giovedì 29 ottobre 2009

APPELLO ALLA PROCURA GENERALE PRESSO LA SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE ED ALLA SEZIONE DISCIPLINARE DEL CSM

In questi giorni circolano "appelli" di vario contenuto, rivolti da alcuni magistrati al mondo politico-istituzionale, affinché sia maggiormente rispettata l'indipendenza della giurisdizione. Essi guardano alla indipendenza cd. "esterna", quella cioè che preserva i magistrati da interferenze provenienti da poteri diversi dall'ordine giudiziario.

Riteniamo altrettanto allarmanti i segnali che il potere interno alla magistratura ha inviato ad alcuni magistrati impegnati in delicate e complesse inchieste, alcune delle quali riguardanti anche esponenti dello stesso ordine giudiziario.

Il troppo tempestivo allontanamento di alcuni magistrati dai loro compiti è apparso a molti come un'interferenza indebita sui processi in corso. E' stata, cioè, messa in discussione l'indipendenza cd. "interna", quella che permette al singolo magistrato di applicare la legge e di non subire condizionamenti, neppure se hanno origine all'interno del suo stesso ordine di appartenenza. Ecco il motivo di questo appello che è aperto alla sottoscrizione di tutti i frequentatori del blog. L'indipendenza del magistrato, infatti, è un bene intangibile del quale sono titolari tutti i cittadini, in nome dei quali la giustizia è amministrata.

La riforma della materia disciplinare, di recente introduzione, non ha mancato di sollevare perplessità e preoccupazioni sin dalle sue prime sperimentazioni pratiche.

In particolare, è apparso serio il rischio che il nuovo istituto delle misure cautelari disciplinari, applicabili all'esito di una procedura oltremodo sommaria, interferisca sui procedimenti giudiziari in corso provocando l'allontanamento del magistrato dalle sue funzioni, e quindi dal processo a lui affidato secondo criteri legali.

Il sindacato disciplinare dei provvedimenti giudiziari, esercitato con parametri piuttosto vaghi come quelli della “correttezza”, quando non della ”opportunità”, dagli esiti spesso difformi dai vagli giurisdizionali compiuti nelle sedi naturali, genera una sorta di “doppio binario” in virtù del quale l'atto giudiziario, immune da vizi in sede processuale, diviene - a torto o a ragione - patologico in quella disciplinare.

L'impiego del nuovo strumentario disciplinare, per come manifestatosi nelle sue prime attuazioni pratiche, mette in crisi il principio di soggezione del giudice alla legge e, attraverso il drastico esonero del magistrato dalle sue funzioni, anche quello del giudice naturale.

Un sistema che si fonda sulla competenza legalmente predeterminata dei magistrati, ai quali gli affari sono assegnati secondo rigorosi criteri oggettivi, così come non tollera la sottrazione del processo al suo magistrato, mal sopporta la sommaria sottrazione del magistrato al processo.

Del resto, l'accertamento della responsabilità disciplinare del magistrato non può e non deve ambire a prevenirne gli eventuali abusi in un singolo procedimento, evenienza alla quale l'ordinamento risponde adeguatamente sia con i controlli interni al processo, sia con la giurisdizione penale alla quale i magistrati sono soggetti come tutti gli altri cittadini, non essendo ammesse zone immuni dal controllo di legalità.

Di qui un appello affinché il ricorso alle misure cautelari ad opera degli Organi della Giustizia Disciplinare si conformi ai fondamentali principi regolatori della giurisdizione, in modo che nessuno possa ipotizzare che il suo corso naturale ne sia indebitamente influenzato.





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domenica 25 ottobre 2009

Speranze di un cattivo magistrato

di Gabriella Nuzzi

da Il Fatto Quotidiano del 25 ottobre 2009



La scena finalmente si chiude, cala il sipario nero.
Regista ed attori tirano un respiro di sollievo: ancora un’ottima interpretazione, il pubblico può ritenersi soddisfatto. Giustizia è fatta.

Ma la platea è muta, nessuno plaude.

L’epilogo è paradossale, grottesco.

Due magistrati della Procura della Repubblica di Salerno sono stati severamente puniti dalla Sezione Disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura. Esautorati delle loro funzioni inquirenti, allontanati dalla sede in cui le esercitano. Cassato un pezzo di vita professionale. Ore, giorni, mesi dedicati, in silenzio, con scrupolo, a studiare carte, leggi, sentenze; a scrivere, indagare, nel tentativo di amministrare giustizia. Una Giustizia eguale per tutti.
Tempo sprecato.

I giudici disciplinari, che non avevano mai fatto mistero del proprio convincimento e chiaramente interessati al celere seppellimento della vicenda, possono finalmente veder consacrato il proprio verdetto.

Dunque, ora, non mi resta che prenderne atto: sono ufficialmente inserita nella lista nera dei cattivi magistrati.


Perché, nel legittimo esercizio delle mie funzioni istituzionali, ho osato indagare su altri magistrati -quelli del distretto di Catanzaro- per gravi delitti di corruzione in atti giudiziari, abuso d’ufficio, falso ideologico, omissione in atti d’ufficio, favoreggiamento, calunnia, diffamazione e quant’altro, connessi all’illegale sottrazione al Pubblico Ministero titolare, dott. de Magistris, delle inchieste POSEIDONE e WHY NOT e alla loro successiva disintegrazione.
Ho osato, come era mio obbligo, sequestrare atti e documenti processuali integranti il “corpo” di quei reati. Ho osato perquisire abitazioni e uffici dei magistrati indagati, per ricercare tracce e cose pertinenti ai reati, necessarie al loro accertamento.

Ho osato raccogliere e riscontrare minuziosamente decine e decine di denunce del Pubblico Ministero a cui le inchieste erano state sottratte, reo, anche lui, di aver scoperto il sistema di illecite cointeressenze che domina la gestione del denaro pubblico nel nostro Paese.
Ho osato fare i nomi e i cognomi dei presunti appartenenti a quel sistema e di coloro che, direttamente o indirettamente, ne avrebbero permesso il funzionamento.
Ho osato voler a tutti i costi applicare la legge, senza capire, assai imprudentemente, che nel mio “mestiere” il principio costituzionale dell’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge non vige così rigorosamente, sempre e per tutti.

