Versione stampabileDando seguito all’articolo del prof. Vittorio Grevi – “Tutti i pregi (e un difetto) del C.S.M.” – in occasione del cinquantenario dell’istituzione, abbiamo riportato a questo link un articolo di Felice Lima per Micromega sulla necessità di NON modificare l’assetto giuridico del C.S.M..
Sulla necessità di difendere l'indipendenza del C.S.M. e, d'altra parte, sui gravi “torti” del C.S.M. medesimo, riportiamo qui un’intervista a Felice Lima, tratta dal libro di Antonio Massari “Il caso De Magistris”.
Sugli stessi temi abbiamo riportato a questo link un capitolo del libro “Toghe rotte”, a cura di Bruno Tinti.
L’intervista a Felice tratta dal libro di Antonio Massari, che riportiamo qui, risale a parecchio tempo fa.
Dopo di essa, sono successe tante cose. Su questo blog abbiamo pubblicato moltissimi scritti (più di settanta) relativi alla vicenda De Magistris. Possono essere letti cliccando su questo link o sul banner “Dossier De Magistris” che c’è nella siderbar di destra del blog. Felice e Luigi, frattanto, sono diventati molto amici.
Il libro di Antonio Massari dal quale è tratta l'intervista che riportiamo è l'inchiesta più completa e documentata finora pubblicata sul caso De Magistris.
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Intervista a Felice Lima
Felice Lima si è laureato a Milano nel 1983 ed è entrato in magistratura nel 1986, a 25 anni.
Giudice istruttore penale (vecchio rito) nel Tribunale di Siracusa, ha fatto inchieste che hanno portato in carcere per molti anni i protagonisti di importante famiglie mafiose del catanese: i Ferrera e i Di Salvo.
Si trasferisce alla Procura della Repubblica di Catania nel 1990 e lì svolge numerose inchieste su famiglie mafiose e, soprattutto, sui legami fra mafia e politica.
Fa arrestare alcuni dei noti Cavalieri del Lavoro catanesi per fatti legati ad appalti nella sanità.
Nel dicembre del 1990 fa arrestare per associazione mafiosa un assessore della Giunta Comunale di Catania, il cui Sindaco – attuale senatore di Forza Italia – era all’epoca contemporaneamente membro del C.S.M. (l’assessore verrà poi condannato con sentenza definitiva a sei anni di reclusione).
Nel febbraio del 1992, la mafia fa evadere il boss Giuseppe Di Salvo (che Lima aveva fatto condannare all’ergastolo) per ucciderlo (è il secondo concreto progetto di attentato alla sua vita che per fortuna non ha successo: il primo era stato scoperto tempo prima dall’allora Alto Commissario per la lotta alla mafia Domenico Sica).
I Carabinieri incaricati della traduzione del Di Salvo verranno condannati per procurata evasione.
Il Di Salvo non porterà a termine la sua missione, sicché, per punirlo, la mafia incomincia a uccidergli i parenti.
Dopo l’uccisione del fratello, il Di Salvo decide di riconsegnarsi e, per timore di essere a sua volta ucciso, chiede come garante della sua costituzione Nino Caponnetto (l’ex Capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo allora già in pensione).
Tra il giugno e il dicembre 1992, conclude, con il R.O.S. dei Carabinieri e, in particolare, con l’allora col. Mario Mori e l’allora cap. Giuseppe De Donno, una importante indagine sui legami fra mafia, politica e imprenditoria in Sicilia, che coinvolge i vertici della politica regionale e dell’imprenditoria nazionale.
Nei fatti sui quali indaga risultano coinvolti importanti magistrati palermitani.
Scattano le ispezioni e i processi disciplinari.
Il Procuratore della Repubblica gli revoca l’assegnazione dell’inchiesta, la smembra e ne manda una parte proprio a Palermo.
Lima, nel marzo 1993, all’esito di un conflitto durissimo con il C.S.M., è costretto a lasciare la Procura della Repubblica e da allora fa il giudice civile.
Il tempo, come sempre in questi casi, ha finito con il “dargli ragione”, ma ciò non serve a nulla se non alla sua serenità.
Dottor Lima, lei conosce Luigi De Magistris? Ha parlato con lui delle sue vicende?
Conosco Luigi De Magistris solo superficialmente. È un collega che stimo e con il quale ho avuto occasionali scambi di opinione, su temi d’interesse comune, ma non ho mai parlato con lui di fatti specifici, che riguardino le vicende che ha affrontato in questo libro. Su internet, però, ho letto molti suoi interventi sul “caso De Magistris”.
Ci spieghi il suo interesse per questa vicenda.
La vicenda di Luigi è molto importante per la magistratura nel suo complesso e, più in generale, riguarda l’intero tema dell’amministrazione della giustizia in Italia. Sarebbe un errore – con tutto il rispetto per la vicenda personale di Luigi – limitarsi a intepretarla come una sua faccenda personale. Non sono stato certo l’unico a prestarvi attenzione. Diversi colleghi condividono la mia opinione. Abbiamo ritenuto, quindi, non solo di prestarvi attenzione, ma di fare pressione – intendo pressione culturale – all’interno della magistratura associata.
Pressione culturale: perché?
Perché la magistratura, nel suo insieme, prendesse una posizione corretta e chiara su questa vicenda.
Ci siete riusciti?
Purtroppo no. Quindi ci siamo ripromessi, almeno, di non fare calare l’attenzione su questa storia.
Il “caso De Magistris” – dice - le sembra importante per l’intera magistratura e addirittura per l’amministrazione della giustizia in Italia: ci spieghi le motivazioni.
Le ragioni sono molte e gravi.
Innanzitutto, si tratta dell’ennesimo caso in cui, degli indagati eccellenti, si difendono “dal” processo, piuttosto che “nel” processo. Che questo atteggiamento, poi, promani addirittura da un ministro di giustizia, rappresenta una peculiarità inedita e, a mio avviso, davvero molto preoccupante.
Chiarisca il punto: che vuol dire con difesa “dal” processo?
Partiamo da una premessa: il nostro sistema processuale penale è molto garantista (in alcune cose anche troppo) e assicura più che adeguati strumenti di difesa, a chi subisca una attività investigativa e, se del caso, a chi subisca un processo.
Detto ciò, le persone “comuni”, quando si trovano coinvolte in vicende giudiziarie, si difendono “nel” processo. Ovvero: utilizzano gli strumenti previsti dalla legge.
La classe dirigente di questo Paese, invece, non accetta di rapportarsi con la giustizia secondo le “regole comuni”, al pari di qualunque altro cittadino. Quando persone potenti, per qualunque ragione, si trovano coinvolte in vicende giudiziarie, non si accontentano di difendersi “nel” processo, ma pretendono di difendersi “dal” processo. E mi spiego meglio: non aspirano a un provvedimento di archiviazione, oppure a una sentenza di assoluzione. No. Pretendono proprio di non subire il procedimento. Non vogliono essere assolti. Si tratta di ben altro: non vogliono essere processati.
