domenica 27 settembre 2009

Immigrazione clandestina: il CSM alle prese con lo sdoppiamento di personalità.


La sortita del Ministro Maroni, secondo cui le norme contro l'immigrazione clandestina - che a lui appaiono chiarissime - andrebbero “applicate” e non “interpretate”, ha determinato reazioni di segno opposto al CSM.

Da un lato, infatti, su iniziativa del consigliere laico Anedda, è stato dato il via ad una pratica volta a verificare se i magistrati, che hanno sollevato dubbi e perplessità sulla nuova normativa in materia di immigrazione rallentandone l'operatività, siano venuti meno ai loro doveri professionali.

Dall'altro lato, però, su iniziativa del consigliere togato Pepino, è stata chiesta l'apertura di una “pratica a tutela” proprio di quegli stessi magistrati, evidentemente muovendo dall'assunto che nessuna violazione di doveri si sia verificata e che l'intervento del Ministro leda l'autonomia della giurisdizione.

La querelle - nel merito della quale non vale neppure la pena addentrarsi visto che le affermazioni del Ministro, se prese sul serio, condurrebbero all'abolizione della magistratura vista la capacità auto-applicativa delle norme – offre lo spunto per alcune riflessioni sui troppi ruoli assunti dal CSM, spesso tra loro in conflitto.

Quando un attore esonda dalla “parte” che il regista gli ha assegnato e pretende di interpretare più ruoli, ogni trama rischia di trasformarsi in farsa, quando non in tragedia.

E' allora opportuno ricordare i tratti essenziali della “sceneggiatura”.

Il CSM, per dettato costituzionale, deve occuparsi dei provvedimenti disciplinari contro i magistrati.

L'azione disciplinare è promossa dal Ministro della Giustizia e non può essere avviata d'ufficio dal CSM che invece deve esserne giudice “terzo”, in base alla legge.

Per lo stesso motivo il giudice (CSM) non può - senza intaccare le prerogative ministeriali e svilire la propria credibilità - pronunciarsi preventivamente su un fatto, escludendone la rilevanza disciplinare.

Cosicché si registrano almeno due anomalie.

E' criticabile che il CSM apra un procedimento per rintracciare violazioni nell'operato di quei magistrati che, dubitando della legittimità costituzionale e della compatibilità con le fonti sovra-nazionali, intendono sottoporre a verifica la nuova normativa sull'immigrazione perché così operando il CSM espropria il Ministro e la Procura Generale della Cassazione dei propri ruoli, comportandosi come un accusatore-inquisitore e quindi minando le qualità di “giudice terzo” che la Costituzione e la legge gli assegnano.

Allo stesso modo, l'avvio di una “pratica a tutela”, prelude alla formulazione di un giudizio preventivo sulla vicenda, sia pure di segno opposto, ma ugualmente lesivo delle prerogative ministeriali giacché nessun “attore” porterebbe una causa davanti ad un giudice che già ha fatto sapere che non accoglierà la sua domanda.

Ecco perché il teatrino che sta montando in questi giorni assume il gusto della sceneggiata.

E, in un caso e nell'altro, compromette la credibilità dell'unico ruolo che di sicuro le leggi assegnano al CSM, vale a dire quello di giudice della disciplina dei magistrati.



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giovedì 24 settembre 2009

Dal G.I.P. di Perugia l’ennesima smentita delle tesi del C.S.M. e della Cassazione contro i magistrati della Procura di Salerno.


Il 9 settembre 2009, il Giudice per le Indagini Preliminari del Tribunale di Perugia ha archiviato il procedimento penale nei confronti dei colleghi Luigi Apicella, Gabriella Nuzzi, Dionigio Verasani e Luigi De Magistris, relativo alla vicenda delle indagini della Procura di Salerno bloccate da provvedimenti disciplinari adottati dal Consiglio Superiore della Magistratura – con tempi e modi che a noi e a tanti appaiono tecnicamente illegittimi – nei confronti dei magistrati inquirenti.

Abbiamo pubblicato – a questo link – il testo del provvedimento di archiviazione.