Esiste un superiore principio non scritto, di ordine “deontologico”, che è quello dell’Opportunità.
Avrei, cioè, dovuto chiedermi e non l’ho fatto: è proprio opportuno che indaghi il magistrato Tizio, il politico Caio, l’imprenditore Sempronio, il faccendiere Mevio? è proprio necessario perquisirne abitazioni e uffici, sequestrare carte e documenti ?
La risposta è variabile, dipende dalle circostanze. A volte è opportuno e necessario, altre, invece, non lo è.
Perché, mi dicono, la diligenza di un bravo magistrato si misura sulla sua prontezza di riflessi, sulla velocità nell’intuire quando è il caso di poter agire e quando non lo è affatto; sulla sua capacità di interpretare i segnali; di ricorrere a diplomazia e compromessi; di interloquire e persuadere; di attendere che i tempi di indagini lentamente scadano; di saper selezionare e, infine, archiviare.
E la sua correttezza sta nell’evitare di fare i nomi e i cognomi di illustri colleghi, politici, imprenditori, perché, anche quando sembra indispensabile riscontrarne il coinvolgimento, in fondo è una questione di privacy. E chi denuncia potrebbe essere sempre, dietro mentite spoglie, un folle congiuratore, anche se si riscontra che, purtroppo, è sincero.
Merito, dunque, una lezione. Mai eccedere nel perseguire fini di giustizia!
Si spera, per me, che io abbia inteso, una sola volta e per sempre.

Lo ammetto, ignoravo l’esistenza di tali singolari regole “deontologiche”, regole non scritte, sulle quali, pare, debba misurarsi la professionalità del magistrato.
Ma, ad essere seri, qui mi sembra che la vera deontologia non c’entri proprio un bel niente e sarebbe assai dignitoso per la nostra categoria non tirarla neppure in ballo.

Qui, invece, si tratta di capire le ragioni vere per cui tre magistrati della Procura della Repubblica di Salerno, legittimamente e doverosamente impegnati a far luce su un devastante sistema di corruzioni e collusioni giudiziarie, siano stati “fatti fuori” con gli strumenti della nuova legge disciplinare, pagando un prezzo altissimo per la loro autentica indipendenza, politica e associativa.
Si tratta di capire perché, al di là della vergognosa farsa della “guerra tra Procure” (una favoletta che amano raccontare ormai solo a se stessi, dai sicuri effetti tranquillizzanti e catartici) gli organi disciplinari stiano consentendo ad altri magistrati, indagati per gravi fatti di corruzione in atti giudiziari, falso ideologico, abuso d’ufficio, favoreggiamento e quant’altro, e autori anche di illecite attività ai danni dei loro indagatori, di continuare impunemente ad amministrare giustizia nei contesti criminosi oggetto delle indagini della Procura di Salerno.

C’è dunque da chiedersi: quali superiori principi di “deontologia professionale” vigono per costoro? quale eccezionale criterio di ragionevolezza ha indotto i supremi organi disciplinari a non intervenire anche in questo caso con gli strumenti cautelari e a perseverare in tale insensata omissione?
Esistono forse equilibri di poteri -politici, giudiziari, criminali- da dover preservare e che non conosciamo e non possiamo conoscere?
E chi ne sarebbero gli inamovibili garanti? Chi gli “eversori” da punire e cacciare?
Esiste forse un modus operandi, diverso da quello del contrasto aperto e diretto al crimine organizzato di ogni livello, che tende, invece, sottobanco, all’accordo e al compromesso e che serve a salvaguardare occulti sistemi di interessi?

C’è uno sfondo, in questa nostra vicenda, che si finge di non vedere; o forse, semplicemente, fa troppo paura guardare.
Credo, però, che i cittadini della Repubblica Italiana abbiano oggi il diritto di sapere a che gioco stanno giocando gli apparati istituzionali, soprattutto, perché quel gioco baro danneggia la vita di uomini integri, il cui solo scopo è servire lo Stato.
La ricerca della verità sul nostro passato di sangue è un passo fondamentale per comprendere quale sia l’attuale stato delle istituzioni democratiche, come si sia giunti ad esso, quali i meccanismi di reale funzionamento.

Ma occorre anche il coraggio del rinnovamento.
Un rinnovamento al quale la magistratura, che di questo nostro Stato Repubblicano è un pilastro fondamentale, non può restare estranea.
Sono necessarie e urgenti riforme serie che servano non a renderla inerme, ma a conferirle forza di autentica indipendenza dagli inevitabili condizionamenti del potere politico o criminale.
Occorrono soluzioni e strumenti in grado di preservarla anche dal suo interno, liberandola dagli effetti di dipendenza psicologica che, sull’esercizio delle funzioni giudiziarie, può di fatto produrre un’impropria strumentalizzazione dei meccanismi di nomina, promozione, assegnazione di incarichi extra-giudiziari, o per converso, di disciplina, che incidono direttamente sulla vita personale e professionale dei magistrati.

La nostra amara vicenda, che segue quelle di tanti altri colleghi, molti dei quali dimenticati o ignorati, dimostra quanto basso sia il punto in cui versa l’attuale “autogoverno” e quanto distante sia dai nobili intendimenti dei Padri Costituenti.
Un “autogoverno” ormai completamente prigioniero delle logiche di appartenenza e spartizione politica; in cui ruoli amministrativi e giurisdizionali si sovrappongono e si confondono in un tutt’uno; ove la regola dell’imparzialità vale solo per gli altri e il rispetto delle prerogative difensive ha il senso di un optional; ove non esistono più spazi di affermazione e tutela per magistrati davvero liberi e indipendenti, costretti all’isolamento dalla prepotenza degli schieramenti correntizi.

E ancor più forte è divenuto il bisogno, diffusamente avvertito eppur timidamente sussurrato, di un organo “sindacale” nuovo, in grado di assicurare tutela effettiva ai diritti del magistrato in quanto pubblico impiegato, capace di aprirsi ed interloquire con la società civile, per saperne cogliere le problematiche e le reali esigenze; un organo che non necessiti di tesseramenti, autenticamente autonomo e libero da condizionamenti politici, da ambizioni carrieristiche o di potere.

Mi piacerebbe avvertire questo sussulto di rinnovamento, davvero “democratico”, per la nostra categoria.

Mi auguro, da buon cattivo magistrato, che l’assordante e granitico silenzio, in cui si è chiuso l’ordine giudiziario riguardo alla vicenda salernitana, serva almeno alla riflessione.

