Versione stampabileNon abbiamo scritto nulla prima d’ora su Eluana Englaro, perché la sua dolorosa storia umana è stata oggetto di ogni genere di speculazione e, infine, anche di una orribile strumentalizzazione politica. E non ci sembrava giusto trattare Eluana così. Pubblichiamo adesso alcune riflessioni di Stefano Racheli, che si fanno carico della complessità del problema e che vogliono essere un invito a riflettere sui temi importanti che vengono in discussione in questa storia, temi che non possono essere affrontati con semplificazioni e strumentalizzazioni. La Redazione del blog non ha una “posizione politica” su questi temi. Ciascuno di noi ha proprie opinioni e, soprattutto, serie preoccupazioni e molti interrogativi, che poniamo alla nostra coscienza e affrontiamo con il nostro impegno di uomini e donne. Sarà bello parlarne insieme, ma, ve ne preghiamo, senza pregiudizi e senza barricate, perché la cosa da fare davvero e cercare “luci” e questo si può fare solo prestando attenzione a ogni aspetto del problema. Stefano ha volutamente lasciato il suo discorso aperto a ogni diversa opinione, non perché non ne abbia una sua, ma per lasciare chiaro che in questo momento, per potere sperare di trovare risposte, serve una grande capacità di farsi domande. ______________
di Stefano Racheli
(Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Roma)
Una premessa.
Cari amici del blog, chiedo venia, ma i tragici avvenimenti che sono andati sotto il nome di “caso Englaro”, mi spingono, sopite le polemiche, a scrivere qualcosa sul tema, ancorché di tutto avrei voglia meno che di imbarcarmi in siffatto genere di problemi.
Sento il bisogno di comunicare con voi; di avere uno scambio di vedute, senza alcuna pretesa di ammannire al prossimo la verità, ma semplicemente - come si addice tra amici che si rispettano - di provocare solitarie meditazioni e personali approfondimenti: meditazioni e approfondimenti del tutto necessari, visto che la discussione dal quesito iniziale - cos’è mai la vita? cos’è l’uomo? - è passata a toccare punti vitali della convivenza umana e del diritto.
Non deve dunque sorprendere l’estrema lunghezza di questo scritto e, qua e là, l’oggettiva complessità dell’esposizione: spero che tutto ciò mi verrà perdonato ove si consideri che ho cercato di seguire rigorosamente lo spirito del blog il quale, nella sua essenza, è desiderio di confronto aperto, sincero e approfondito, del tutto nemico di ogni spirito di “arruolamento”.
Quando vengono in discussione temi come quelli di cui stiamo trattando (e molti altri di simile o comunque apprezzabile complessità), l’U.S.A.C. (Ufficio Semplificazione Affari Complicati) si mette rapidamente all’opera, semplificando, emotivando, schematizzando: insomma, camminando esattamente nella direzione opposta a quella auspicata da Spinoza allorché ammoniva: “humanas actiones non ridere, non lugere neque detestari sed intelligere” (traduco liberamente: non ridete delle azioni umane, non piangete e neppure adiratevi a causa loro, ma cercate di capire cosa avete davanti agli occhi).
Il primo effetto dell’U.S.A.C. è quello di alimentare il fuoco delle passioni: di qui all’animosità e allo scontro il passo non solo è possibile, ma, purtroppo, è anche breve. Naturalmente nello “scontro” non vince chi ha ragione, ma chi ha più “armi” e dunque i “disarmati” devono condurre il confronto sul terreno loro favorevole (quello della ragione) e non su quello del “calor bianco” delle passioni.
Cerchiamo dunque di sottrarci all’atmosfera creata da chi (magari al di là delle sue intenzioni) suscita animosità.
Lo dobbiamo non solo per motivi, diciamo così, tattici, ma per l’affetto che portiamo a quel contenuto di nobili valori che chiamiamo Costituzione.
Difendere la Costituzione non è solo optare per un determinato assetto normativo: è - ben prima e ben di più - un professare e praticare valori ben individuati: un “uomo costituzionale” ha una precisa idea dell’uomo e della convivenza umana; egli rifiuta di imporre il suo modo di vedere le cose e si affida esclusivamente alla forza del dialogo.
