parlo di vizi di forma, non di vizi di sostanza. E' ovvio, infine, che le prove acquisite dovranno a loro volta esser valutate dal giudice, il quale ultimo riterrà la loro valenza, nel formarsi del suo libero convincimento. Lasciate le presunzioni "iuris et de iure" al processo civile, per favore !

Si punisca pertanto, anche in modo esemplare, chi viola le regole del procedimento penale, ma si elimini per sempre, nella prossima, ennesima, riforma di questo fallito codice, l'assurda sanzione dell' "inutilizzabilità".

Pare proprio che il legislatore abbia visto troppi film di Perry Mason e studiato troppo poco la storia del diritto, lasciatemelo dire...

Cordiali saluti.

Anonimo ha detto...

pare proprio che il legislatore sia un allenatore di stampo trapattoniano prima maniera difesa e se possibile comunque salvarsi in calcio d'angolo