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venerdì 23 ottobre 2009

Il Coniglio Superiore




di Marco Travaglio
(Giornalista)



da Il Fatto Quotidiano del 23 ottobre 2009


Che gioia leggere l’intemerata di Mancino contro il linciaggio del giudice Mesiano e il “clima invivibile” dove “più il potere è forte e più può intimidire”.

Che gaudio apprendere che il presidente Napolitano e vigile e “consapevole delle inquietanti connotazioni della vicenda”.

Che tripudio le feroci motivazioni con cui il Csm ha approvato la “pratica a tutela” del giudice della causa Mondadori contro attacchi che “possono condizionare ciascun magistrato, in particolar modo allorquando si tratti di decidere su soggetti di rilevanza economica e istituzionale”.

Gliele hanno cantate chiare, a Berlusconi e ai suoi killer.

E questo giornale, dopo la campagna dei calzini turchesi, sottoscrive parola per parola.

Con una postilla, però. Mentre il plenum del Csm apriva la sacrosanta pratica a tutela di Mesiano, la sezione disciplinare condannava i magistrati salernitani Gabriella Nuzzi e Dionigio Verasani alla perdita delle funzioni di pm e dell’anzianita (6 e 4 mesi) e al trasferimento d’ufficio.

Trasloco già disposto in sede cautelare all’inizio dell’anno, quando i due reprobi furono cacciati su due piedi da Salerno (insieme al loro capo Luigi Apicella, poi dimessosi dalla magistratura) e scippati dell’inchiesta sulla fogna politico-affaristico-giudiziaria di Catanzaro.

I due erano colpevoli di aver trovato le prove di quanto denunciava Luigi De Magistris sulla cupola calabro-lucana che l’aveva estromesso dalle sue indagini: per tre anni era stato attaccato da destra, dal centro e da sinistra, poi era stato isolato dai suoi capi e colleghi, infine il Csm unanime l’aveva espulso da Catanzaro e dalle funzioni di pm.

Un anno fa la Procura di Salerno scoprì che aveva ragione lui, andò a sequestrare a Catanzaro le carte delle sue inchieste insabbiate, indagò i magistrati che le stavano insabbiando e si ritrovò tutti contro: capo dello Stato (che incredibilmente chiese gli atti dell’inchiesta in piena perquisizione), Mancino, partiti di destra, centro e sinistra, stampa e tg Anm e Csm.

Tutti a ripetere che l’ordinanza di Salerno era “abnorme” (troppe pagine, non si fa).

Poi il Riesame e il Tribunale di Perugia la ritennero doverosa e disposta solo “a fini di giustizia”.

Ma chissenefrega: i due pm vengono giustiziati lo stesso, senza nemmeno sentire i loro testimoni.

Processo sommario, alle spicce.

Anche Clementina Forleo, rea di aver intercettato lo sgovernatore Fazio e i trasversalissimi furbetti del quartierino, e per giunta di aver difeso De Magistris ad Annozero, fu prima aggredita da destra, dal centro, da sinistra, dal basso e dall’alto su su fino al Quirinale, poi isolata, infine fucilata come una mezza matta dal plotone di esecuzione del Csm e trasferita a Cremona (sentenza poi annullata dal Tar perché illegale).

Ce n’era abbastanza perché, anche nei casi Forleo, De Magistris, Nuzzi, Verasani e Apicella, il presidente Napolitano lacrimasse sulle “inquietanti connotazioni della vicenda”, il vicepresidente Mancino denunciasse “il clima invivibile e intimidatorio”, il Csm tuonasse contro “i condizionamenti per ciascun magistrato, in particolar modo allorquando si tratti di decidere su soggetti di rilevanza economica e istituzionale”.

Invece, in quei casi, Napolitano, Mancino e il Csm stavano con i soggetti di rilevanza economica e istituzionale, dunque contro i magistrati.

Il Csm avrebbe dovuto tutelarli dal Csm. Cioè aprire una pratica a loro tutela contro se stesso.

Poi, per fortuna, Berlusconi è tornato ad attaccare un giudice.

E il Csm è tornato a fare il Consiglio Superiore della Magistratura.

Purtroppo, fino al giorno prima, era l’acronimo di Ciechi Sordi Muti.




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Le dimissioni di Luigi De Magistris dall'Ordine Giudiziario




di Luigi De Magistris
(Deputato del Parlamento Europeo)





da Il Fatto Quotidiano dell’1 ottobre 2009



Al Sig. Presidente della Repubblica
Piazza del Quirinale
ROMA



Signor Presidente,

scrivo questa lettera a Lei soprattutto nella Sua qualità di Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura.

E’ una lettera che non avrei mai voluto scrivere.

E’ uno scritto che evidenzia quanto sia grave e serio lo stato di salute della democrazia nella nostra amata Italia.

E’ una lettera con la quale Le comunico, formalmente, le mie dimissioni dall’Ordine Giudiziario.

Lei non può nemmeno lontanamente immaginare quanto dolorosa sia per me tale decisione.

Sebbene l’Italia sia una Repubblica fondata sul lavoro – come recita l’art. 1 della Costituzione – non sono molti quelli che possono fare il lavoro che hanno sognato; tanti il lavoro non lo hanno, molti sono precari, altri hanno dovuto piegare la schiena al potente di turno per ottenere un posto per vivere, altri vengono licenziati come scarti sociali, tanti altri ancora sono cassintegrati.

Ebbene, io ho avuto la fortuna di fare il magistrato, il mestiere che avevo sognato fin dal momento in cui mi iscrissi alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università “Federico II” di Napoli, luogo storico della cultura giuridica.

La magistratura ce l’ho nel mio sangue, provengo da quattro generazioni di magistrati. Ho respirato l’aria di questo nobile e difficile mestiere sin da bambino.

Uno dei giorni più belli della mia vita è stato quando ho superato il concorso per diventare uditore giudiziario.

Una gioia immensa che mai avrei potuto immaginare destinata a un epilogo così buio.

E’ cominciata con passione, idealità, entusiasmo, ma anche con umiltà ed equilibrio, la missione della mia vita professionale, come in modo spregiativo la definì il rappresentante della Procura Generale della Cassazione durante quel simulacro di processo disciplinare che fu imbastito nei miei confronti davanti al Csm.