Devo anche premettere alle argomentazioni che seguiranno alcune brevi considerazioni su un concetto che sembra espunto dalla cultura corrente: il concetto di “mistero”.
Intendo qui per mistero non già l’ineffabilità - o peggio l’esotericità - dell’oggetto del nostro conoscere: chiamo infatti “mistero” la distanza che corre tra l’oggetto della nostra conoscenza e la nostra capacità attuale di comprendere esaustivamente detto oggetto.
Tranne alcuni casi limite, dove l’oggetto del conoscere eccede per definizione le nostre capacità conoscitive, tutto il nostro conoscere ben difficilmente, al di là delle apparenze, è tale da esaurire completamente e definitivamente il suo oggetto.
Questa nostra naturale limitatezza non ha sempre eguale spessore: mentre essa è evidente in determinate materie, in altre è più nascosta.
Certo è che nella materia che andiamo a trattare occorre estrema prudenza ed è più saggio porre domande che sbandierare proclami: deve dunque essere chiaro che, anche là dove il mio dire non assumerà esplicitamente la forma di un interrogativo, dovrà essere pur sempre considerato tale: il lettore dovrà dunque avere sempre cura di tradurre in domande quelle che gli appaiono affermazioni.
Non sono infatti importanti le mie (provvisorie e limitate) convinzioni: la loro (eventuale) importanza consiste solo e unicamente nella loro idoneità a suscitare una personale ricerca.
L’unico scopo che cerco di perseguire con questo mio scritto è quello di rendere chi legge consapevole del fatto che la sua posizione finale è, di necessità, la risultante della soluzione di numerosi e ardui dilemmi. Come dire: ognuno di noi, nel pervenire ad una personale convinzione sul da farsi, deve prima saltare diversi ostacoli (e che ostacoli!).
Il primo ostacolo.
La prima asticella da saltare si chiama mind-body problem, problema che da decenni affatica psicologi e psichiatri (e ben prima di loro, nel corso dei secoli, i filosofi)
La formula mind-body problem nasce internamente alla scienza psicologica/psichiatrica nel tentativo di dare conto del rapporto che lega ciò che chiamiamo “mente” alla persona considerata nella sua interezza. Il problema è dunque l’uomo e la sua mente. Evidenzio la congiunzione “e”, per significare che già nel separare la “mente” dall’uomo, si compie un’operazione discutibile perché ben potrebbe sostenersi che l’uomo non è tale senza la sua “mente”. Virgoletto inoltre “mente” perché sia chiaro da subito che detto termine può indicare realtà assai diverse tra loro.
Nel pensiero contemporaneo (soprattutto anglosassone) il problema va appunto sotto il nome di M.B.P. (mind-body problem) e allude, per la precisione, alle questioni implicate dal seguente quesito: dove collocare il “mentale” con riferimento a quella specifica realtà che chiamiamo uomo?
Come è stato rilevato (S. Moravia) il “mentale” non si vede e nessuno si attende di vederlo. Ma quel “vedere” è ambiguo e invoca che si chiarisca se esso sia o meno usato nel senso di “constatabile” (tutto quello che si vede è constatabile, ma non viceversa).
Ne segue la necessità di: a) chiarire l’ulteriore ambiguità della natura e del luogo di quelli che sono stati chiamati i realia invisibilia; b) prendere atto che la problematica di cui trattasi costituisce risposta al quesito di fondo: chi sono realmente io (= cos’è che fa di me una realtà specifica)?
La necessità appena indicata pone, come è evidente, un ulteriore quesito (sul quale torneremo in seguito): quale è il metodo idoneo ad affrontare l’indagine invocata? Il metodo scientifico, quello filosofico, quello teologico, etc?
Il M.B.P. dunque più che “un” problema, è “il” problema: quello del significato e della “portata” di ciò che chiamiamo “natura dell’uomo”.