E questa – mi pare evidente – rappresenta una gravissima anomalia per un Paese che voglia essere democratico.
Siamo all’attacco della democrazia? Non le sembra di esagerare?
Non sto parlando di attacco alla democrazia: io parlo di una gravissima anomalia per la democrazia. E posso argomentarlo senza difficoltà: in un Paese che fosse davvero democratico ci si aspetterebbe che tutti gli “indagati” fossero uguali davanti alla legge, che tutti gli indagati utilizzassero gli stessi strumenti di difesa. Quelli – appunto - offerti dal sistema processuale. Se però i comuni cittadini devono difendersi “nel” processo, mentre i potenti possono difendersi “dal” processo, magari usando, attraverso la loro notorietà, i mezzi di informazione, beh, già mi sembra evidente che l’uguaglianza dinanzi alla Legge viene meno. E questo è un primo punto. Non può considerarsi democratico, infatti, un Paese la cui classe dirigente pretende di non essere soggetta ai normali controlli di legalità e, dunque, anche alle investigazioni delle legittime autorità inquirenti e, se del caso, persino ai processi penali.
D’altronde, non si può neanche dire che l’Italia possa fare a meno dei controlli di legalità per l’eccezionale correttezza della sua classe dirigente. Mi pare vero l’esatto contrario. È notorio l’elevato tasso di illegalità che caratterizza la vita pubblica del Paese.
Vogliamo riallacciare queste considerazioni al “caso De Magistris”?
Certo. Veniamo al punto. Luigi De Magistris era impegnato in indagini che riguardavano fatti di oggettiva gravità. Nelle quali erano coinvolti, a vario titolo, importanti personalità politiche (fra gli altri, anche il Ministro della Giustizia e il Presidente del Consiglio) e importanti personalità degli affari.
Anche loro si sono difesi “dal”, invece che “nel” processo?
Io voglio guardare solo ai fatti. E partire dalle regole. La fisiologia del sistema giudiziario, avrebbe voluto che Luigi svolgesse le indagini. Questo è il primo passo. Successivamente, all’esito delle indagini, avrebbe adottato i provvedimenti di sua competenza. Una richiesta di archiviazione, se dalle indagini non fossero emersi elementi di responsabilità, oppure, in caso contrario, una richiesta di rinvio a giudizio.
E quindi?
Andiamo con ordine. Le persone “oggetto” di una richiesta di archiviazione, mi pare chiaro, non avrebbero avuto nulla di cui dolersi. Le persone oggetto di una richiesta di rinvio a giudizio, invece, avrebbero avuto un giudice dinanzi al quale difendersi. Nulla, di più di un giudice, costoro avrebbero diritto di pretendere. Né, d’altra parte, persone oneste potrebbero avere nulla da temere dallo svolgimento di indagini. D’altronde, mi rifaccio a una dichiarazione del noto scrittore Antonio Tabucchi, che ha osservato: “Ma avete mai visto in Italia un Ministro condannato con prove false? Veramente neppure con prove vere! Dunque, perché temere una indagine?”
Ripeto: i potenti inquisiti da De Magistris, a partire dal ministro Mastella, secondo lei si sono difesi “dal” processo?
È sotto gli occhi di tutti che, a Luigi De Magistris, è stato impedito – di fatto - di svolgere le sue indagini. Il Ministro della Giustizia ha sottoposto l’ufficio del collega De Magistris a numerose ispezioni. A ripetute ispezioni. Durate, nel complesso, addirittura anni.
Il ministro esercitava le sue legittime prerogative.
Lei mi chiede le mie opinioni sul “caso De Magistris”. E io gliele do. Però il terreno è scivoloso e vorrei chiarire subito un punto: non intendo esprimere alcun giudizio sulla legalità o meno delle condotte delle persone coinvolte in questa vicenda. Questi giudizi sono riservati alle diverse autorità competenti. E proprio perché rispetto il sistema col quale si articolano, nel nostro Paese, i controlli di legalità, non intendo in alcun modo “interferire” con chi deve dare corpo e concretezza a quei controlli.
Non le chiedo di “interferire”, ma di chiarire, proprio perché il terreno – come dice lei – è piuttosto scivoloso.
Bene: ciò che sono disposto a discutere sono i profili culturali, politici e sociali di questa vicenda. E i profili politici - di questi tempi corre l’obbligo precisarlo - non hanno alcun riferimento a questo o quel partito, ma alla “politica della giustizia”, alla logica complessiva del sistema, allo schema istituzionale nel quale noi magistrati operiamo quotidianamente.
È stato molto chiaro: ora ritorniamo alle ispezioni del ministro Mastella.
Sotto questi profili, desta allarme che un Ministro della Giustizia si metta alla ricerca, per anni, di qualcosa che non va nell’attività professionale di un inquirente che, come sappiamo, indaga prima su persone a lui vicine e infine, com’egli certamente doveva prevedere, direttamente su di lui.
C’erano esposti, decine di interrogazioni parlamentari: cosa avrebbe dovuto fare un ministro di giustizia?
Se il Ministro avesse avuto formale notizia di specifici abusi, da parte del pubblico ministero in questione, avrebbe potuto far verificare la fondatezza, o meno, di quella notizia. Con una ispezione di brevissima durata. Un’ispezione “mirata”.
E invece?
E invece, ispezioni che si ripetono, e durano anni, danno l’idea d’una ricerca pretestuosa, la ricerca di non si sa cosa. E – dunque – la ricerca di qualunque cosa.
Non è un bel pensiero.
Beh, quello che è avvenuto, di certo, non fa pensare bene, con riferimento al principio d’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge. Nei confronti d’un magistrato, che sta indagando su fatti che coinvolgono personalità importanti, cos’è accaduto? Che le medesime personalità attivano ispezioni non usuali e, anzi, per certi versi mai viste, nei confronti di tutti gli altri magistrati inquirenti della Repubblica. Ma questo non è tutto.
Proseguiamo, allora.
Come se non bastasse, a un certo punto, lo stesso Ministro della Giustizia chiede al C.S.M. il trasferimento cautelare urgente del magistrato che sta indagando su di lui. Insomma, è una situazione di notevole disagio con riferimento al “disinteresse” che dovrebbe caratterizzare l’agire di qualunque pubblico ufficiale. E vorrei sottolinearlo: anche il Ministro è un “pubblico ufficiale”.
Sono queste, quindi, le “nuove peculiarità” del “caso de Magistris”?
Sono anche di più. Innanzitutto, è “nuovo” il potere di richiesta del trasferimento esercitato dal Ministro.