Per me, esercitare le funzioni giudiziarie in ossequio alla Costituzione Repubblicana significava tentare di dare una risposta concreta alla richiesta di giustizia che sale dai cittadini in nome dei quali la Giustizia viene amministrata.

Quei cittadini che – contrariamente a quanto reputa la casta politica e dei poteri forti – sono tutti uguali davanti alla legge.

Del resto Lei, signor Presidente, che è il custode della Costituzione, ben conosce tali inviolabili principi costituzionali e mi perdoni, pertanto, se li ricordo a me stesso.

I modelli ai quali mi sono ispirato sin dall’ingresso in magistratura – oltre a mio padre, il cui esempio è scolpito per sempre nel mio cuore e nella mia mente – sono stati magistrati quali Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Ed è nella loro memoria che ho deciso di sventolare anch’io l’agenda rossa di Borsellino, portata in piazza con immensa dignità dal fratello Salvatore.

Ho sempre pensato che chi ha il privilegio di poter fare quello che sogna nella vita debba dare il massimo per il bene pubblico e l’interesse collettivo, anche a costo della vita.

Per questo decisi di assumere le funzioni di Pubblico Ministero in una sede di trincea, di prima linea nel contrasto al crimine organizzato: la Calabria. Una terra da cui, in genere, i magistrati forestieri scappano dopo aver svolto il periodo previsto dalla legge e dove invece avevo deciso (ingenuamente) di restare.

Ho dedicato a questo lavoro gli anni migliori della mia vita, dai 25 ai 40, lavorando mai meno di dodici ore al giorno, spesso anche di notte, di domenica, le ferie un lusso al quale dover spesso rinunciare.

Sacrifici enormi, personali e familiari, ma nessun rimpianto: rifarei tutto, con le stesse energie e il medesimo entusiasmo.

In questi anni difficili, ma entusiasmanti, in quanto numerosi sono stati i risultati raggiunti, ho avuto al mio fianco diversi colleghi magistrati, significativi settori della polizia giudiziaria, un gruppo di validi collaboratori. Ho cercato sempre di fare un lavoro di squadra, di operare in pool.

Parallelamente al consolidarsi dell’azione investigativa svolta, però, si rafforzavano le attività di ostacolo che puntavano al mio isolamento, alla delegittimazione del mio lavoro, alle più disparate strumentalizzazioni.

Intimidazioni, pressioni, minacce, ostacoli, interferenze.

Attività che, talvolta, provenivano dall’esterno delle Istituzioni, ma il più delle volte dall’interno: dalla politica, dai poteri forti, dalla stessa magistratura.

Signor Presidente, a Lei non sfuggirà, quale Presidente del CSM, che l’indipendenza della magistratura può essere minata non solo dall’esterno dell’ordine giudiziario, ma anche dall’interno: ostacoli nel lavoro quotidiano da parte di dirigenti e colleghi, revoche e avocazioni illegali, tecniche per impedire un celere ed efficace svolgimento delle inchieste.

Ho condotto indagini nei settori più disparati, ma solo quando mi occupavo di reati contro la Pubblica amministrazione diventavo un cattivo magistrato.

Posso dire con orgoglio che il mio lavoro a Catanzaro procedeva in modo assolutamente proficuo in tutte le direzioni, come impone il precetto costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale, corollario del principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.

La polizia giudiziaria lavorava con sacrifici enormi, perché percepiva che risultati straordinari venivano raggiunti. Le persone informate dei fatti testimoniavano e offrivano il loro contributo. Lo Stato c’era ed era visibile, in un territorio martoriato dal malaffare. Le inchieste venivano portate avanti tutte, senza insabbiamenti di quelle contro i poteri forti (come invece troppe volte accade).

Questo modo di lavorare, il popolo calabrese – piaccia o non piaccia al sistema castale – lo ha capito, mostrandoci sostegno e solidarietà.

Non è poco, signor Presidente, in una Regione in cui opera una delle organizzazioni mafiose più potenti del mondo.

E che lo Stato stesse funzionando lo ha compreso bene anche la criminalità organizzata. Tant’è vero che si sono subito affinate nuove tecniche di neutralizzazione dei servitori dello Stato che si ostinano ad applicare la Costituzione Repubblicana.

Non so se Ella, Signor Presidente, condivide la mia analisi. Ma a me pare che – dopo la stagione delle stragi di mafia culminate nel 1992 con gli attentati di Capaci e di via D’Amelio e dopo la strategia della tensione delle bombe a grappolo in punti nevralgici del Paese nel 1993 – le mafie hanno preso a istituzionalizzarsi.

Hanno deciso di penetrare diffusamente nella cosa pubblica, nell’economia, nella finanza. Sono divenute il cancro della nostra democrazia.

Controllano una parte significativa del prodotto interno lordo del nostro paese, hanno loro rappresentanti nella politica e nelle Istituzioni a tutti i livelli, nazionali e territoriali.

Nemmeno la magistratura e le forze dell’ordine sono rimaste impermeabili.

Si è creata un’autentica emergenza democratica, da sconfiggere in Italia e in Europa.

Gli ostacoli più micidiali all’attività dei servitori dello Stato sono i mafiosi di Stato: quelli che indossano abiti istituzionali, ma piegano le loro funzioni a interessi personali, di gruppi, di comitati d’affari, di centri di potere occulto.

Non mi dilungo oltre, perché credo che al Presidente della Repubblica tutto questo dovrebbe essere noto.

Ebbene oggi, Signor Presidente, non è più necessario uccidere i servitori dello Stato: si creerebbero nuovi martiri; magari, ai funerali di Stato, il popolo prenderebbe di nuovo a calci e sputi i simulacri del regime; l’Europa ci metterebbe sotto tutela.

Non vale la pena rischiare, anzi non serve.

Si può raggiungere lo stesso risultato con modalità diverse: al posto della violenza fisica si utilizza quella morale, la violenza della carta da bollo, l’uso illegale del diritto o il diritto illegittimo, le campagne diffamatorie della propaganda di regime, si scelga la formula che più piace.

Che ci vuole del resto, signor Presidente, per trasferire un magistrato perbene, un poliziotto troppo curioso, un carabiniere zelante, un finanziere scrupoloso, un prete coraggioso, un funzionario che non piega la schiena, o per imbavagliare un giornalista che racconta i fatti?