Esso è particolarmente interessante, perché offre l’ennesima riprova dell’infondatezza degli argomenti addotti dal C.S.M. – e poi anche dalla Corte di Cassazione (la sentenza della Corte è a questo link) – contro i magistrati della Procura di Salerno.

Il trasferimento di quei colleghi e addirittura la sospensione del dr Apicella dalle funzioni e dallo stipendio sono stati disposti con provvedimenti dei quali in altri scritti abbiamo illustrato i profili di infondatezza e di illegittimità.

In quei provvedimenti e nella campagna di stampa che, orchestrata da chi vi aveva interesse, li ha propagandati all’opinione pubblica, si affermano come vere, fra le altre, tre circostanze che sono sempre apparse con tutta evidenza non vere e che il G.I.P. di Perugia ancora una volta si incarica di smentire.

In particolare:

1. non è vero che le perquisizioni disposte dai magistrati di Salerno siano state eseguite in maniera offensiva e/o lesiva della dignità dei magistrati perquisiti (come sostenuto con urla e strepiti in televisione e in ogni dove), essendo vero l’esatto contrario e, cioè, che, come scrive il G.I.P. di Perugia, è «stato compiuto ogni sforzo per rendere meno traumatico possibile lo svolgimento dell’incombente in un contesto di comprensibile disagio»;

2. non è vero che i magistrati di Catanzaro avevano offerto agli inquirenti di Salerno le copie degli atti che essi per molti mesi avevano richiesto invano, essendo vero l’esatto contrario, sicché il sequestro era, per questo e per altri motivi, non solo legittimo, ma addirittura necessario;

3. non è vero che il sequestro disposto dai colleghi Apicella, Verasani e Nuzzi era un sequestro “preventivo”, come sostenuto contro l’evidenza dal C.S.M. e dalla Cassazione, essendo esso, invece, un sequestro “probatorio”.

I provvedimenti del C.S.M. nei confronti dei magistrati di Salerno hanno bloccato le loro indagini e reso vani, nei fatti, i provvedimenti da loro legittimamente adottati e confermati nelle sedi giudiziarie competenti.

Al di là di qualunque opinione che ciascuno può avere sulle ragioni per le quali i Consiglieri del C.S.M. hanno fatto questo, in uno stato democratico la legittimità dei provvedimenti si misura valutando la fondatezza o meno delle motivazioni esposte per giustificarli.

Le motivazioni addotte dal C.S.M. prima e dalla Corte di Cassazione poi nel caso dei colleghi Apicella, Verasani e Nuzzi appaiono sotto diversi profili palesemente infondate.

Cosa tutto questo significhi per la magistratura e per il Paese ognuno può agevolmente comprenderlo.

A noi, in questo tempo nel quale gli abusi di potere e del potere sembrano diventati parte della Costituzione materiale del Paese, resta l’amarezza più profonda per avere dovuto assistere a una delle più clamorose interferenze del potere – interno ed esterno alla magistratura – sull’indipendenza dei magistrati e sul loro lavoro, non solo senza che questo suscitasse una virile e clamorosa indignazione della magistratura associata e delle istituzioni preposte ai controlli di legalità, ma addirittura con l’avallo esplicito di tutti costoro.

L’epurazione dei colleghi Apicella, Verasani e Nuzzi con una procedura disciplinare nella quale i loro diritti di difesa sono stati compressi oltre ogni pensabilità costituisce, a nostro modo di vedere, un vulnus gravissimo e definitivo su qualunque speranza di indipendenza dei magistrati.

Oltre che, ovviamente, una grave ingiustizia nei confronti dei colleghi Apicella, Verasani e Nuzzi, rei di avere onorato con coraggio e coerenza i loro doveri professionali.



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Il testo dell'archiviazione del G.I.P. di Perugia delle accuse a carico dei magistrati di Salerno



Pubblichiamo, a questo link, il testo del decreto con il quale il Giudice per le Indagini Preliminari di Perugia ha archiviato le accuse a carico dei pubblici ministeri di Salerno dottori Luigi Apicella, Dionigio Verasani e Gabriella Nuzzi.