E per chi ritiene eccessivo l’allarme dei magistrati, sui pericoli per la loro indipendenza, contenuti nel nuovo ordinamento giudiziario riformato dagli ultimi due governi, i fatti di cui stiamo discutendo sembrano una prova oggettiva di difficile confutazione.
Quali sono gli altri profili inediti?
Il ruolo esercitato dai singoli magistrati e dalla magistratura nel suo insieme.
Partiamo dai singoli magistrati.
Luigi è stato lasciato solo dai colleghi del suo ufficio. Diversamente, oggi, non si parlerebbe della vicenda “De Magistris”, ma della vicenda del “pool anticrimine della Procura di Catanzaro”.
Ma non basta.
Il capo del suo ufficio gli ha tolto una delle inchieste più importanti. E un altro magistrato, il facente funzioni di Procuratore Generale, gli ha tolto l’altra, con un’ avocazione che, fondatamente, un autorevole collega ha definito “impensabile”. Peraltro, le stesse modalità dell’avocazione sono sorprendenti. Basti pensare, fra le altre cose, alla sottrazione manu militari degli atti dalla cassaforte di De Magistris. E alla sua preoccupante tempestività. Infine, a difendere la difficile posizione del Ministro, in una trasmissione televisiva - AnnoZero del 4 ottobre 2007 - è andato un magistrato, all’epoca Sottosegretario di Stato, che ha dato luogo a una difesa del Ministro davvero imbarazzante.
Si riferisce al dottor Scotti?
Si. Scotti ha chiamato in causa, in modo del tutto inopportuno, anche il collega Borsellino.
Perché inopportuno?
Perché ha detto che Paolo Borsellino mai avrebbe rilasciato interviste, volendo con ciò biasimare Luigi De Magistris, contrapponendogli l’esempio, a suo dire diverso, di Paolo Borsellino. Ma è stato contraddetto in questo espediente dal fratello di Paolo Borsellino, presente nello studio.
Cosa la sorprende?
Mi soprende – diciamo così – che tanti magistrati si siano impegnati, e con grande zelo, a sostegno delle iniziative del Ministro.
Veniamo ai rilievi sulla magistratura nel suo insieme.
Quanto alla magistratura nel suo insieme, possiamo partire dalla Sezione locale dell’Associazione Nazionale Magistrati, non solo non è intervenuta in difesa di Luigi, ma ha addirittura preso posizione contro di lui, biasimando il fatto che egli avesse reso dichiarazioni alla stampa.
Non era legittimo che l’Anm di Catanzaro prendesse posizione contro De Magistris?
M’impressiona moltissimo che, in vicende di tale gravità, l’unica cosa che la Sezione di Catanzaro dell’Associazione Nazionale Magistrati abbia notato sia il fatto che Luigi abbia reso delle dichiarazioni alla stampa.
I magistrati non dovrebbero “parlare” solo con i provvedimenti?
Detta così, senza le opportune precisazioni, è un’opinione che non posso condividere. Ammettendo che sia fondata, comunque, non è possibile prescindere dal contesto, dalle condizioni nelle quali operano i magistrati nel nostro Paese.
Quali condizioni?
In altri Paesi gli inquisiti criticano, ma al tempo stesso rispettano i magistrati che si occupano, per dovere professionale, delle loro vicende. E in questa situazione, il magistrato, non avrebbe alcun motivo di parlare in pubblico. Nel nostro Paese non è così. Se l’indagato ha qualche potere – e nella vicenda di De Magistris se ne ha l’ennesima riprova – non si fa scrupolo di provocare, insieme a tanti altri amici potenti, che non mancano di accorrere in suo sostegno, autentiche campagne di stampa. E queste campagne di stampa sono tese a denigrare – sotto il profilo professionale, e spesso anche semplicemente umano – il magistrato. Lo scopo è intuibile: delegittimarlo e frenare la sua opera.
Questo legittima un magistrato a esporsi pubblicamente?
Scusi, ma è un dato di fatto. Assistiamo sistematicamente a questa scena: indagati, amici di indagati, addirittura condannati con sentenze definitive, che sui giornali e in televisione insultano - l’espressione è inelegante, ma adeguata - violentemente i magistrati perché non gradiscono la loro opera. Ma il magistrato – fino a prova contraria - ha fatto solo il proprio dovere. Chi si preoccupa di difendere la sua dignità di persona e di magistrato?
Deve farlo personalmente?
Il magistrato si trova dinanzi a un difficile dilemma. O tace, si tiene gli insulti e le ingiurie, e accetta che il suo silenzio venga strumentalizzato. Non solo. In questo caso, tacendo, deve accettare anche che, il suo silenzio, sia interpretato a vantaggio di chi lo accusa: come sostanziale ammissione della fondatezza delle accuse che gli si muovono. Diciamolo: siamo un Paese davvero bizzarro, nel quale i condannati giudicano i loro giudici.
Quindi, secondo lei, deve parlare.
L’alternativa al silenzio, e ai rischi che comporta, è che il magistrato prenda la parola. Anche per dire, semplicemente: “Non merito le accuse che mi si muovono. Ho compiuto del tutto correttamente il mio dovere”. Detto ciò, c’è una terza via, che resta la migliore.
Che qualcuno parli per lui.
Esatto. Il magistrato potrebbe essere libero dal dilemma, se qualcun altro – per esempio il Consiglio Superiore della Magistratura o l’Associazione Nazionale Magistrati – intervenisse in sua difesa. O almeno, in difesa della sua funzione.
Torniamo alla sua critica alla magistratura nell’insieme. È questa, secondo lei, l’altra peculiarità del “caso De Magistris”.
Infatti. Nel caso di Luigi De Magistris nessuno è intervenuto. Anzi, come ho già detto, l’A.N.M. di Catanzaro, è intervenuta contro di lui.
Insomma, De Magistris è ampiamente giustificato, secondo lei, per aver parlato pubblicamente.
Eliminata la terza via, non gli restava che l’alternativa secca: o passare per uno squilibrato delinquente (così veniva dipinto dai suoi interessati “avversari”), oppure dire chiaramente: sono una persona corretta e faccio soltanto il mio dovere. In tutta onestà, non mi sembra che si possa negare, a Luigi, il diritto di difendere la propria onorabilità. Se colpevoli si devono trovare, per questa esposizione, sono coloro che, dovendo intervenire in sua difesa, non l’hanno fatto. In modo colpevole e deplorevole. E poi: mi lasci fare un’osservazione. Quanti magistrati sono intervenuti, e intervengono abitualmente, in tante trasmissioni televisive? Mi limito a citare - per tutti - una collega che è ospite fissa a Porta a Porta, dove esprime opinioni di ogni genere, su casi giudiziari delicati, e ancora “in corso”. Eppure nessuno ha mai avuto nulla da obiettare. E guarda caso, invece, c’è chi s’indigna per poche, correttissime parole, dette in difesa della propria onorabilità, da un collega da anni esposto a ogni tipo di pressione.