E’ tutto molto semplice, quasi banale. Ordinaria amministrazione.

Per allontanare i servitori dello Stato e del bene pubblico, bisogna prima isolarli, delegittimarli, diffamarli, calunniarli.

A questo servono i politici collusi, la stampa di regime al servizio dei poteri forti, i magistrati proni al potere, gli apparati deviati dello Stato.

La solitudine è una caratteristica del magistrato, l’isolamento è un pericolo.

Ebbene, in Calabria, mentre le persone rispondevano positivamente all’azione di servitori dello Stato vincendo timori di ritorsioni, spezzando omertà e connivenze, pezzi significativi delle Istituzioni contrastavano le attività di magistrati e forze dell’ordine con ogni mezzo.

Quello che si è realizzato negli anni in Calabria sul piano investigativo è rimasto ignoto, in quanto la cappa esercitata anche dalla forza delle massonerie deviate impediva di farlo conoscere all’esterno. Il resto del Paese non doveva sapere.

Si praticava la scomparsa dei fatti.

Quando però le vicende sono cominciate a uscire dal territorio calabrese, l’azione di sabotaggio si è fatta ancor più violenta e repentina. Invece dello sbarco degli Alleati, c’è stato quello della borghesia mafiosa che soffoca la vita civile calabrese.

L’azione dello Stato produceva risultati in termini di indagini, restituiva fiducia nelle Istituzioni, svelava i legami tra mafia “militare” e colletti bianchi, smascherava il saccheggio di denaro pubblico perpetrate da politici collusi, (im)prenditori criminali e pezzi deviati delle Istituzioni a danno della stragrande maggioranza della popolazione, scoperchiava un mercato del lavoro piegato a interessi illeciti, squadernava il controllo del voto e, quindi, l’inquinamento e la confisca della democrazia.

Sono cose che non si possono far conoscere, signor Presidente.

Altrimenti poi il popolo prende coscienza, capisce come si fanno affari sulla pelle dei più deboli, dissente e magari innesca quella democrazia partecipativa che spaventa il sistema di potere che opprime la nostra democrazia.

Una presa di coscienza e conoscenza poteva scatenare una sana e pacifica ribellione sociale.

Lei, signor Presidente, dovrebbe conoscere – sempre quale Presidente del CSM – le attività messe in atto ai miei danni.

Mi auguro che abbia assunto le dovute informazioni su quello che accadeva in Calabria per fermare il lavoro che stavo svolgendo in ossequio alla legge e alla Costituzione.

Avrà potuto così notare che è stata messa in atto un’attività di indebito esercizio di funzioni istituzionali al solo fine di bloccare indagini che avrebbero potuto ricostruire fatti gravissimi commessi in Calabria (e non solo) da politici di destra, di sinistra e di centro, da imprenditori, magistrati, professionisti, esponenti dei servizi segreti e delle forze dell’ordine.

Tutto ciò non era tollerabile in un Paese ad alta densità mafiosa istituzionale.

Come poteva un pugno di servitori dello Stato pensare di esercitare il proprio mandato onestamente applicando la Costituzione?

Signor Presidente, Lei – come altri esponenti delle Istituzioni – è venuto in Calabria, ha esortato i cittadini a ribellarsi al crimine organizzato e ad avere fiducia nelle Istituzioni.

Perché, allora, non è stato vicino ai servitori dello Stato che si sono imbattuti nel cancro della nostra democrazia, cioè nelle più terribili collusioni tra criminalità organizzata e poteri deviati?

Non ho mai colto alcun segnale da parte Sua in questa direzione, anzi.

Eppure avevo sperato in un Suo intervento, anche pubblico: ero ancora nella fase della mia ingenuità istituzionale.

Mi illudevo nella neutralità, anzi nell’imparzialità dei pubblici poteri.

Poi ho visto in volto, pagando il prezzo più amaro, l’ingiustizia senza fine.

Sono stato ostacolato, mi sono state sottratte le indagini, mi hanno trasferito, mi hanno punito solo perché ho fatto il mio dovere, come poi ha sancito l’Autorità Giudiziaria competente.

Ma intanto l’obiettivo era stato raggiunto, anche se una parte del Paese aveva e ha capito quel che è accaduto, ha compreso la posta in gioco e me l’ha testimoniato con un affetto che Lei non può nemmeno immaginare.

Un affetto che costituisce per me un’inesauribile risorsa aurea.

Ho denunciato fatti gravissimi all’Autorità giudiziaria competente, la Procura della Repubblica di Salerno: me lo imponeva la legge e prima ancora la mia coscienza.

Magistrati onesti e coraggiosi hanno avuto il solo torto di accertare la verità, ma questa ancora una volta era sgradita al potere.

E allora anche loro dovevano pagare, in modo ancora più duro e ingiusto: la lezione impartita al sottoscritto non era stata sufficiente.

La logica di regime del “colpirne uno per educarne cento” usata nei miei confronti non bastava ancora a scalfire quella parte della magistratura che è l’orgoglio del nostro Paese.

Ci voleva un altro segnale forte, proveniente dalle massime Istituzioni, magistratura compresa: la ragion di Stato (ma quale Stato, signor Presidente?) non può tollerare che magistrati liberi, autonomi e indipendenti possano ricostruire fatti gravissimi che mettono in pericolo il sistema criminale di potere su cui si regge, in parte, il nostro Paese.

Quando la Procura della Repubblica di Salerno – un pool di magistrati, non uno “antropologicamente diverso”, come nel mio caso – ha adottato nei confronti di insigni personaggi calabresi provvedimenti non graditi a quei poteri che avevano agito per distruggermi, ecco che il circuito mediatico-istituzionale, ai più alti livelli, ha fatto filtrare il messaggio perverso che era in atto una “lite fra Procure”, una guerra per bande.

Una menzogna di regime: nessuna guerra vi è stata, fra magistrati di Salerno e Catanzaro.

C’era invece semplicemente, come capirebbe anche mio figlio di 5 anni, una Procura che indagava, ai sensi dell’art. 11 del Codice di procedura penale, su magistrati di un altro distretto.

E questi, per ostacolare le indagini, hanno a loro volta indagato i colleghi che indagavano su di loro, e me quale loro istigatore.

Un mostro giuridico. Un’aberrazione di un sistema che si difende dalla ricerca della verità, tentando di nascondersi dietro lo schermo di una legalità solo apparente.