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martedì 15 settembre 2009

Le intercettazioni telefoniche e gli “evidenti indizi” di colpevolezza






di Michele Leoni
(Giudice del Tribunale di Forlì)





La norma del disegno di legge 1611 (che contiene il nuovo testo sulle intercettazioni telefoniche e che il Parlamento dovrebbe discutere in autunno), secondo la quale solo in presenza di “evidenti indizi di colpevolezza” si potrebbe procedere a intercettazioni, salvi i casi di reati particolarmente gravi (quelli di cui all’art. 51 commi 3 bis e 3 quater c.p.p., ossia mafia, terrorismo, prostituzione minorile e altri) per i quali basterebbero sufficienti indizi di reato, ha sollevato obiezioni critiche piuttosto ovvie.

Anzitutto ci si è chiesti come lo stesso presupposto che sta alla base di una misura cautelare e anche di una sentenza di condanna, ossia gli evidenti (rectius, gravi) indizi di colpevolezza, possa essere, nel contempo, quello che consente l’inizio di un’attività di ricerca della prova.

In effetti è un nonsense. Se già vi è una persona gravemente indiziata, che bisogno c’è, ormai, di intercettarla?

E inoltre, occorre che vi sia già un indiziato grave per intercettare altre persone?

Secondo quale logica si potrebbe intercettare una persona non indiziata solo se vi è già una persona indiziata?

Quale principio si nasconderebbe dietro questa regola?

Non v’è traccia di un simile principio nel sistema penale, e tanto meno nella Costituzione. Non dovrebbe quindi essere così.

Qui già si annida un vizio di ragionevolezza.

Ma per capire meglio, è bene spostare la questione su un piano un po’ più tecnico.

Partiamo da una considerazione semplice. Come detto, l’ammissibilità delle intercettazioni viene graduata assumendo presupposti diversi, la colpevolezza (per i reati meno gravi) e il fatto-reato (per i reati più gravi). Ossia, presupposti eterogenei.

Sappiamo tutti che la colpevolezza è un dato soggettivo che riguarda la persona, il reato un dato ontologico che si identifica nel fatto.

La Corte Costituzionale, è bene ricordarlo, in una sentenza ormai storica (richiamata più volte dalla stessa Corte nella propria giurisprudenza sulle intercettazioni), la n. 34 del 1973, ha affermato che nell’art. 15 della Costituzione “trovano protezione due distinti interessi, quello inerente alla libertà ed alla segretezza delle comunicazioni, riconosciuto come connaturale ai diritti della personalità definiti inviolabili dall’art. 2 Cost., e quello connesso all’esigenza di prevenire e reprimere i reati, vale a dire ad un bene anch’esso oggetto di protezione costituzionale”.

Il bilanciamento, quindi, è fra tutela della privacy e necessità di reprimere reati, ossia fatti.

La stessa Corte Costituzionale, di recente (sentenza n. 455 del 2006), in relazione ad alcune norme di procedura penale (ammissione al patteggiamento, proroga delle indagini), ha poi ricordato che “il trattamento (processuale) più o meno rigoroso da riservare alle singole fattispecie criminose” deve essere “connesso all’allarme sociale generato dai singoli reati, il quale non è necessariamente correlato al mero livello della pena edittale”.

Il sindacato di legittimità costituzionale, ha aggiunto la Corte, potrà qui intervenire “allorché la sperequazione normativa tra figure omogenee di reati assuma aspetti e dimensioni tali da non potersi considerare sorretta da alcuna ragionevole giustificazione”.

Bene. Va da sé che una rapina genera lo stesso allarme sociale a prescindere dal fatto che già si sappia chi potrebbe essere il colpevole o non lo si sappia.

Anzi, fino a quando un criminale resta ignoto, l’allarme sociale dovrebbe essere maggiore.

Com’è possibile allora agganciare il livello di allarme sociale destato dal reato a una circostanza estrinseca ed eventuale quale l’individuazione di un indiziato grave?

Significherebbe affermare che, prima di questa individuazione, l’allarme sociale era minore. Qui la logica va a farsi benedire.