De magistris ha rilasciato interviste dove ha attaccato la magistratura stessa, però, o meglio: pezzi della sua stessa procura. Ha parlato di “manine”, di “poteri occulti”, non le sembra sia andato oltre la semplice difesa della propria dignità?
Se le stesse affermazioni, le stesse accuse, le ha riportate anche dinanzi a un’autorità giudiziaria, non vedo il problema. E mi pare che sia così. D’altronde, De Magistris era isolato, e su questo non c’è dubbio. Altri magistrati, in passato, sono rimasti in silenzio mentre venivano isolati sia dai criminali, sia dai colleghi. E non è finita bene. In questo Paese abbiamo un’esperienza: ripeto: altri magistrati, che hanno agito professionalmente come Luigi, diversamente da lui, hanno ritenuto di stare anche zitti. Ne cito soltanto alcuni: Giangiacomo Ciaccio Montalto, Rosario Livatino, Salvatore Saetta. Peccato che siano morti. Altrimenti avrebbero potuto darci la loro testimonianza. O forse, è proprio la loro morte, che dovrebbe essere, per molti di noi, quella testimonianza.
Lei sottolinea il silenzio dell’Associazione Nazionale Magistrati sulla vicenda De Magistris. Anzi, oltre il silenzio, mi pare adombri una sorta di ostilità, della magistratura associata, nei confronti di De Magistris. Su cosa fonda queste considerazioni?
Il silenzio della Anm, sulla vicenda di Luigi, non è una mia considerazione: è un fatto storico acquisito. La mia considerazione è che rappresenta un atteggiamento molto preoccupante. Testimonia la deriva intrapresa dall’A.N.M.
Quale deriva?
La vicenda di Luigi De Magistris, come anche quella della collega Clementina Forleo, che sotto questo profilo sono identiche, dimostra che nell’A.N.M. si fa confusione fra l’indipendenza dei magistrati e l’indipendenza della magistratura.
Spieghi meglio cosa intende per confusione tra indipendenza della magistratura e dei singoli magistrati.
Ciò che serve al Paese, e alla giustizia, è l’indipendenza “dei magistrati”: di ciascuno dei singoli magistrati che amministrano la giustizia. Il giudice Tizio, il giudice Caio, devono essere messi nelle condizioni di giudicare con serenità e imparzialità. Questo tipo di indipendenza dei magistrati è una guarentigia funzionale all’indipendenza del loro giudizio. Conseguentemente, all’indipendenza della giustizia.
La confusione dov’è?
Cosa del tutto diversa è l’indipendenza “della magistratura” come corpo professionale, inteso complessivamente. L’indipendenza complessiva “della magistratura”, il suo autogoverno, sono un valore soltanto se sono funzionali a garantire l’indipendenza dei singoli magistrati.
Altrimenti, si trasforma soltanto in un privilegio corporativo e nello strumento di un potere che non serve il Paese – dal quale, infatti, è sempre più lontano e meno apprezzato – ma sé stesso.
Siamo al concetto di tutela della corporazione, nella magistratura? È questo che intende?
Credo che sia accaduto. Credo che stia accadendo sotto gli occhi di tutti: a volte “la magistratura” difende i propri interessi corporativi anche in danno dell’indipendenza di singoli magistrati.
E questo cosa comporta?
Comporta che, in questo modo, viene meno, in sostanza, “l’indipendenza interna” della magistratura. Consideriamo - nelle vicende Forleo e De Magistris – alcune circostanze. La prima: l’A.N.M. e il C.S.M. non intervengono in difesa di due magistrati aggrediti, sulle testate giornalistiche e televisive, da titolari di uffici dotati di moltissimo potere, istituzionale e politico. La seconda: il Procuratore Generale promuove azioni disciplinari, che autorevoli giuristi trovano palesemente prive di fondamento. Sottolineo: prive di fondamento. In questi termini s’è espresso, giusto per fare un esempio, il professor Franco Cordero, indiscussa autorità scientifica e morale nel nostro ambiente. La terza: il Vicepresidente della Prima Commissione del C.S.M. (la professoressa Letizia Vacca) rilascia alla stampa, parlando al plurale, quindi a nome di tutti i componenti della Commissione, dichiarazioni sorprendenti e certamente inaccettabili. La professoressa Vacca rilascia queste dichiarazioni il giorno prima di un’importante seduta, quella in cui si discuteranno i casi Forleo e De Magistris, ed esprime giudizi violenti, di disvalore, nei loro confronti. Ma riflettiamo su concetti a dir poco elementari: Forleo e De Magistris soggetti al suo giudizio! E la professoressa Vacca anticipa l’esito delle pratiche che li riguardano? Parla espressamente di un intento: quello di “colpirli”. Un intento che dichiara non soltanto come proprio, ma anche della Commissione del Csm, della quale, la professoressa Vacca, è Vicepresidente.
Questa vicenda riguarda la Forleo e De Magistris: che c’entra tutto questo con l’indipendenza di tutti i singoli magistrati italiani?
Il nesso mi pare evidente: fatti del genere finiscono – anche al di là delle intenzioni dei protagonisti – con l’avere un fortissimo effetto intimidatorio.
Intimidatorio verso chi?
Verso tutti i magistrati che, prima o poi, potrebbero trovarsi a dover fare quelle valutazioni, quelle scelte che si contestano a Luigi de Magistris e Clementina Forleo. Mi spiego con un ulteriore esempio: pensi che, a Clementina Forleo, si muove un addebito disciplinare sul contenuto di una sua ordinanza. Ribadisco: sul contenuto. Quale può essere la conseguenza? Che singolo magistrato dovrà avere paura, nello scrivere i suoi provvedimenti, secondo scienza e coscienza, perché il loro contenuto potrà essere sindacato in sede disciplinare. E non con riferimento a eventuali abusi o a errori macroscopici. No. Proprio con riferimento al merito.
Torniamo all’Anm e al “caso de Magistris”: i responsabili dell’A.N.M. hanno detto di non essere intervenuti per “non interferire” con i compiti del C.S.M. Lei non è d’accordo con questa posizione?
Si tratta – con evidenza – di un argomento pretestuoso.
Pretestuoso: perche?
Perché nessuno ha mai chiesto all’A.N.M. di “interferire” con il C.S.M. Non si trattava di pronunciarsi sul merito delle questioni pendenti dinanzi al C.S.M. Si trattava di ben altro: sottrarre due colleghi a un autentico linciaggio morale. Se a Clementina e Luigi vengono contestati degli addebiti disciplinari, come è accaduto, v’è un’autorità che deve giudicare su quelle accuse. E – nel caso di Luigi - lo ha fatto. Nessuno chiede salvacondotti per i colleghi, né impunità. L’A.N.M. non dovrebbe intervenire su questo, ma su tutto il resto.