Questa menzogna è servita a buttare fuori dalle indagini (e dalla funzioni di Pm) tre magistrati di Salerno, uno dei quali lasciato addirittura senza lavoro.

Il messaggio doveva essere chiaro e inequivocabile: non deve accadere più, basta, capito?!

Signor Presidente, io credo che Lei in questa vicenda abbia sbagliato.

Lo affermo con enorme rispetto per l’Istituzione che Lei rappresenta, ma con altrettanta sincerità e determinazione.

Ricordo bene il Suo intervento – devo dire, senza precedenti – dopo che furono eseguite le perquisizioni da parte dei magistrati di Salerno.

Rimasi amareggiato, ma non meravigliato.

Signor Presidente, questo sistema malato mi ha di fatto strappato di dosso la toga che avevo indossato con amore profondo.

E il fatto che non mi sia stato più consentito di esercitare il mestiere stupendo di Pubblico ministero mi ha spinto ad accettare un’avventura politica straordinaria.

Un’azione inaccettabile come quella che ho subìto può strapparmi le amate funzioni, può spegnere il sogno professionale della mia vita, può allontanarmi dal mio lavoro, ma non può piegare la mia dignità, né ledere la mia schiena dritta, né scalfire il mio entusiasmo, né corrodere la mia passione e la volontà di fare qualcosa di utile per il mio Paese.

Nell’animo, nel cuore e nella mente, sarò sempre magistrato.

Nella Politica, quella con la P maiuscola, porterò gli stessi ideali con cui ho fatto il magistrato, accompagnato dalla medesima sete di giustizia, i miei ideali e valori di sempre (dai tempi della scuola) saranno il faro del nuovo percorso che ho intrapreso.

Darò il mio contributo affinché i diritti e la giustizia possano affermarsi sempre di più e chi soffre possa utilizzarmi come strumento per far sentire la sua voce.

È per questo che, con grande serenità, mi dimetto dall’Ordine giudiziario, dal lavoro più bello che avrei potuto fare, nella consapevolezza che non mi sarebbe più consentito esercitarlo dopo il mandato politico.

Lo faccio con un ulteriore impegno: quello di fare in modo che ciò che è successo a me non accada mai più a nessuno e che tanti giovani indossino la toga non con la mentalità burocratica e conformista magistralmente descritta da Piero Calamandrei nel secolo scorso, come vorrebbe il sistema di potere consolidato, ma con la Costituzione della Repubblica nel cuore e nella mente.




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Cari colleghi, dove eravate?






di Gabriella Nuzzi
(Giudice del Tribunale di Latina)






Da Il Fatto Quotidiano del 30 settembre 2009


L’imprevedibilità degli eventi, insuperabile limite umano.

Essa ha segnato il cammino della Storia, aprendo ai grandi cambiamenti e alle conquiste di civiltà.

Nell’apparente quiete di un ancient regime ormai assai prossimo alla perfezione, l’imprevedibile è accaduto.

Una falla nel sistema. L’inaspettato logorìo dei meccanismi di controllo.

Meccanismi perversi, criminosi, grazie ai quali gruppi di potere trasversale hanno usurpato posti strategici all’interno delle istituzioni del Paese, generando un tentacolare sovra-apparato che ne plagia il funzionamento democratico per asservirlo al culto del dominio personale e del profitto.

Meccanismi spietati, dietro i quali sono celati i misteri delle innumerevoli stragi della nostra storia repubblicana, servite solo a instillare nel popolo suddito, atterrito e prostrato al bisogno, l’illusione di un governo stabile e forte, in grado di fronteggiare e sconfiggere l’ombra di un apparente nemico, di cui, in realtà, era già prigioniero.

Meccanismi di spionaggio e dossieraggio illegali, micidiali armamenti di un potere senza colore, invisibile e onnipresente, il vero grande Segreto di Stato; impiegati per ordire, con la clava della denigrazione, strategie di annientamento di uomini scomodi impegnati nella ricerca della verità, da seppellire, per sempre, nel sepolcro della grande menzogna.

Imprevedibilmente, quei meccanismi sono impazziti, il controllo è sfuggito di mano.

Dietro la patina scrostata di un mondo surreale, si intravedono, ridotti in macerie, gli antichi spazi di libertà, autonomia, eguaglianza sociale, ai quali i nostri padri hanno donato, nella lotta, le loro semplici vite.

Da ogni parte si levano cori di autorevoli voci; indignate, incitano a levare gli scudi, perché la democrazia è in grave pericolo.

Le forze politiche di opposizione organizzano proteste a difesa della Libera Stampa, l’associazione nazionale delle toghe invoca tutele alla sua indipendenza.

Dov’ erano costoro quando suonavano i primi campanelli d’allarme?

Dov’erano, quando scoppiavano i casi dei colleghi De Magistris e Forleo, impunemente additati come cattivi magistrati; quando, senza decenza, veniva profusa alla pubblica opinione l’enorme bugia della “guerra” tra le Procure di Salerno e Catanzaro?

Dov’era allora la verità?

Eppure, l’evidenza dei fatti era scritta nelle carte, migliaia di atti processuali che raccontano dell’illecita gestione di finanziamenti e appalti, di corruzioni giudiziarie, di indagini avviate e poi sparite nel nulla, di agenzie di sicurezza e organi di informazione, di magistrati controllati, delegittimati, esautorati delle loro funzioni.

Dov’erano quei politici, quelle toghe, le illustri firme del giornalismo italiano che oggi gridano allo scandalo dell’autoritarismo?

La paura li aveva forse paralizzati, rendendoli ciechi, muti, sordi?

Non preferirono, allora, seguire le scorciatoie della denigrazione, degli insulti gratuiti o, ancor peggio, dell’indifferenza e del silenzio, tutti compatti nella irrazionale difesa di simulacri sacri ed inviolabili, da preservare ad ogni costo?

E dov’era la grande “libera stampa” quando si levavano, isolate, le coraggiose voci del dissenso?

Non si adeguò forse anch’essa – né più né meno della “stampa di regime” – ai diktat dell’oscuramento, della mistificazione, dell’omertà e dell’emarginazione, dimostrandosi suddita del proprio padrone?

Certo è che quella verità avrebbe consentito di svelare i meccanismi del sistema e di arrestarne il funzionamento.

