di Stefano Racheli
(Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Roma)
Faccio appello alla pazienza dei lettori del blog: non solo infatti tornerò sul c.d. “caso Salerno/Catanzaro”, ma le mie osservazioni dovranno necessariamente essere lunghe.
La vicenda in questione – la cosa è sotto gli occhi di tutti – ha ormai assunto l’aspetto di una melassa che tutto lega e tutto nasconde: nessuno sa più individuare la fine e il principio della storia e, come nella più classica lite tra coniugi, alla fine, non si sa neppure perché il bisticcio sia mai cominciato.
Insomma, al di là delle intenzioni di questo o quello, la questione – come temevamo – è stata oggettivamente buttata in caciara, sì che quasi tutti, stringendosi nelle spalle, finiscono per tornarsene ai loro affari rinunziando a capire cosa sia accaduto o stia accadendo.
Tutti, tranne Apicella, Nuzzi e Verasani che non possono tornare ai loro affari.
Non solo non possono tornare ai loro affari, ma non c’è giorno che non vengano rosolati da questo o quell’intervento di autorevoli esponenti della magistratura associata.
E non si può pensare che si tratti di stupidità o di malvagità.
Che fare? Trattare il merito del processo non si può. Polemizzare neppure. D’altra parte tacere sarebbe vile (come si fa a non difendere chi non può rispondere?).
Proverò dunque a battere una via di mezzo la quale non soltanto suoni come difesa dei colleghi, ma soprattutto tenti di darsi conto del perché tutto ciò accada.
Per fare ciò partirò dall’intervista rilasciata il 27 gennaio scorso da Giuseppe Cascini che, oltre a esser un valente magistrato, è segretario generale dell’A.N.M. (l'intervista può essere letta integralmente a questo link).
Afferma Cascini: «Per quanto riguarda Salerno e Catanzaro non abbiamo chiesto sanzioni disciplinari né abbiamo espresso valutazioni sulle decisioni degli organi preposti a esaminare disciplinarmente queste condotte».
Non controbatto (potrebbe sembrare polemico), ma “contrappongo”. Cosa? Né più né meno quanto riportato dalla stampa nazionale.
«Non abbiamo chiesto» afferma Cascini. Scrive (prima della “condanna”) La Repubblica del 10.1.2009: «E’ stato un cortocircuito giudiziario che richiede rapide risposte» (dichiarazioni Palamara). «Abbiamo preso atto con soddisfazione della tempestiva iniziativa del C.S.M. prima e oggi del Ministro» (dichiarazioni Cascini).
«Non abbiamo espresso valutazioni sulle decisioni» afferma sempre Cascini. Riferisce (dopo la “condanna”) La Repubblica del 20.1.2009: «E’ una risposta sollecita a una pagina nera della giustizia. Il sistema ha dimostrato di avere gli anticorpi» (dichiarazioni Palamara).
Giudichi il lettore se ci sia stato auspicio prima della “condanna” e plauso dopo. Io non debbo aggiungere nulla.
Del resto a me sembra una costante dei pronunciamenti dell’A.N.M. quella di affermare di non dire mentre si dice.
Si prenda i comunicato dell’A.N.M. del 10.12.2008:
«(…) quello che è sconcertante in questa vicenda, che sconcerta noi come magistrati e come cittadini e che crediamo sconcerti l’opinione pubblica, è lo smarrimento completo e assoluto di ogni regola e di ogni ragione, di talché l’esercizio del potere giudiziario si presenta all’esterno come arbitrario, sganciato da regole, incomprensibile.
Non è nostra intenzione esprimere valutazioni sul merito del provvedimento di perquisizione e sequestro emesso dalla Procura di Salerno, sulle finalità o sulle modalità esecutive adottate.
(…) Anche in questo caso è evidente si sono smarrite regole e ragione. Un magistrato non deve mai allontanarsi dalla regola e dalla ragione: solo questi sono i fari e i punti di riferimento della sua azione».
Ora è del tutto evidente che ciascuno è libero di avere le sue opinioni sull’accaduto (ci mancherebbe!). Quel che suona strano è che, a un tempo, si censuri e si neghi di censurare l’operato di Apicella & C.
Dite voi che leggete se si può affermare che la vicenda sconcerta, che si sono smarrite regole e ragione, che il provvedimento si presenta come arbitrario e, al tempo stesso, proclamare che non si intendono esprimere valutazioni sul merito del provvedimento.
Apro una breve parentesi. E’ del tutto evidente che ogni provvedimento dovrebbe essere in accordo con le regole del diritto e con le regole della ragione. Ma non è questo il punto della questione.