Quale resto, per essere chiari.
Sull’isolamento dei colleghi. Sugli autentici insulti rivolti loro da esponenti del mondo politico. Sul modo non protocollare di comportarsi del Vicepresidente della Prima Commissione del C.S.M. E su mille altre cose. D’altra parte, l’A.N.M. in passato è intervenuta, e parecchie volte, in difesa di colleghi che subivano aggressioni molto meno gravi di quelle riservate a Clementina e Luigi.
E, secondo lei, perché oggi non interviene?
La differenza fra i casi nei quali l’A.N.M. in passato è intervenuta più volte, e quelli dei colleghi Forleo e De Magistris, consiste in questo: l’azione dei colleghi, a suo tempo difesi dall’A.N.M., trovava consenso in fette rilevanti del mondo politico Clementina e Luigi, invece, sono “scomodi” per tutti.
È un’affermazione grave: se non c’è consenso politico, l’Anm non interviene? Dove finisce, anche in questo caso, l’autonomia della magistratura? È così soggetta al condizionamento della politica, secondo lei?
Per questo i loro casi, a mio parere, sono emblematici. Dimostrano un fatto: i magistrati che non fanno comodo a qualcuno, sono davvero soli e in pericolo. E questa, per una categoria (la magistratura), e per la sua associazione (l’Anm), dovrebbe essere considerata la sconfitta più grave e definitiva.
Lei (sul blog Uguale per Tutti) ha scritto un commento molto duro sulle “interferenze” dell’A.N.M. e sull’attività del C.S.M.
Partiamo da presupposto, poi rispondo con precisione alla sua domanda. La premessa è questa: la magistratura, purtroppo, oggi è molto corporativa e autoreferenziale. Questo non è mai stato un bene. Ma oggi è un male gravissimo: le difficoltà in cui versa l’amministrazione della giustizia impone un nuovo approccio dei magistrati, sia ai loro problemi, sia al servizio che devono rendere. Voglio dire: la società è cambiata moltissimo negli ultimi anni. La magistratura, purtroppo, no. Le attuali dinamiche sociali, non possono più permettersi un’inefficienza, del “servizio giustizia”, così grave.
Qual è il nesso con le interferenze dell’Anm e del Csm?
Andiamo con ordine. È un dovere morale e civile, per i magistrati (ciascuno e tutti insieme), assicurare efficienza al proprio servizio. Un servizio che hanno il dovere di rendere. È l’unico modo per poter rivendicare legittimamente l’autogoverno che, nella logica della Costituzione, è una guarentigia. Sottolineo: guarentigia, e non privilegio.
Quando parla di autogoverno, si riferisce ad Anm e Csm.
Un passo per volta. La magistratura si auto-governa per tutelare la propria indipendenza. Questo è il primo punto. Bene: ma se l’autogoverno, oltre a non garantire l’indipendenza “interna” dei magistrati, non assicura (per quanto dipende dai magistrati) l’efficienza del “servizio giustizia”? Se diventa un’alibi per coprirne la sempre più grave inefficienza? È inevitabile, in queste condizioni, che la sua difesa divenga sempre più difficile.
Un punto è chiaro: lei non sta difendendo l’Anm. Piuttosto, la sta attaccando. Ma l’A.N.M. – in linea generale - ha sempre detto che l’inefficienza della giustizia non è responsabilità della magistratura. Non è così?
Non mi interessa difendere o attaccare l’Anm. Mi interessa, se lo ritiene oppurtuno, analizzare un fatto: l’inefficienza della giustizia in Italia. L’Anm non può tirarsi fuori: non può dire che non c’è responsabilità della magistratura. È solo una mezza verità. Quella più comoda. La giustizia in Italia non funziona. Voglio essere chiaro: io non dico che “funziona male”. Io dico che “non funziona per niente”. E se non funziona, non è certo per motivi accidentali. Non è per qualche inconveniente del momento. Se non funziona, è per una precisa scelta politica.
Quale sarebbe la scelta politica? E da parte di chi?
Sotto questo aspetto, l’analisi, è piuttosto elementare: una società nella quale i poteri forti – economico e politico – sono massicciamente fondati sull’illegalità, “non si può permettere” una magistratura efficiente.
Questo in linea teorica, ma quali sono le basi, di fatto, della sua analisi?
Non posso certo elencare esempi specifici. Però basta vedere come, tutte le volte che un potente viene scoperto con le mani nel sacco (o, di recente, con la cornetta del telefono all’orecchio), invece di scandalizzarsi del coinvolgimento del potente, in crimini di notevole gravità, o in fatti comunque riprovevoli, tutti trovino scandalosa la violazione della sua privacy. E si affrettino ad approvare leggi che non consentano più di scoprire quei fatti.
Si riferisce al disegno di legge Mastella sulle intercettazioni?
Lasciamo perdere i casi specifici. Voglio sottolineare che, la maggioranza delle responsabilità, per l’inefficienza dell’amministrazione della giustizia, sono frutto di precise scelte politiche. Esaminiamo la legislazione degli ultimi quindici anni, in materia di giustizia. Vi sembra che il Parlamento italiano sia stato impegnato nel risolvere i problemi della giustizia? s’è impegnato affinché la giustizia funzionasse meglio? A me pare di no. Mi sembra, al contrario, che sia stato massicciamente impegnato nell’assicurare l’impunità ad amici, e amici degli amici. Per fare quelle leggi ad personam, spesso, ha lavorato anche di notte. E a tappe forzate.
È un atto d’accusa.
È una constatazione. E vi hanno partecipato tutti gli schieramenti politici. Basti pensare all’indulto, votato trasversalmente. La legislazione in materia, negli ultimi quindici anni, più che “sulla giustizia”, o “per la giustizia”, può essere considerata una legislazione “contro la giustizia”. A tutto questo, aggiungiamo una cultura – quella italiana – non particolarmente amante delle regole e della legge. Mentre pezzi di società civile, in alcune occasioni particolarmente clamorose, reclamano “giustizia”, nel quotidiano si rileva una diffusa prassi, favorevole a furberie e scorciatoie, che vanno dall’evasione fiscale all’abuso edilizio, dai concorsi universitari – abitualmente falsi – ai certificati medici di comodo, dalla truffa all’assicurazione alle frodi comunitarie. Questo stato di cose ha costituito per la magistratura nel suo insieme (perché non bisogna confondere la “magistratura nel suo insieme” con alcuni suoi eroici esponenti: i magistrati non sono tutti come Giovanni Falcone, Rosario Livatino, Giangiacomo Ciaccio Montalto, Paolo Borsellino, ecc.) una vera iattura, ma anche un comodo alibi.
Può spiegarci meglio cosa intende per alibi?