Troppo scomoda però, forse perché non partigiana.

Più facile e conveniente espellere i virus e ridurli in quarantena.

Dunque, il tempo delle domande – e delle riflessioni – non è ancora finito.

Sorge il dubbio che le nobili cause, rispolverate oggi con tanto fervore, siano utili a rinvigorire qua e là il consenso in un popolo stanco e stremato.

Intanto, l’imprevedibile può ancora accadere.

Che taccia il chiacchiericcio volgare di chi, assai vigliaccamente, ancora getta acqua al suo mulino per giustificare le nefandezze compiute; che i fatti siano finalmente resi alla pubblica opinione; che le responsabilità siano accertate e punite.

La ricerca della verità accomuna Giustizia e Informazione, ma non è una lucina debole e fioca, che si accende e si spegne all’intermittenza della ipocrisia e della convenienza politica.

E’ un faro immenso, luminosissimo, perennemente fisso sulla coscienza umana, unica vera guida verso un autentico rinnovamento.

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La fotografia è tratta dal sito Realtà Sannita.




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Gli incubi di Alfano







di Bruno Tinti





da Il Fatto Quotidiano del 23 ottobre 2009




Nella relazione al Parlamento sullo stato della giustizia, Alfano ha detto che aveva un incubo: la lunghezza dei processi.

E intollerabile, ha detto, e la riforma che sto preparando vi porrà fine.

Poi i progetti di riforma sono venuti fuori: separazione delle carriere, responsabilità civile dei magistrati (che è già prevista), no alle intercettazioni, no alla Polizia giudiziaria nelle procure, divieto di utilizzare le sentenze definitive in altri processi per gli stessi fatti e furbate del genere.

Queste riforme non accorciano i processi, li allungano.

Per far capire quello che servirebbe davvero, racconto un processo che si è tenuto qualche giorno fa ad Ivrea, cittadina a 36 km da Torino, dove c’è un Tribunale, una Procura, un ufficio Giudici di pace e una Corte d’Assise.

Qui è stato condannato all’ergastolo Domenico Agresta per l’omicidio di Giuseppe Trapasso; una storia di traffico di stupefacenti e di concorrenza tra bande rivali.

Con Agresta erano processati Vincenzo Solli e Maxwell Caratti, tutti accusati di omicidio, porto d’arma e distruzione di cadavere perché, dopo aver sparato a Trapasso, lo hanno bruciato.

Perché questi due non sono stati processati?

Agresta ha chiesto un processo abbreviato, sperando in una diminuzione di pena: in effetti l’abbreviato è un po’ più rapido e semplice perché il giudice può utilizzare le prove raccolte dal pm senza rifarle tutte, come invece succede nel processo normale.

Gli altri invece hanno deciso per il processo normale; e quindi il lavoro è raddoppiato.

Ma la parte drammatica arriva adesso. Agresta, nel suo processo, ha depositato un memoriale in cui racconta che lui ha sparato a Trapasso, che Solli gli ha procurato l’arma ed era con lui quando questi è stato ucciso e che Caratti è arrivato dopo e li ha aiutati a bruciare il cadavere.

Se tutti e tre fossero stati processati insieme, Agresta e Solli si sarebbero presi l’ergastolo e Caratti sarebbe stato condannato agli anni di galera che gli toccavano.

Ma ora per Solli e Caratti si deve fare un altro processo con altre regole.

E queste prevedono che Agresta, che dovrebbe raccontare quello che ha scritto nel suo memoriale, possa rifiutarsi di rispondere: il nostro geniale legislatore, ha inventato una figura particolare, l’imputato testimone (in gergo: impumone) che ha, sì, l’obbligo di testimoniare sugli altri imputati ma solo se il suo processo si è concluso con sentenza definitiva; se no, può dire “mi avvalgo della facoltà di non rispondere”.

Come ho detto, Agresta è stato condannato, però ci sono ancora Appello e Cassazione (e c’è da giurare che ci andrà, visto che si è beccato l’ergastolo); dunque la sua sentenza di condanna non è definitiva; e quindi è ovvio che non accuserà i suoi complici (che sempre fieri delinquenti sono e gliela farebbero pagare): se ne starà zitto e nessuno potrà farci nulla.

Ma c’è il memoriale, in cui Agresta ha raccontato come si sono svolte le cose; quello si può acquisire.

Si, ma solo con “il consenso delle parti” (così dice la legge).

E, secondo voi, gli avvocati di Solli e Caratti daranno il consenso per l’acquisizione di una prova che li incastra?

Adesso, visto che Alfano ha il diritto di dormire in pace, gli suggerisco alcune riforme vere.

Prima di tutto abolire i tribunali piccoli e trasferire tutte le loro risorse nei tribunali grandi.

Si chiama riforma delle circoscrizioni giudiziarie, da 30 anni si dice che si deve fare ma, chissà perché (e gli avvocati che hanno i loro studi nelle città piccoline? e i magistrati capi degli uffici soppressi?), non se ne fa niente.

Poi stabilire che tutti i processi si facciano come si fa il processo abbreviato, quello che ha permesso di dare presto e bene l’ergastolo ad Agresta.

Poi abolire tutte le norme che vietano di utilizzare prove che permetterebbero di condannare un sacco di delinquenti.

Solo che così Berlusconi sarebbe stato già condannato per corruzione dell’avvocato Mills ...

Capisco che Alfano preferisca tenersi i suoi incubi.






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mercoledì 21 ottobre 2009

La scienza inesatta.


Il 19 ottobre scorso Gabriella Nuzzi e Dionigio Verasani sono stati condannati alla perdita dell'anzianità ed al trasferimento d'ufficio dalla Sezione Disciplinare del CSM che, nel gennaio di quest'anno, aveva loro applicato la misura cautelare con procedimento sommario.

La Sezione Disciplinare che ha emesso la sentenza era composta esattamente dagli stessi consiglieri che già si erano pronunciati sulla vicenda adottando la misura cautelare.

Si è ritenuto, cioè, che la pregressa valutazione effettuata in sede sommaria e cautelare non determinasse alcuna incompatibilità rispetto al successivo giudizio a cognizione piena.

Questo sebbene il giudizio disciplinare sia modellato sul codice di rito penale e nonostante l'art. 111 Cost. richieda che ogni processo sia deciso da un giudice ”terzo” rispetto alla regiudicanda.