La questione è antica: “Nel dualismo delle età precedenti come in quello platonico, si assume che i corpi possano vivere solo se possiedono un’anima (…) ma per Cartesio, e per noi dopo di lui che abbiamo familiarità con una prospettiva meccanicistica riguardo alla natura, i corpi viventi sono tali solo grazie a meccanismi interamente fisici (…) La svolta decisiva impressa da Cartesio al problema mente-corpo è dunque la seguente: l’anima non può più essere considerata vita o fonte di vita, come in Platone e in Aristotele, perché vita è meccanismo. Si apre così la strada alla moderna e contemporanea accezione del termine “mente” e quindi a una reimpostazione del problema del rapporto mente-corpo: l’anima è privata delle funzioni vitali e ridotta a pensiero, a ragione, ad autocoscienza”.
Se si è accennato al mind-body problem, è stato solo per far comprendere la fondamentalità della questione.
Fondamentalità e – aggiungo – “misteriosità”: non a caso Griesinger (padre, con Kraepelin, del modello psichiatrico scientifico-materialistico) afferma che “neppure un angelo sceso dal cielo per spiegarci tutto” potrebbe rendere la nostra ragione capace di dare conto del perché e del percome “un processo organico (celebrale) si trasformi in un atto di coscienza (in atto psichico)” (cito da E. Borgna, Modelli teorici e questioni cliniche di psichiatria in Introduzione a A. Gaston, Genealogia dell’alienazione).
Ho sopra affermato che il termine “mente” può essere usato per indicare realtà molto differenti tra loro.
Può infatti designare sia ciò che è cultura, affettività, psicologicità.
Ma può anche designare qualcosa di ben più profondo e sostanziale: “sostanza è ciò che non viene predicato di alcun sostrato, ma è ciò di cui tutto viene predicato”.
Questo qualcosa di sostanziale – che possiamo chiamare mente o intelletto o anima – risplenderebbe, secondo i suoi sostenitori, nell’umano modo di conoscere (conoscenza intellettuale), il quale sarebbe determinato da un quid che, ad un tempo, costituisce causa (ma sulla specie e la portata di questa causalità dovremmo interrogarci a lungo, per non confonderla con la causalità efficiente) del vivere e del conoscere definibili come umani (su questo quid tornerò, sia pur brevemente, nelle pagine che seguono).
Il secondo ostacolo.
Saltata la prima asticella (per la qual cosa – sia ben chiaro ! – non è certo sufficiente leggere le righe che precedono!), occorre affrontare il secondo ostacolo che è intimamente connesso al primo.
Sgombro subito il campo da una questione. In nessun modo e sotto nessun profilo (salvo eccezioni del tutto rare) si è discusso se la vita fosse o meno da tutelare: sul punto infatti non sembra esserci disaccordo di rilievo.
Dico questo per rilevare come non sia in discussione il principio etico secondo cui la vita va rispettata in ogni sua forma: sulla intangibilità della vita “religiosi” e “laici” sono infatti del tutto d’accordo.
Dove dunque il dissidio? Semplicemente (si fa per dire) sul che cosa sia la vita; anzi, a essere precisi, sul cosa sia la via umana. Problema delicatissimo che, con buona pace dell’USAC, affascina l’umanità fin dalla notte dei tempi:
“(…) Possiamo ragionevolmente porre ai primi posti la ricerca sull’anima. Sembra inoltre che la conoscenza dell’anima contribuisca grandemente alla verità in tutti i campi e specialmente alla ricerca sulla natura, giacché l’anima è come il principio degli esseri viventi” (Aristotele, De Anima).
Vorrete prendere nota del fatto che ho evidenziato i termini anima (ψυχή), natura (φΰσις ), principio (αρχη), esseri viventi (ζώον): si tratta infatti di termini fondamentali al fine di comprendere di cosa andiamo parlando.
Esaminiamoli insieme.
“Anima” innanzitutto. Solo a proferire questo termine , si respira, nella nostra cultura, aria di sagrestia, ma in allora, il significato era (sulla base dell’originaria parola sumerica) tutt’altro: soffio vitale (da cui l’odierno “essere animato”, “animale” etc). Lo stesso può dirsi per il verbo ζωω e per il sostantivo ζωον.
Quanto al termine “natura”, esso significa ciò-che-fa-crescere, ciò-che-dà-luogo. Il suo significato profondo è dunque quello di scaturigine, di sorgente-causante (considerazioni analoghe possono farsi per il termine “principio”).