Il fatto che le colpe principali siano, con evidenza, di altri, ha consentito di coprire le colpe “interne”. E si tratta di colpe rilevanti. Per altro verso, le responsabilità “esterne”, hanno permesso un’amara convinzione: se tutto va male, che incidenza può avere il fatto che, questo o quel giudice, ci metta pure del suo, nel non far funzionare il sistema? Tanto, non funzionerebbe lo stesso? Quest’alibi, da sempre deplorevole, oggi è divenuto inaccettabile, sotto ogni profilo: oggi, l’inefficienza dell’amministrazione della giustizia, ha raggiunto un livello talmente alto, da snaturare l’istituzione e ferire gravemente i valori costituzionali, decisivi per la vita e la democrazia del Paese.
Stiamo perdendo di vista la domanda iniziale: qual è il nesso con le interfenze del Csm e dell’Anm, e cosa intende precisamente con interferenze.
Ci stiamo arrivando, come le ho detto, un passo alla volta. Dobbiamo prima affrontare questo argomento: il cambio di prospettiva interno alla magistratura. In questo contesto, i magistrati – per dovere etico prima di tutto, ma ormai addirittura anche per calcolo egoistico (il degrado dell’istituzione si ripercuote inevitabilmente sulle condizioni di lavoro e di stima sociale dei suoi addetti) – non possono più limitarsi a lamentarsi dei torti altrui. Non possiamo più aspettare riforme migliorative che, con tutta evidenza, non verranno dall’esterno. Dobbiamo avere la forza, e il coraggio, di riconoscere le nostre responsabilità. Dobbiamo fare la nostra parte per rimuovere le ragioni d’inefficienza che hanno fondamento interno alla categoria. Ora posso iniziare a rispondere alla sua domanda: per “noi magistrati” non intendo questo o quel magistrato, che già si spende eroicamente (e sono veramente tanti). Intendo l’insieme, la “magistratura in genere”, perché, i pur tanti “eroi”, sono percentualmente una assoluta minoranza.
Lei parla di un’assunzione di responsabilità, di un cambio di prospettiva.
Esatto. Se si accetta questo cambio di prospettiva (che a me pare assolutamente ineludibile), diventa necessaria – benché difficile e dolorosa – una riflessione sull’Associazione Nazionale Magistrati. È l’Anm, infatti, che rappresenta – nel bene e nel male – la magistratura italiana.
Qual è la riflessione amara, difficile e dolorosa?
L’A.N.M. è un’associazione privata di magistrati. Ha una fortuna: può vantare un elevatissimo numero di iscritti: 8.284 su 8.886 magistrati italiani in servizio. Purtroppo, però, l’A.N.M. oggi adempie ben poco i suoi compiti statutari.
Perché?
Perché è principalmente impegnata, con tutte le sue energie, ogni istante del giorno, e ogni giorno dell’anno, a fare un’altra cosa che le dovrebbe essere vietata. E che tradisce - di fatto - tutti i principi sui quali essa si fonda e ai quali dice di ispirarsi.
Cosa intende, nello specifico?
L’A.N.M. è solo una sovrastruttura: non vive di vita propria. Si potrebbe dire – con una provocazione che a ben vedere tale non è (essendo un’affermazione molto molto vicina alla verità) – che l’A.N.M. non esiste. È solo un involucro. Un’apparenza. Un luogo di legittimazione solo formale.
Cosa contiene questo involucro?
Gli enti che – essi sì – esistono. E vivono al suo interno. Contiene i gruppi organizzati: le “correnti”. La vita dell’A.N.M. è la somma – giustapposta e più spesso malapposta – della vita delle singole correnti che operano al suo interno. E queste correnti ne hanno parassitizzato ogni molecola.
Se è vero ciò che dice, perché accade?
Le “correnti”, nel tempo, hanno finito per avere, come obiettivo sostanzialmente unico, la raccolta di consensi elettorali fra i magistrati. Le “correnti” lo negano costantemente. Ma i fatti, ogni giorno, sono lì a provarlo. I “consensi elettorali” sono necessari a fare eleggere al C.S.M. i colleghi designati da loro, e desingnati fra gli iscritti alle “correnti”.
È da qui che parte “l’interferenza”, per usare i suoi termini?
L’interferenza prende corpo con un alibi ben preciso. L’alibi per questa operazione, dalle conseguenze devastanti, per l’esercizio concreto della giurisdizione, è quello di portare al C.S.M. i magistrati che promuovano, nell’organo di autogoverno, i “valori ideali” ai quali ciascuna corrente dice di ispirarsi.
Non è così? Perché parla di alibi?
In passato è stato - anche - così. Ma è davvero difficile credere che sia così ancora oggi.
Le correnti hanno avuto grossi meriti storici nel difendere le prerogative della Costituzione.
E’ indiscutibile. Ma invocare continuamente i meriti storici, non può essere un alibi sufficiente a nascondere le colpe odierne. Le porto un esempio: anche la D.C. e il P.C.I. (e il P.S.I. e gli altri partiti) hanno avuto, nel nostro Paese, meriti storici grandi e indiscutibili. Ma è evidente che quei meriti sono, appunto, “storici”.
Qual è il parallelo con le correnti dell’Anm?
Oggi tutti – magistrati e non, uomini politici e comuni cittadini – sanno benissimo ciò che le correnti chiedono a coloro che fanno eleggere al C.S.M.
Cosa chiedono?
Al di là di ogni impegno culturale (quando c’è), chiedono di esprimere, nell’amministrazione quotidiana e concreta della magistratura, i voti funzionali agli interessi di carriera. Voti funzionali alla vita professionale dei loro iscritti.
Non le sembra un giudizio ingeneroso?
No. Se sottolineiamo che nell’A.N.M., e nelle sue correnti, militano numerosissime persone di eccezionale valore morale, umano e professionale. Ma la loro presenza non deve essere un ulteriore alibi per impedire l’analisi e la critica.
Andiamo avanti con critica e analisi.
Bisogna chiedersi se la vita delle correnti non sia ispirata prevalentemente (se non, a volte, esclusivamente) alla ricerca e alla gestione del consenso elettorale tra magistrati. Di più: bisogna chiedersi che tipo di legame si genera tra le correnti e coloro che sono poi candidati al Csm.
Che tipo di legame può generarsi?
Un legame perverso, se gli eletti al Csm, poi, ricambiano il favore ricevuto.
Ricambiano in che modo, scusi?
Obbedendo – nell’esercizio delle loro funzioni – alle indicazioni della corrente di appartenenza. E il vocabolo appartenenza, qui, assume una valenza esplicitamente e decisamente deplorevole.
Può essere più concreto?
Basta dare un’occhiata ai documenti. Ovvero ai voti espressi dai consiglieri del Csm. Nella stragrande maggioranza dei casi, i consiglieri “appartenenti” a ciascuna corrente, votano nello stesso modo. E per giunta – non si può non sospettare – proprio nel modo auspicato dalla corrente di appartenenza. E quindi: nel modo funzionale agli interessi di uno o più iscritti alla corrente medesima.