Il punto è – deve essere – che, se non si vogliono consegnare i giudici, legati mani e piedi ai voleri della piazza o agli interessi della politica, occorre chiarire chi debba stabilire se le regole appena indicate siano state o meno osservate.
La risposta (e dunque la regola da osservare nel caso che ci occupa) è la seguente: l’inosservanza delle regole di diritto (violazione di legge) o della ragione (contraddittorietà o illogicità della motivazione) sono giudicate dal giudice dell’impugnazione e non danno luogo a responsabilità disciplinare.
La competenza del “giudice disciplinare” scatta solo nel caso di provvedimento abnorme e cioè di provvedimento del tutto al di fuori dei poteri del giudice e degli schemi del diritto. Chiusa parentesi.
Ma torniamo alla “illogicità” del comunicato dell’A.N.M..
Esso (emanato – si badi bene – ben prima della “condanna” di Apicella & C.) afferma:
«Riteniamo di dover ricordare che il dovere di motivazione dei provvedimenti giudiziari consiste nella chiara e analitica descrizione delle ragioni di fatto e di diritto sulle quali il provvedimento si fonda. E che la riproduzione integrale di atti di indagine, affastellati tra loro e non inquadrati all’interno di un percorso argomentativo logico-razionale, da un lato, non aiuta a comprendere le ragioni di fatto e di diritto su cui il provvedimento si fonda e, dall’altro, determina un’impropria diffusione del materiale investigativo. Tale materiale, peraltro, proprio perché non filtrato da un ragionamento di ricostruzione di fatti, si presta ad uso distorto da parte di mezzi di informazione, i quali, per l’autorevolezza della fonte da cui l’atto promana, amplificano la confusione tra farti accertati e mere ipotesi o allusioni. Né può sottacersi il fatto che tra il materiale riprodotto nel provvedimento vengono riportati fatti attinenti alla vita privata di persone estranee all’indagine e privi di alcuna rilevanza investigativa, così come vengono riportati sospetti, insinuazioni e accuse rivolte dal denunciante a persone estranee all’indagine e nei confronti delle quali non è stato elevato alcun addebito, e che pertanto non hanno alcuna possibilità di difendersi.
Si tratta di conseguenze dannose, estranee alla finalità dell’atto e che sarebbe stato agevole evitare.
L’ANM reputa legittimo domandarsi quale sia la finalità di un tale metodo di elaborazione dei provvedimenti giudiziari ed interrogarsi se, al di là delle intenzioni, la stessa non appaia estranea alle ragioni e alle regole del processo penale».
Confesso di trovarmi nel più totale imbarazzo: per un verso infatti il comunicato ripete (o meglio anticipa) le accuse mosse dal P.G. presso la Cassazione e dal Ministro, sì che confutare il comunicato vorrebbe dire entrare, da parte mia, nel merito del procedimento; per altro verso se è corretto accettare rispettosamente le incolpazioni (salvo confutarle nel processo), non si vede perché si debbano accettare rispettosamente i documenti dell’A.N.M..
Non ho la minima idea se il fatto sia voluto o sia casuale. Certo è che le cose stanno così: l’A.N.M., dicendo di non affrontare il merito della vicenda, parla del merito e con questo espediente vorrebbe impedire che altri parlino del merito. Finisce, insomma, che del merito ne parla una parte sola e a senso unico, il che non mi sembra il massimo, se è il dialogo che si vuole.
Comunque stiano le cose, tenterò ancora una volta di tenermi nel mezzo e mi limiterò a evidenziare il parallelismo (cui sopra accennavo) tra documento dell’A.N.M. e incolpazioni mosse nella sede propria ad Apicella & C. (che si possono leggere a questo link) là dove si accusano questi ultimi:
- di aver adottato una motivazione costruita da riproduzione di atti di indagine, affastellati tra loro e non inquadrabili all’interno di un percorso argomentativo logico-razionale;
- di essersi così prestati a un uso distorto da parte dei mezzi di comunicazione;
- di aver riportato fatti attinenti alla vita privata di persone estranee all’indagine e privi di rilevanza investigativa;
- di aver comunque riportato accuse rivolte dal denunziante a persone estranee all’indagine;
- di aver causato un’impropria diffusione del materiale investigativo;
- di aver, in definitiva, redatto un provvedimento giudiziario abnorme.
Resisto stoicamente alla tentazione di confutare una per una le varie accuse, e mi limito a osservare quanto appresso.