Dunque l’indagine che – or sono 2500 anni (davvero, come si vede, nulla di nuovo sotto il sole) – il buon Aristotele andava svolgendo era la seguente: “Cos’è che fondamentalmente ci rende viventi?”.
Vorrei sottolineare con forza quel “fondamentalmente”, il quale esclude tutto ciò che – pur conseguendo al vivere – non è in sé il vivere: ciò che cerchiamo, infatti, è qualcosa di radicale, di fondante: quasi le fondamenta su cui posa ciascuno di noi.
Vorrei anche far notare che “vivere” non equivale a “esistere”, dal momento che, se è vero che tutto ciò che è vivente esiste, non è vero anche il reciproco (infatti non tutto ciò che esiste – ad es una pietra – è vivente).
Ma – e qui la faccenda va facendosi “misteriosa” nel senso sopra indicato – per gli esseri animati/viventi l’esistere coincide con l’essere-viventi: infatti quando non viviamo più, non siamo più esistenti.
Dunque l’essere vivente non è una qualità del soggetto che – modificandosi o scomparendo – lasci persistere l’“essere-a-questo-mondo” del soggetto stesso.
La questione si ingarbuglia viepiù (non me ne vogliate!) ove si consideri che il vivere - o, il che è lo stesso, essere vivente - non si modula in modo sempre eguale, ma, per dir così, mostra facce diverse a seconda che a “vivere” sia una felce, un cane, un uomo. Dunque vivere, sembrerebbe equivalere, per noi, a esistere-come-uomo sì che il quesito “cosa è il mio vivere?” si allarga sino a ricomprendere l’ulteriore quesito “cos’è un uomo?”.
Come si vede, la problematica non è facile perché, se già a porre domande si corre il rischio di essere fuorvianti, a dare risposte il rischio aumenta dismisura, con la conseguenza di legittimare posizioni potenzialmente dirompenti. Basti fare alcuni esempi.
Se “essere in quanto uomo” dovesse comportare una mera compiutezza fisica, occorrerebbe ammettere che non siano uomini le persone affette da gravi o gravissime menomazioni fisiche.
Se invece “essere in quanto uomo” allude a qualcosa che va oltre la vita vegetativa e/o animale, occorrerà dire che la nostra umanità vive anche se deprivata dei “gradi” inferiori di vita.
Gradi, si badi bene, che è possibile definire “inferiori” solo pagando il prezzo di numerosi distinguo.
La loro “inferiorità” infatti è tale solo ad ammettere un livello fondante ulteriore (quello, per l’appunto, che ci specifica come uomini) rispetto ai detti “gradi” e – in ogni caso – con obbligo di tener presente che detta “inferiorità” non sembra assolutamente comportare una superfluità dei “gradi inferiori”.
Il terzo ostacolo.
Esaurito il secondo ostacolo il paziente lettore si troverà alle prese con il terzo ostacolo: se il “pianeta uomo” è così articolato e “misterioso”, quale è mai il “sapere” in grado di leggere detto pianeta?
Questo terzo ostacolo – al pari degli altri – fa sicuramente tremare le vene e i polsi.
Occorre infatti innanzitutto decidere di quanti “saperi” possano usufruire i mortali: se cioè l’unico sapere di cui possiamo disporre sia quello che chiamiamo scienza.
Ostacolo – dicevo – assai arduo dato che il “sapere” che chiamiamo scienza è un “sapere” difficile da identificare e con limiti ben precisi.
Al fine di abbozzare la portata e l’ambito del dibattito concernente la “scienza”, prendo qui quale paradigma la teoria di K.R.Popper, il più noto degli epistemologi contemporanei, la cui dottrina ha fatto scuola al di là dei confini del ristretto campo dei filosofi della scienza. Non a caso G. Jervis afferma: “La formulazione di Popper, del resto ben nota, è – nella sua semplicità – tuttora un punto di riferimento obbligato; secondo questa formulazione, un enunciato è scientifico quando accetta di rischiare la confutazione, indicando con chiarezza qual è l’evento che lo rende falso”.