Qual è il problema?
Stiamo parlando del Consiglio Superiore della Magistratura: l’organo di autogoverno. Dovrebbero realizzarsi normali, e anche lodevoli, divergenze di vedute. Anche fra i consiglieri “appartenenti” (verrebbe da dire “di proprietà”) della stessa corrente.
Dice che manca il dissenso, la critica interna, l’indipendenza di giudizio dei singoli consiglieri che governano la magistratura?
Dico questo: è normale e accettabile, che i consiglieri del C.S.M., votino omogeneamente per corrente di appartenenza, le poche volte che sono in discussione temi di politica generale della giurisdizione. È un voto di “politica sulla giustizia”. ovvio che, su scelte “politiche”, ogni corrente porti una posizione coerente e omogenea: ovvio, quindi, che all’interno del Csm, i singoli consiglieri che appartengono alla corrente, votino secondo le convinzioni politiche della corrente stessa.
Cosa non è ovvio, invece?
È abnorme, è viziato, invece, che vengano espressi in maniera correntizia i voti nella Sezione Disciplinare, che condanna o assolve un magistrato: in questo caso, l’appartenenza alla corrente, che c’entra? Ognuno dovrebbe decidere in piena autonomia. Ed esercitando la propria autonomia, dovremmo trovare, almeno di tanto in tanto, consiglieri della stessa corrente che hanno opinioni diverse. E invece così non è. E’ altrettanto abnorme e viziato, che la logica correntizia influisca nella nomina di un Presidente di Tribunale, o nelle mille, quotidiane e minute questioni di amministrazione della magistratura.
Lei sta dicendo, in altre parole, che l’Anm e, di conseguenza, il Csm, non rispondono più a regole democratiche.
Ripeto: se il sistema non fosse gravemente malato, dovrebbe avvenire abitualmente che due consiglieri della stessa corrente abbiano idee diverse, sulla responsabilità di quel magistrato in quella vicenda disciplinare, o sul fatto che, alla condotta accertata, debba attribuirsi o no rilievo disciplinare; oppure che valutino diversamente i titoli di idoneità di Tizio o di Caio ad assumere l’incarico di Presidente di questo o quel Tribunale. Dovrebbe addirittura accadere che magistrati “appartenenti” a una corrente votino senza difficoltà – e senza contropartite spartitorie – un magistrato iscritto ad altra corrente, se risulta idoneo a questo o quell’incarico direttivo.
Questo non avviene?
Certo che avviene tante volte. Ma troppe altre volte no. Com’è documentato. I membri del Consiglio Superiore della Magistratura dovrebbero agire e votare liberi da qualsiasi vincolo di mandato. Invece fanno tendenzialmente l’esatto contrario.
Se questo è il problema, come risolverlo?
Dobbiamo innanzitutto chiederci, senza infingimenti, se non si debba prendere atto che, così stando le cose, l’A.N.M. di fatto non “controlli” il C.S.M. Se non lo faccia in maniera costante e del tutto invasiva.
A lei sembra che sia così?
Sono preoccupato che possa esserlo. Se questa analisi fosse fondata, allora si dovrebbe prendere atto che l’Anm (o meglio, le sue correnti) gestisce in maniera immediata e diretta un potere. Un potere che non le spetta. Un potere che non dovrebbe avere. E in questo modo dà luogo, prescindendo dalle concrete intenzioni dei singoli, a un legame perverso con gli elettori/clientes. Un legame fondato sul fatto che le correnti chiedono ai magistrati voti, e offrono in cambio attenzione ai loro problemi e alle loro esigenze da parte dei consiglieri al Csm. Mentre questi ultimi, più che preoccuparsi delle esigenze dei singoli magistrati, dovrebbero avere di mira solo l'interesse generale della giustizia.
Lei intende dire che De Magistris e Forleo non sono stati difesi all'interno delle correnti, quindi, di conseguenza, non sono difesi dal Csm. Ho compreso bene?
Non è questa la questione. Ma, come vede, i loro due casi aprono scenari ben più ampi. E credo che, se mancassimo l’appuntamento per discutere il problema alla radice, noi magistrati, intendo la base dei magistrati, da un lato avremmo danneggiato ulteriormente De Magistris e Forleo, dall’altro, avremmo perso un’occasione storica per ripristinare l’autonomia, l’indipendenza, la democrazia all’interno della magistratura.
Ma come interagisce l’A.N.M. con il C.S.M.?
I magistrati debbono rivogersi al C.S.M. in molte occasioni importanti della loro vita professionale. Per avere un trasferimento. Per ottenere una promozione. Per l’assegnazione di un posto direttivo. Per essere autorizzati a svolgere un incarico stragiudiziale. Per ottenere una sentenza favorevole dalla Sezione Disciplinare. Per ottenere un congedo straordinario. Vuole che continui?
No. Vorrei che spiegasse il nesso elettori/clientes nel Csm.
Mi sembra piuttosto semplice: chi si iscrive a una corrente, che si fa amici i responsabili di una corrente, sa di poter contare sul potere di condizionamento che, quella corrente, ha sul C.S.M., per ottenere ciò che, di volta in volta, gli sia utile. Tutte le correnti assicurano, a coloro che si impegnano al loro interno, un’ottima carriera. Che può consistere in incarichi prestigiosi ai vertici degli uffici giudiziari. Nella designazione come candidati al C.S.M.. In incarichi ministeriali e via dicendo.
Quali conseguenze ha questo?
Il rischio è, alla fine, che si crei un sistema sostanzialmente spartitorio, che tiene conto in maniera proporzionale del peso di ciascuna corrente.
È semplicemente una questione di proporzioni. Non mi pare si possa parlare di lottizzazione.
Il punto non è la proporzione. Il punto è il grado e l’invasività della lottizzazione spartitoria. Le posso fare lo schema della situazione?
Certo.
Sono tendenzialmente divisi per corrente moltissimi posti direttivi di rilievo. Idem per posti come quelli del Comitato Scientifico del C.S.M. Mi chiedo: anche la scienza è stata spartita? Sono divisi per correnti i posti dei magistrati segretari del C.S.M. E altri ancora. A volte (e non poche volte) ci si dividono correntiziamente anche modesti incarichi. Un esempio? Il tenere una relazione scientifica (che a volte, proprio perché spartita per correnti, non è tanto scientifica). Oppure un corso di formazione organizzato dal C.S.M. Ma succede anche altro.
Cosa?
Se la situazione dei posti a concorso, non consente una divisione rigidamente rispettosa delle pretese delle correnti, si lasciano i posti scoperti.
Scoperti?
Esatto. Scoperti finché non si raggiunge un numero tale da consentire la divisione pretesa.