Se il fatto reato è quello, l’allarme sociale che esso genera è sempre lo stesso.

Il risultato quindi è un altro vizio di ragionevolezza che si traduce in una lesione del principio di uguaglianza: regimi investigativi diversi a fronte dello stesso presupposto, ossia un fatto che desta un allarme sociale tipico e richiederebbe sempre la stessa tutela sociale.

Ma non è finita qui.

Veniamo ai procedimenti nei confronti di ignoti. Qui, chiaramente, non vi può essere, in radice, alcun indiziato.

La nuova normativa se la cava prevedendo che le intercettazioni possano essere autorizzate solo su richiesta della persona offesa e sulle utenze di questa.

Sorge quindi spontanea la domanda: che fare nel caso di procedimenti contro ignoti per reati dove, strutturalmente, non vi può essere persona offesa? Tipo lo spaccio di stupefacenti? La risposta è che non vi sarà alcuna possibilità di intercettazione.

E ancora, che fare nel caso di reati, tipo la corruzione, in cui persona offesa è lo Stato? Ossia tutti e nessuno?

La risposa è la stessa: non sarà possibile alcuna intercettazione.

Si profila quindi un ennesimo vizio di ragionevolezza sotto forma della disparità di trattamento.

Si potrà intercettare laddove l’allarme sociale sia inferiore rispetto ad altri casi in cui è più alto per il solo fatto che in questi ultimi non è concepibile l’identificazione di una persona offesa.

Per concludere, una considerazione di forte impatto emotivo.

Facciamo l’ipotesi del rapimento di un bambino da parte di un pedofilo o di un trafficante di organi. Art. 605 codice penale, per intendersi.

Le intercettazioni sarebbero l’unico strumento per potere salvare il bambino, ma non sarebbero possibili.

Non si potrebbe intercettare, ad esempio, il proprietario di un’auto sospetta che è stata vista circolare nei pressi del piccolo, o qualcuno che gli aveva riservato delle attenzioni inconsuete. Non si potrebbe inseguire alcuna traccia possibile.

Solo gli esercenti la potestà genitoriale potrebbero essere intercettati, dietro loro richiesta.

Ma nessuno, sapendolo in partenza, sarebbe tanto stupido da telefonare a loro. Morale, con le nuove norme il bambino sarebbe abbandonato a sé stesso.

Perché tutto questo? A vantaggio di quale interesse meritevole di maggior tutela?




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martedì 1 settembre 2009

Il caso Boffo, ovvero delle "informative" per disinformati.

A parlare del caso Boffo si corre il rischio di fare il gioco di qualcuno che almeno l’obiettivo di spostare l’attenzione da magagne ben più significative l’ha sicuramente ottenuto.

Lo facciamo perché ci preme evidenziare ai lettori del blog che, anche questa volta, sono state dette, oltre che diverse e gravissime falsità (come l’avere spacciato una lettera anonima per una “informativa giudiziaria”), tante inesattezze; lo facciamo anche per segnalare alcuni aspetti della vicenda, finora non evidenziati, che destano ulteriori perplessità ed interrogativi.


Si è parlato di “rinvio a giudizio”, si è parlato di “patteggiamento”, si è parlato di “sentenza” (per tutti, si leggano il fondo di Vittorio Feltri su Il Giornale del 28 agosto e l’articolo a firma Gabriele Villa dello stesso giorno sulla stessa testata).

Da quel che emerge dal sedicente – diremo fra breve perché – “certificato generale del casellario giudiziale” di Boffo Dino pubblicato sul giornale di Berlusconi (Paolo?) e spacciato per “sentenza” risulta che non c’è stato alcun “rinvio a giudizio”, non c’è stato alcun “patteggiamento”, non c’è stata alcuna “sentenza”.

Prima di dire che cosa risulti dal sedicente “certificato generale”, si impone di conoscere la contravvenzione di molestia o disturbo alle persone e di sapere cos’è il decreto penale di condanna.

Per quanto riguarda la prima, riportiamo il testo dell’art. 660 c.p.: Molestia o disturbo alle persone – “Chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo è punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda fino a euro 516”.