Ed ancora “In psicologia come altrove gli enunciati sono scientifici non in quanto vanno presi per certi, ma proprio perché, al contrario, sono provvisori e esposti alle verifiche”.
Veniamo dunque a Popper. La scienza – egli afferma – prende avvio soltanto dai problemi: essa non descrive, non afferma, ma esterna congetture al fine di rendere conto di tali problemi.
Popper nega che la conoscenza possa derivare dalla mera osservazione, sostenendo che “il programma consistente nel ricondurre tutta la conoscenza alla sua fonte prima, l’osservazione, che è logicamente impossibile da eseguire, porta a un regresso all’infinito”.
Proprio per tale motivo Popper propone di sostituire al quesito circa le fonti della nostra conoscenza l’altro del tutto differente: “in che modo possiamo sperare di scoprire e di eliminare l’errore?”.
Popper, tra l’altro, condivide largamente l’impostazione kantiana secondo cui va abbandonata l’illusione di essere osservatori passivi sui quali la natura imprima la propria regolarità.
Ci si deve convincere – per Popper – che il “cosmo reca l’impronta della nostra mente”.
In altri termini “il mondo quale lo conosciamo è una nostra interpretazione dei fatti osservabili alla luce delle teorie che inventiamo noi stessi”; e ancora “le teorie non possono essere derivate logicamente dalle osservazioni”.
Per Popper la scienza è un progredire da problemi ad altri problemi, come un tentativo di risolvere problemi e non di descrivere la realtà.
Egli nega che l’osservazione ci fornisca una conoscenza dei fatti la quale giustifichi o consolidi la verità di un’asserzione.
Nega, per la precisione, che possa darsi una corrispondenza tra fatti ed enunciati sì da conferire fecondità scientifica alle definizioni.
Secondo Popper vanno accantonati, in quanto “metafisici”, i problemi relativi al “perché” il mondo si lasci leggere dal soggetto conoscente e al “che cosa” si legga del mondo mediante la scienza: occorre insomma prescindere (con Husserl) da che cosa sia il sapere e la verità.
Se qui si accenna al problema di cosa sia la scienza (empirica) è perché il mind-body problem non può essere affrontato se non si ha compiuta contezza dei limiti della “scienza”: “Io” afferma Toraldo di Francia “ho indubbiamente anche un concetto di bellezza e ne posso parlare; ma la bellezza non è una grandezza fisica perché non so misurarla”.
Infatti “una grandezza fisica è definita mediante le prescrizioni delle operazioni che si devono effettuare per misurarla”.
Il problema nasce dunque quando si voglia comprendere se il “pensare”, la “coscienza” si esaurisca in un venire a contatto della “fisicità” di cui l’uomo è portatore con la “fisicità” di cui è portatore il mondo che circonda l’uomo.
Nella misura in cui vogliamo sapere quali siano gli effetti di questo téte a téte, siamo in presenza di un legittimo e rilevante problema “fisico” che ha ogni diritto ad attirare la nostra attenzione.
A condizione che le sue soluzioni non vogliano rispondere, in modo neo-empedocleo, ad un problema in cui la fisicità, pur sicuramente implicata, non è decisiva.
Empedocle di Agrigento sosteneva che il simile conosce il simile (l’acqua conosce l’acqua, la terra la terra etc).
Nella nostra concezione (più raffinata) si verrebbe a stabilire che il fisico conosce il fisico.
Ma, per chi pensi che occorra indagare al di là della fisica (in senso metafisico), l’“anima” si pone come un alcunché di immateriale che, in quanto tale, è quodammodo omnia: è cioè capace di trascendere la fisicità dei singoli esistenti, “astraendo” da essi gli aspetti per dir così assimilabili allo spirito umano e gettando un ponte verso il mondo esterno, così rendendo possibile il sapere in generale.
Nell’ansia di tenerci stretto il “sapere scientifico” (“sapere”, s’intende, fondamentale), corriamo il rischio di abbandonare saperi altrettanto affascinanti e fondamentali, finendo per perdere di vista la trama che, nell’ordito del Sapere globale, distingue tra loro i vari saperi.