Per scoperti intende vacanti?
Vacanti. In attesa di poterli coprire in maniera “proporzionalmente suddivisa” per correnti. Stando a quanto scritto dal consigliere del Csm Mario Fresa, questo sarebbe accaduto recentemente addirittura anche per la copertura di posti al Massimario della Corte di Cassazione. Il 18 novembre 2006 è rimasto scoperto il posto di Procuratore della Repubblica di Catania. La vacanza era prevista da mesi e mesi, perché s’è verificata per il raggiungimento (ovviamente noto da prima) del limite di età da parte del precedente Procuratore. A distanza di un anno quel posto non era stato ancora coperto. È un danno gravissimo, per la lotta alla criminalità, in una città e in una regione che, di una Procura efficiente, hanno un bisogno enorme.
Dottor Lima, lei ha descritto una situazione molto grave.
Non la descrivo io: la descrivono il Tar e il Consiglio di Stato. Che ormai intervengono costantemente. La situazione nella gestione del Csm da parte dei consiglieri divisi per correnti è tale che, sempre più spesso, i provvedimenti del Csm in materia di nomina di capi degli uffici giudiziari vengono annullati dal Tar e dal Consiglio di Stato. Il Tar e il Consiglio di Stato sono giudici amministrativi. Intervengono sulla violazione della legge, non sul legittimo esercizio della discrezionalità da parte del Csm: dobbiamo dedurne che, sempre più spesso, i consiglieri del Csm adottano provvedimenti palesemente illegittimi. Esistono anche sentenze a riguardo. Un caso emblematico è quello occorso, alcu¬ni anni fa, per la copertura del posto di presidente del Tribunale di Catania: deciso dal Consiglio di Stato con una sentenza dai contenuti durissimi sui metodi di lottizzazione correntizia in questione presso il Csm. E il Csm – addirittura – ricorse a un avvocato del libero foro (l’Avvocatura dello Stato rifiutava di difendere il Csm) per promuovere un (inverosimile) conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte Costituzionale. Al fine di sottrarsi alla giurisdizione del giudice amministrativo. La Corte Costituzionale respinse ovviamente il ricorso. E il Tribunale di Catania restò senza presidente per circa cinque anni.
Cinque anni?
Cinque anni.
E ne parlano chiaramente anche autorevoli componenti del Csm.
Il presidente della Commissione Trasferimenti del Csm, consigliere Mario Fresa, che ha scritto, fra l’altro (scusi se gliela leggo testualmente) – in una relazione su un anno di mandato che può leggersi anche su internet, nel sito del Movimento per la Giustizia, dal quale l’ho tratta – ha scritto: «Lo stato delle numerose pendenze e, in particolare, i ritardi con i quali sono stati espletati nella passata consiliatura i concorsi per i trasferimenti ordinari, vanno ricollegati invero al tema della irragionevole durata delle pratiche consiliari, che si riverbera inevitabilmente in una serie di disfunzioni negli uffici giudiziari e, in ultima analisi, nella irragionevole durata dei processi (vacanze prolungate negli organici degli uffici giudiziari determinano inevitabilmente un allungamento dei tempi processuali).
Il monito proveniente dal capo dello Stato, seguito con convinzione dall’ex vicepresidente del Csm Rognoni e poi dal neo eletto vicepresidente Mancino, secondo cui ancora oggi esiste un forte potere delle correnti dell’Anm che condiziona e rallenta le scelte consiliari per piegarle agli interessi localistici e dei gruppi organizzati, va pertanto condiviso in quanto espressione di un disagio dell’opinione pubblica e dello stesso corpus della magistratura, che vedono nei tempi lunghissimi di espleta-mento delle pratiche motivi di inefficienze e disfunzioni degli uffici giudiziari, nonché preoccupazioni correlate ai sospetti, spesso fondati, di “patologie correntizie”.
Non è un caso che le ferme critiche del capo dello Stato siano state svolte in riferimento soprattutto alla gestione del personale. Una procedura concorsuale non può durare a lungo, specie se ciò è dovuto alla ricerca di un punto di equilibrio tra le correnti e le componenti laiche, una sorta di pacchetto-compromesso che accontenti tutti».
Lo stesso presidente Fresa, parlando della gravissima vicenda relativa alla copertura dei posti al Massimario della Corte di Cassazione alla quale ho fatto riferimento sopra, aggiunge: «Invero, quando ho iniziato a leggere gli atti del procedimento, ho verificato che i fascicoli di più della metà degli aspiranti non erano ancora stati esaminati, non essendo stati redatti i cosiddetti “medaglioni” di tali aspiranti (i profili professionali non erano ancora stati tracciati dai magistrati segretari).
Poiché le voci che giungevano negli uffici giudiziari riguardavano scontri su possibili nomi, è parso evidente che le divisioni riguardavano schieramenti precostituiti, a prescindere dall’esame dei profili professio¬nali in forza dei quali quelle scelte dovevano essere effettuate. Il metodo operativo che veniva seguito (che non rappresentava una novità, attesa la mia pregressa conoscenza degli interna corporis) era quello della spartizione correntizia, a prescindere dalla effettiva comparazione dei percorsi professionali secondo il dettato della Circolare».
Si tratta di una denuncia molto grave, in considerazione sia del suo contenuto che dell’autorevolezza istituzionale e della credibilità personale dell’autore.
Tutte queste notizie, però, stentano a diventare di dominio pubblico.
Anche per questo con alcuni colleghi abbiamo creato un blog (Uguale per Tutti) che si chiama Uguale per Tutti. Il riferimento è al principio costituzionale che dovrebbe essere il cardine della nostra vita sociale e, purtroppo, non lo è. Il blog è nato dall’esigenza di provare a indurre la magistratura a mettersi in discussione.
Non lo fa abbastanza?
Attualmente, i magistrati si parlano soltanto fra loro, all’interno di mailing list riservate, alle quali si accede tramite iscrizione e dalle quali non è possibile portare fuori ciò che viene scritto. Per di più, queste mailing list sono promosse dalle correnti dell’Anm e i discorsi che vi si fanno risultano molto condizionati da questo. L’idea di un blog è quella di parlarci in pubblico, di dire apertamente quello che pensiamo e di consentire a tutti di dircelo. Il blog può essere letto da chiunque e vi può scrivere chiunque (nella parte riservata ai commenti dei lettori).
È una sfida alle correnti?
In un certo senso, sì. La sfida alle correnti è quella di accettare il confronto con la gente, con i colleghi, indipendentemente dalle appartenenze correntizie. Vede: la magistratura associata reclama spesso la solidarietà dei cittadini, ma in realtà, a ben vedere, non accetta un reale confronto, alla pari, con essi. Non accetta di mettersi in discussione. E invece di questo c’è un gran bisogno dentro la magistratura.
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