Quanto al decreto penale di condanna, bisogna sapere che nel nostro sistema processuale penale esiste un procedimento speciale, adottabile per i reati meno gravi che possono in concreto essere puniti con la sola pena pecuniaria (multa per i delitti e arresto per le contravvenzioni), definito dal legislatore procedimento per decreto (disciplinato dagli artt. da 459 a 464 c.p.p.).

In sintesi, il procedimento funziona così:

- il Pubblico Ministero, trasmettendo al Giudice (per le indagini preliminari) il fascicolo delle indagini, gli chiede di condannare per un certo fatto ad una certa pena una certa persona, la quale non sa nulla di questa richiesta;

- il G.i.p., se ritiene che il fatto risulta dimostrato dagli atti trasmessigli dal P.M. e se ritiene corretta la qualificazione giuridica data al fatto dallo stesso P.M. e congrua la pena da questi richiesta, emette un provvedimento di condanna alla pena richiesta dal P.M. che assume la forma del decreto e che si chiama, appunto, decreto penale di condanna;

- una volta emesso dal G.i.p., il decreto viene notificato al condannato, che così ne viene a conoscenza;

- il condannato può proporre opposizione al decreto entro un certo termine dal giorno in cui il medesimo gli è stato notificato;

- se l’opposizione non è proposta, il decreto diviene irrevocabile ed esecutivo;

- se invece il condannato propone opposizione si svolge il giudizio ordinario (si procede, cioè, alla raccolta ex novo delle prove davanti al giudice del dibattimento che, all’esito, decide con sentenza) a meno che, con la stessa opposizione, il condannato non chieda il giudizio abbreviato (in tal caso si procede, nel contraddittorio tra le parti, ad un giudizio basato sugli atti delle indagini; con la sentenza, in caso di condanna, a fronte del risparmio legato al mancato svolgimento del dibattimento, la pena da infliggere è diminuita di un terzo) o il c.d. “patteggiamento” (l’interessato trova un accordo con il P.M. su una certa pena, che, evitandosi il giudizio, il legislatore consente possa essere ridotta fino ad un terzo rispetto a quella che sarebbe applicabile in via ordinaria; si chiede l’applicazione della pena concordata al giudice, il quale, se ritiene il tutto rispettoso della legge e congrua la pena richiesta, la applica con una sentenza).

Tanto premesso, dal sedicente “certificato” pubblicato su il Giornale risulta:

- che Boffo è stato condannato alla pena di € 516 di ammenda per avere commesso, nel gennaio 2002 a Terni, un fatto integrante la contravvenzione punita dall’art. 660 c.p. (molestia o disturbo alle persone);

- che la condanna è stata inflitta con un decreto penale emesso dal G.i.p. del Tribunale di Terni il 9 agosto 2004;

- che al decreto penale non è stata fatta opposizione e che esso, pertanto, è divenuto esecutivo in data 1 ottobre 2004;

- che prima ancora che il decreto divenisse esecutivo, precisamente in data 7 settembre 2004, l’ammenda di € 516 era già stata pagata.

Dal sedicente “certificato”, invece, non risulta in che cosa concretamente è consistito il comportamento del Boffo. Per saperlo occorrerebbe leggere il decreto, atto normalmente assai sintetico, dal quale comunque risulta il fatto concreto costituente l’oggetto dell’addebito. I decreti penali, peraltro, sono atti dei quali chiunque può chiedere il rilascio di copia.

Nessun rinvio a giudizio e nessun giudizio. Il rinvio a giudizio è un atto – che assume la forma del decreto – del procedimento penale ordinario. Lo emette, quando ci sono i presupposti, il Giudice dell’udienza preliminare (G.u.p.) a seguito di una richiesta del PM ed all’esito dell’udienza preliminare che si svolge nel contraddittorio tra le parti. L’udienza preliminare, peraltro, è prevista solo per i procedimenti che riguardano i reati più gravi. Per la contravvenzione punita dall’art. 660 NON è prevista l’udienza preliminare. Il giudizio ordinario, quindi, si svolge senza passare per l’udienza preliminare e, quindi, senza un atto di rinvio a giudizio del giudice ma con citazione diretta a giudizio da parte del P.M.. Ad ogni modo, nel caso Boffo, come visto, non si è seguito il procedimento ordinario ma, come di fatto accade in tutti i casi di questo tipo, il procedimento speciale per decreto.