E si badi che il difensore, ad un tempo, della specificità del sapere scientifico e della maggiore ampiezza del più generale contesto costituito, per l’appunto, dalla trama del Sapere globale, fu proprio lui, Galileo Galilei, la vittima della più famosa delle lotte tra saperi, il quale afferma: “Mirabile e veramente angelica dottrina: alla quale molto concordemente corrisponde quell’altra, pur divina, la quale, mentre ci concede intorno alla costituzione del mondo, ci soggiunge (forse acciò che l’esercizio delle menti umane non si tronchi e anneghittisca) che non siamo per ritrovar l’opera fabbricata dalle Sue mani. Vagli dunque l’esercizio permessoci e ordinatoci da Dio per riconoscere e tanto maggiormente ammirare la grandezza Sua, quanto meno ci troviamo idonei a penetrare i profondi abissi della Sua divina sapienza”.
Il “sapere” – c’è dunque da chiedersi – è anzitutto ritenere per certo?
Si identifica con il poter dedurre sperimentalmente?
E’ un mero tangere o “percepire”?
Per poter “sapere” occorre, prima ancora (in senso non temporale) poter “conoscere”: necessità cioè il realizzarsi di una precondizione che consenta un qualsiasi sapere.
Ricapitolo. Chiunque si accosti al problema della “mente” dovrà dunque riflettere concretamente e seriamente sulla possibilità o meno di ridurre il sapere a quel tipo specifico di conoscenza che chiamiamo “scienza”.
Dovrà poi orientarsi nel ginepraio di teorie che tentano, con grande difficoltà, di stabilire quali siano i parametri che ci consentano di definire come “scientifica” una teoria e come “scientifico” il metodo a essa correlato.
Dovrà soprattutto vegliare perché nessun “sapere” invada il regno, per così dire, di altri saperi.
Personalmente sono convinto che ogni “sapere” sia un affaccio sul “mistero” del reale.
Non esistono “saperi” con diritto di esclusiva: tutti insieme possono apprendere assai di più di quanto non riescano a fare da soli.
Ogni sapere ha diritto di interpellare gli altri saperi conformemente al noto adagio secondo cui a chiedere non si fa peccato.
Il quarto ostacolo.
Gli ostacoli non sono finiti. Infatti dopo aver risposto ai quesiti sopra indicati, ci si imbatte in un nuovo e non facile quesito: quando c’è morte biologica?
Un tempo il quesito non aveva la stessa valenza di oggi, dato che il confine tra vita e morte era abbastanza netto, mentre oggi – con il progresso delle varie tecniche di assistenza medica – si è aperta una zona grigia non facilmente decifrabile.
Infatti il passaggio – se vogliamo chiamarlo così – dalla vita alla morte non sempre è rapido e improvviso, ma vengono spesso in essere zone grigie, non definibili chiaramente come vita o come morte, in cui si passa dallo stato di vita a quello di morte per fasi successive “non meglio identificate”.
Se si arresta il cuore e cessa la circolazione sanguigna, non c’è questione.
Quando invece vanno spegnendosi le funzioni cerebrali, si determina la perdita di funzioni essenziali per la “vita umana” senza che le “funzioni vitali” si arrestino.
Uso con prodigalità le virgolette, essendo ben evidente che la “vita umana” e le “funzioni vitali” (oltre a determinare i quesiti affrontati in precedenza) costituiscono proprio la realtà che stiamo indagando, sì che non possono essere ad un tempo oggetto dell’indagine e concetti su cui si fonda l’indagine.
Dunque “di vita umana” e di “funzioni vitali” sono – allo stato delle discussione – quasi delle metafore allusive che manifestano la limitatezza del nostro conoscere.
Che non ci sia identificazione tra “funzioni vitali” è attività cerebrale sembra dimostrato (ma è dimostrato?) dal fatto che è comunemente accettato che, in caso di morte cerebrale, venga interrotta la respirazione assistita e facciano finire le “funzioni vitali”, dato che il tessuto cerebrale è morto senza possibilità alcuna di ripresa.
Vi sono invece casi in cui solo alcune parti del cervello sono irrimediabilmente compromesse.