Se le accuse mosse da PG e Ministro coincidono con quelle mosse dall’A.N.M., che senso ha affermare che «esiste la preoccupazione che il giudizio [della Sezione Disciplinare n.d.r.] entri nel merito dell’indagine» (intervista Cascini)?
Ma c’è un’altra contraddizione che merita di essere rilevata.
Afferma l’intervistato: «Non credo che ciò sia successo in questo caso [e cioè: non credo che il giudizio disciplinare sa entrato nel merito della giurisdizione. n.d.r.]: aspettiamo le motivazioni».
Sorge spontanea la domanda: «Come fai a credere che non sia successo se, per saperlo, occorre attendere la motivazione?»
Sembrerebbe che – a fronte di una oggettiva convergenza politica tra A.N.M., P.G. e Ministro – si senta il bisogno di prospettare l’accaduto come legittimo e comunque di rassicurare l’elettorato (si ricordi che le “correnti” che agiscono nell’A.N.M. sono le stesse che competono per la conquista del C.S.M.) mostrando che l’A.N.M. veglia in armi a tutela del costituzionale esercizio della giurisdizione.
Sembrerebbe – detto più chiaramente – che per un verso si senta il bisogno di rassicurare i magistrati che stia trionfando la legge e, per altro verso, questo trionfo dissimuli la vittoria non della giustizia, ma della “ragion di stato”: la magistratura – si dice – è debolissima a fronte dell’“attacco” politico; il clamore mediatico deformante dell’accaduto rende impossibile ogni difesa; si prospettano, all’orizzonte, terrificanti riforme del C.S.M., dunque – sembra si concluda – dobbiamo apparire decisi e non corporativi.
E infatti il Segretario generale dell’A.N.M. afferma, fuori dai denti: «Non siamo il sindacato di una corporazione (…) L’A.N.M. spinge per il rinnovamento. Una vecchia concezione corporativa tollerava opacità e collusioni».
A me sembra che non si possa parlare di “corporativismo-sì/corporativismo-no” se non esaminando attentamente le ragioni di Apicella & C.
Se infatti fossero assolti ovvero la condanna si rivelasse, ad un esame critico, del tutto illegittima (tesi da dibattere avanti al giudice disciplinare o dell’impugnazione) ci si dovrebbe interrogare (tesi da dibattere all’interno dell’A.N.M.) non solo e non tanto se la ragion di stato abbia prevalso sulla giustizia, ma, anche e soprattutto, se l’A.N.M. abbia adempiuto al suo compito o sia stata ancora una volta – e in un senso ben preciso – corporativa.
Mi spiego.
Ha ragione Cascini: “Una vecchia concezione corporativa tollerava opacità e collusioni” (il corsivo è mio).
Forse questo “vecchio” modo di essere corporativi, quando le correnti erano altra cosa, oggi non c’è più.
Ma – ed è questo uno dei risvolti politici della storia di Apicella & C. – può dirsi che non c’è più alcuna forma di corporativismo?
Il mondo post-comunista e globalizzato è veramente un altro pianeta: i governi “nazionali” si sono ridotti a governi “locali”, con incredibile accelerazione nei cambiamenti, con evidente caduta nel controllo del potere, con inevitabile dislocazione dei poteri politici fondamentali nei centri “tecnici internazionali”, con un corrosione del principio di legalità (nel senso che mentre esiste una società globalizzata, non esiste una corrispondente legalità globalizzata).
Nella notte della caduta delle ideologie, nella quale tutti i partiti sono bigi; nel mutarsi dello scenario ove si esercita il potere politico; nel costituirsi del potere politico sempre più come “potere” piuttosto che come “politico”, sono venute meno le assonanze ideologiche (salvo – qua e là – qualche onda lunga).
L’A.N.M. è divenuta a sua volta (come a suo tempo l’U.M.I. o la Consulta del Regno che ancora era operante negli anni ‘70) un’enclave dove si confrontano soggetti (le correnti) sorte in altra epoca, su altre problematiche, con altri fini: questi soggetti, come pugili suonati, seguitano a ripetere meccanicamente comportamenti e schemi di lotta che avevano significato sul ring di un’epoca tramontata.
La distinzione tra le correnti è oggi più formale che sostanziale se si assume come parametro quella della fuoriuscita da un sistema che in nulla produce giustizia.
Intendo dire che politicamente non c’è grande differenza tra le correnti perché esse rispondono in modo sostanzialmente identico al quesito di fondo: alla domanda “volete mantenere in vita l’attuale sistema?” esse, nei fatti, rispondono sì.