Nessun patteggiamento. Come abbiamo visto, Boffo ha pagato l’ammenda inflittagli con il decreto penale; non ha fatto opposizione e non c’è stato, quindi, alcun patteggiamento.

Nessuna sentenza. Boffo, ribadiamo, è stato condannato con un decreto penale al quale non ha fatto opposizione. Pertanto, non si è giunti al giudizio e non c’è stata alcuna sentenza.

Va detto, a questo punto, che il decreto penale di condanna, al pari di una sentenza di condanna emessa all’esito di un giudizio, è comunque un atto con il quale si statuisce che l’imputato è colpevole del reato per il quale, con lo stesso decreto, lo si condanna.

E veniamo al sedicente “certificato generale del casellario giudiziale”.

Innanzi tutto, diversamente da quanto qualcuno ha scritto, il documento che è stato pubblicato non è il certificato del casellario giudiziale “di Terni”.

Il certificato del casellario giudiziale di un certo soggetto, infatti, è un documento che può essere formato presso qualsiasi ufficio giudiziario ed esso riporterà, se ce ne sono, tutte le condanne riportate da quel soggetto in Italia, qualunque sia l’ufficio giudiziario o gli uffici giudiziari che abbia o abbiano emesso le condanne. Esemplificando, se Tizio è stato condannato dal Tribunale di Terni, la condanna risulterà dal certificato del casellario giudiziale di Tizio formato presso qualsiasi ufficio giudiziario italiano.

Detto questo, il “certificato” in questione presenta qualche particolare o dettaglio che ci inducono a dubitare che effettivamente si tratti di un vero certificato del casellario giudiziale.

Vi è, innanzi tutto, una certa stranezza esterna del documento: il formato non ci sembra corrispondente a quello dei certificati che quotidianamente vediamo tra le carte del nostro lavoro. Molto molto sorprendente è lo stranissimo riferimento ad un sedicente “ufficio locale di …”, denominazione assolutamente sconosciuta all’organizzazione giudiziaria.

Vi è poi un’incongruenza interna al documento: il “certificato” reca, da un lato, l’intestazione “Procura della Repubblica” (in alto sotto lo stemma della Repubblica italiana) e, dall’altro, la sottoscrizione “Il Cancelliere” (in basso a destra). Come è noto, però, nelle Procure della Repubblica non ci sono cancellerie e non vi prestano servizio “cancellieri” ma, semmai, ci sono segreterie alle quali sono addetti segretari.

Infine, merita una considerazione la scelta processuale di Boffo di non proporre opposizione al decreto penale.

La contravvenzione punita dall’art. 660 c.p. rientra tra quelle per le quali l’art. 162 bis c.p. consente il ricorso al beneficio dell’oblazione, ossia un meccanismo premiale che consente di estinguere il reato mediante il pagamento di una somma corrispondente alla metà del massimo dell’ammenda stabilita dalla legge. Insomma, il direttore dell’Avvenire, proponendo opposizione al decreto penale, avrebbe potuto chiedere di essere ammesso all’oblazione e, pagando la metà del massimo dell’ammenda stabilita dall’art. 660 c.p. – ossia, in concreto, metà della somma che ha effettivamente pagato –, estinguere il reato, sicché il procedimento si sarebbe concluso con una sentenza di non doversi procedere per intervenuta estinzione del reato.

Se fosse stata percorsa questa strada, sul certificato del casellario giudiziale di Boffo Dino oggi risulterebbe “NULLA”. Sorprende che una persona sicuramente avveduta come il direttore dell’Avvenire, che pensiamo potrà essersi avvalso del consiglio dei migliori avvocati, non abbia fatto ricorso a tale possibilità.

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