Nel caso in cui il danno riguarda la corteccia cerebrale, le funzioni vitali sono mantenute e può essere presente anche la respirazione spontanea, ma le funzioni cognitive sono irrimediabilmente perdute e non c’è speranza alcuna che il paziente possa riacquistare coscienza.
In questo caso non c’è morte cerebrale, ma l’individuo come tale sembra non esistere più.
Sorge a questo punto un duplice quesito: la “vita umana” si identifica con la “vita cognitiva”?
E – passando alla pratica – quand’è che, in assenza di morte cerebrale, si può stabilire in assoluto che non sia possibile ripresa alcuna delle facoltà cognitive?
Ma non basta rispondere a questi quesiti.
Infatti – dato e qui non concesso che possa dirsi umana anche una vita in cui sia compromessa la facoltà cognitiva e che non sia dimostrata in assoluto l’impossibilità di ripresa – quando le cure da prestare realizzano quello che chiamiamo “accanimento terapeutico”?
Nella terapia si affrontano infatti due problemi fondamentali: la quantità della vita e la qualità della vita.
E’ terapia ideale quella che aumenta la quantità della vita senza andare a discapito della qualità della vita.
Occorre dunque, nel caso che ci occupa, far uso di detti due parametri per stabilire se e quando ci sia accanimento terapeutico e dunque possa essere interrotta la terapia.
Come se non bastasse, si pone a questo punto un interrogativo non irrilevante: dovendo stabilire se vi sia o meno accanimento terapeutico, la nutrizione artificiale può essere considerata “terapia” e dunque, in caso di accanimento, essere interrotta?
Risposta non certo facile, ove si consideri che tanto l’intervento terapeutico quanto la nutrizione artificiale sono – al di là delle differenze lessicali – essenziali alla sopravvivenza del paziente, sì che riesce arduo dar conto e ragione del perché l’“accanimento” renda possibile eliminare solo uno dei due metodi di sopravvivenza.
Il quinto ostacolo.
Chiunque sia giunto pazientemente sin qui ed abbia, nel suo cuore, affrontato, esaminato e approfondito i temi da me sopra solamente abbozzati, dovrà a questo punto decidere se la sua soluzione sia indiscutibilmente certa o soltanto “opinabile” (nel senso più alto e nobile del termine): se cioè ammetta, qua e là, in occasione dell’uno o dell’altro dei vari ostacoli, posizioni diverse, opzioni diversificate, soluzioni diversamente calibrate.
La risposta a questo quesito non è acqua fresca, ma assai rilevante se la si coniuga con la problematica connessa al concetto di democrazia.
Se infatti – per poter definire democratico uno stato - fosse sufficiente accertare se in esso le decisioni siano prese in base al principio di maggioranza, non ci sarebbe questione.
Ma anche sul punto occorre formulare un interrogativo: siamo sicuri che sia così? Infatti il principio di maggioranza in nulla verrebbe ferito ove, in ipotesi, il 50% più uno degli elettori decidesse di privare gli altri del diritto di cittadinanza o della loro casa. Dunque la democraticità mentre invoca il principio di maggioranza, invoca anche, e prima ancora, dei limiti. Quali? Ancora una volta non voglio rispondere a interrogativi, ma porre interrogativi. Chiediamoci dunque: esistono dei limiti alla maggioranza (come la nostra costituzione, tra l’altro, statuisce parlando di diritti inviolabili da essa riconosciuti)? La legge penale, “democraticamente” emanata, può dirsi “democratica” anche quando obblighi i cittadini ad aderire, nei fatti, ad opinioni, credenze o tesi “opinabili”.
Il sesto ostacolo.
Non perdetevi d’animo, cari amici del blog, e fatevi forza: mi vergogno a dirlo, ma c’è un sesto ostacolo da saltare.
Come è noto, infatti, la Corte di Cassazione ha detto ultime e definitive parole (giuridicamente parlando) sulla drammatica vicenda dei Eluana Englaro.
Si chiede: deve essere rispettata questa sentenza?
Può il Parlamento metterla nel nulla con una “legge fotografia”?