Le correnti hanno dato vita a un sistema che le rende diversissime da quelle di un tempo: un sistema (che ho osato chiamare “regime” in un articolo che si può leggere a questo link, non volendo offendere nessuno ma cercando di individuare le sue caratteristiche oggettive) che, tra l’altro, rende gli apparati del tutto prevalenti sugli appartenenti.
Un tempo le correnti avevano tra loro idee diverse sulla magistratura e sul suo ruolo, ma tutte cercavano di difendere l’indipendenza in iudicando dei magistrati.
Oggi sembrerebbe che le correnti abbiano un’idea comune della magistratura e del suo ruolo, ma – questo è il tema che pongo nel modo più cortese possibile – sembra che considerino il ruolo dell’attuale C.S.M. e degli apparati ad esso collegati un bene più grande dell’indipendenza di chi è chiamato a giudicare (o a indagare).
Sembrerebbe dunque (vorrete prendere nota del garbo insito sia nell’uso del verbo “sembrare” sia nell’uso del modo condizionale) che si ammicchi al potere politico dicendo “Che bisogno c’è di cambiare, ci sono qui io a garantire il minimo di sudditanza necessario”.
Il Segretario generale è, sul punto, inequivoco.
A domanda («Il vicepresidente Mancino ha proposto una diversa composizione del C.S.M.») risponde: «Si può ragionare sulle modifiche della legge elettorale, ma ferma restando la composizione. Non siamo favorevoli alle proposte che diminuiscono il numero dei membri eletti dai magistrati».
Intendiamoci: puntualizzo e affermo di essere contrarissimo a un “nuovo” C.S.M. che, abdicando ai valori attualmente riconosciuti dalla Costituzione, costituisca un guinzaglio al collo della magistratura.
Affermo però che non sarà evitata alcuna abdicazione se il “vecchio” C.S.M. dovesse iniziare a fare quello che si vorrebbe facesse il “nuovo” C.S.M..
Detto brutalmente: se devo essere fucilato da magistrati che si dicono imparziali e dietro i quali si nasconde un potere politico ignoto, preferisco essere fucilato dal Ministro che è noto e se ne assume la responsabilità politica.
Confrontarsi su questi temi “laicamente” (senza stracciarsi le vesti perché si parla male di Garibaldi, senza sentirsi offesi, senza sentire messa in dubbio la propria buona fede, etc etc) credo possa giovare non poco al corretto assetto della magistratura e dunque la Paese.
Parlarne però non all’insegna del generalia non sunt appiccicatoria, ma alla luce del caso Apicella & C, nel concretissimo dell’esercizio del potere disciplinare che, come è noto, può, in astratto, costituire strumento di auspicabile bonifica ma anche bavaglio inaccettabile: dunque va esaminato nel concreto, con la massima attenzione e vedendo se le incolpazioni si prestino ad essere “massimate” sì da non costituire pericolo per il futuro.
Un’ultima osservazione cui non posso sottrarmi perché ce l’ho di traverso nella strozza.
Si parla, ad un certo punto dell’intervista, della necessità di recuperare immagine anche colpendo i «magistrati che non agiscono o, peggio, i magistrati collegati o collusi con ambienti di potere».
Chiede l’intervistatore: «E’ accaduto in passato?» Risponde il Segretario generale: «Mi viene in mente una vicenda collegata al procuratore Apicella. Nel 2004 fu avviato un procedimento per trasferimento di Ufficio per incompatibilità ambientale. Il fratello del procuratore era stato indagato, dal suo stesso ufficio, per appartenenza ad organizzazione criminale di stampo camorristico. Il fratello del procuratore poi fu assolto, ma il procuratore Apicella non fu mai trasferito. Il C.S.M. decise a maggioranza. Per un voto».
Ma tu guarda combinazione! Tra tanti possibili esempi – zacchete! – cosa ti ripesca la memoria? Il caso Apicella (conclusosi felicemente) di quattro anni or sono,dato che altri esempi proprio non ce n’erano!
Mica si è voluto alludere al fatto che Apicella è un tipaccio; mica si è voluto sottolineare che se non son buone le ragioni di oggi, per trasferirlo, erano buone le ragioni di ieri; mica per dire che il C.S.M. è come il vino, col tempo migliora: ieri mancò il colpo per un voto, ma vedi un po’ oggi come sono perfezionati i metodi!; mica perché l’A.N.M. “vuole morto” Apicella.
Ci mancherebbe altro. Si è parlato così tanto per fare un esempio.
Dopo tutto se al Segretario generale dell’A.N.M. fanno una domanda, dovrà ben rispondere (beninteso, senza entrare nel merito). O no?
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