Non fatevi trarre in inganno: di tutto si tratta meno che di interrogativi meramente tecnico-giuridici e, in quanto tali, esistenzialmente parlando, di serie B.
Infatti, a ben vedere, si tratta – niente di meno, niente di più – che della libertà delle coscienze rispetto al diritto e del principio della divisione di poteri (inteso come uno dei cardini su cui poggia il controllo del potere).
Libertà di coscienza, anzitutto.
E ci mancherebbe che così non fosse e che l’ordinamento giuridico pretendesse di vincolare le coscienze (a proposito: cos’è mai la “coscienza”? Bel problemino su cui sarebbe assai interessante intrattenersi) ad aderire ai valori quali emergono dagli atti dei vari Poteri pubblici.
Dunque la Magistratura non può vincolare le coscienze.
E neppure – aggiungo – il Parlamento e il Presidente della Repubblica o chiunque altro.
Ma può la coscienza, nel sentirsi o meno vincolata, prendere a parametro solo la condivisione dei valori praticati dalla Magistratura, dal Parlamento, etc.?
Se così fosse, ce ne dovremmo andare ognuno per la sua strada a ogni pie’ sospinto: quasi mai infatti i proclami del Potere coincidono con il nostro interno sentire.
Siamo qui nel pieno del problema affrontato da U. Scarpelli nel suo Cos’è il positivismo giuridico ? (un libro da leggere, se mai lo troviate !): il diritto positivo merita di essere seguito quando il sistema nel suo complesso meriti di essere condiviso per la sua democraticità, per il suo pluralismo, per il rispetto dei valori fondamentali, etc.
Che nel caso concreto questa condivisione debba darsi è la croce e delizia di cui ognuno di noi deve farsi carico.
Infatti poiché le coscienze sono tante, ognuna formata a suo modo e con i suoi valori, è necessario ammettere che, fino a un certo punto, i miei valori possano essere disattesi, così come capita per ogni cittadino: il prezzo del pluralismo è infatti ammettere che non sempre si può vincere e che, come ben si esprime il Concilio Vaticano II, “l’uomo può volgersi al bene soltanto nella libertà cui i nostri contemporanei, tanto tengono e ardentemente cercano e a ragione”.
Sembrerebbe dunque che l’interrogativo da porsi sia: “Il sistema consente reale libertà sì che i valori di ciascuno possano affermarsi, nel libero dibattito, come valori condivisi da tutti?”.
La divisione dei poteri.
Sulla importanza di tutelare siffatto principio (o, il che è lo stesso, evitare la concentrazione del potere) mi sono già espresso altrove e dunque non starò qui a ripetermi.
Merita però di chiedersi: che ne sarebbe del nostro convivere se i giudici pretendessero, sotto forma di sentenza, di emettere leggi o il Parlamento si sovrapponesse alle sentenze?
Meditate gente, meditate …
Tirate le somme.
Cari amici del blog siamo – anzi siete – giunti alla fine.
Rispondendo ai vari quesiti avete implicitamente risposto a tutte le questioni sollevate dal dibattito sul dramma di Eluana Englaro.
Sarete così maggiormente consapevoli del se, del quando e del come si possa o meno obbligare qualcuno a “rispettare” la vita.
Conservate nel vostro cuore la vostra opinione e confrontatela.
E, se mi è consentito un auspicio, siate pronti a difenderla così come a riconoscere le ragioni degli altri.
Perché mai, come in questo tipo di faccende è vero quello cha andava ripetendo il vecchio filosofo:
“E’ impossibile ad un uomo cogliere in modo adeguato la verità ed è altrettanto impossibile non coglierla del tutto: infatti, se ciascuno può dire qualcosa intorno alla realtà, e se, singolarmente preso, questo contributo aggiunge poco o nulla alla conoscenza della verità, tuttavia, dall’unione di tutti i singoli contributi deriva un risultato considerevole (…) Ora non solo è giusto essere grati a coloro dei quali condividiamo le opinioni, ma anche a coloro che hanno espresso opinioni piuttosto superficiali; anche costoro, infatti, hanno dato un certo contributo alla verità, in quanto hanno contribuito a formare il nostro abito speculativo”.
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