Per rendere l'idea, è come se il GIP che ha mandato in carcere gli indagati sulla base di indizi fosse poi chiamato a giudicare quegli stessi imputati e, indirettamente, a valutare il proprio precedente operato; infatti l'assoluzione implicherebbe, in assenza di elementi nuovi, un errore del provvedimento cautelare.


Si tratta, come ognuno può vedere, di una opzione interpretativa preoccupante ed in conflitto con i più elementari principi di garanzia operanti in qualsiasi processo.

Tanto fondate sono le perplessità (per non dire lo sgomento) originate da tale inusitato abbandono delle garanzie fondamentali, che la giurisprudenza delle Sezioni Unite della Cassazione - alle quali l'Ordinamento demanda il compito di comporre i contrasti di giurisprudenza - mostra non equivoche manifestazioni di disorientamento.

Senza aggiungere alcun ulteriore commento, riportiamo gli stralci tratti da due pronunce del massimo organo della giurisdizione ordinaria emesse a distanza di poche settimane l'una dall'altra. Si tratta di motivazioni nelle quali la soluzione adottata segue percorsi argomentativi tra loro inconciliabili: o è vero l'uno o è vero l'altro. Per neutralizzare la fondamentale garanzia del giusto processo, la prima afferma che si devono applicare le norme del codice di procedura civile; la seconda quelle del codice di procedura penale, ma non fino in fondo.

L'incertezza delle argomentazioni denota, il più delle volte, un ragionamento logicamente fragile.

Cass. Civ., SS.UU., 8 luglio 2009, 15976
Vanno interpretati restrittivamente infatti i richiami al codice di procedura penale contenuti sia nel D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 16, comma 2 (per l’attività di indagine) sia nel D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 18, comma 4 (per la discussione dibattimentale) perchè, se il legislatore avesse inteso estendere la disciplina processuale penale all’intero procedimento disciplinare, non avrebbe limitato il richiamo a specifiche attività, come le indagini e la discussione dibattimentale. Ne consegue che deve escludersi l’estensibilità di tali richiami anche al libro primo del codice di procedura penale, cui appartengono l’art. 36 e segg., che disciplinano l’incompatibilità del giudice, l’astensione, la ricusazione e il regime d’impugnazione dei relativi provvedimenti. E per tutte le attività che non risultino disciplinate espressamente o per specifico rinvio al codice di procedura penale, deve ritenersi applicabile la disciplina dettata dal codice di procedura civile”.


Cass. Civ., SS.UU., 19 agosto 2009, n. 18374.
La L. 24 marzo 1958, n. 195, art. 6, espressamente prevede che i componenti della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura siano soggetti a ricusazione, ma non ne indica i possibili motivi, i quali vanno pertanto ricercati, in forza del menzionato D.Lgs. n. 109 del 2006, artt. 16 e 18, nelle disposizioni del codice di procedura penale, tuttavia sempre in quanto compatibili. Questo limite non consente di estendere ai procedimenti disciplinari nei confronti di magistrati, tra le ipotesi di incompatibilità determinata da atti compiuti nel procedimento elencate dall'art. 34 c.p.p., quella derivante dall'adozione, come nella specie è avvenuto, di un provvedimento applicativo di una misura cautelare, nel corso delle indagini.”.


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lunedì 19 ottobre 2009

Solidarietà a costo zero.


In questi giorni sulle mailing lists dei magistrati è un effluvio di solidarietà al dott. Mesiano, fatto segno di un ignobile quanto puerile servizio televisivo.

Si contano, infatti, a centinaia i messaggi di sostegno al collega.

Nelle stesse ore Gabriella Nuzzi e Dionigio Verasani vengono condannati dalla Sezione Disciplinare alla sanzione della perdita dell'anzianità e del trasferimento d'ufficio, sorte ancor più grave di quella a suo tempo toccata a Luigi De Magistris.

Le voci dei magistrati levatesi per una parola di conforto verso i pubblici ministeri salernitani si contano sulle dita di una sola mano.

Il perché è presto detto: quando l'indipendenza dei magistrati è aggredita dalle gerarchie interne alla stessa magistratura non è possibile alcuna difesa ed il gregge reagisce col silenzio, sintomo insieme di vergogna e di paura.

Se invece l'ostilità proviene da un luogo al di là del recinto, tutti gli individui del gruppo si indignano e gridano al lupo, sebbene sappiano benissimo che mai nessuno è stato sbranato da un potere non togato.

Solidarizzare, in questi casi, non costa nulla ed anzi rafforza i meriti dell'appartenenza, aiuta a compattarsi.

Individuare un comune nemico esterno è espediente utile a sopire la coscienza e ad evitare di confrontarsi con il problema: il lupo è nel recinto.



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sabato 17 ottobre 2009

Il giudice Mesiano si difende



di Achille


Canale 5 fa pedinare e riprendere di nascosto il giudice Raimondo Mesiano e manda in onda le riprese facendo sostenere a un tal Claudio Brachino, ritenuto “giornalista”, che è veramente stravagante che un magistrato cammini a piedi per la città e vada dal barbiere, aspettando correttamente il suo turno, rispettando il semaforo per strada e, addirittura, attraversando sulle strisce pedonali (ma dove andremo a finire, signora mia!).

Il filmato si conclude con una scena veramente stupefacente: il collega Mesiano che – cosa davvero inaudita! – si siede su una panchina e si fuma una sigaretta.

Mi auguro che il C.S.M. sospenda al più presto dalle funzioni e dallo stipendio un giudice tanto assurdo.

Lui, Mesiano, però, si difende e dichiara: “Quelle mandate in onda su Canale 5 sono riprese parziali. Io non sono come mi hanno descritto. Ho anche io una vita normale come tutti: faccio festini nelle mie ville, vado a puttane e organizzo orge con minorenni”.

Certo, se questo che dice Mesiano fosse vero, Canale 5 dovrà chiedergli scusa e proporlo al Capo per una candidatura importante a qualcosa di molto istituzionale.

______

P.S. - Ovviamente le parole riportate sopra fra virgolette non sono davvero del dr Mesiano. Si tratta solo di una ipotesi scherzosa.




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Al servizio del capo



di Michele Serra
(Giornalista)



da Repubblica.it del 17 ottobre 2009


Il video sul giudice Mesiano andato in onda su Canale 5 è spaventoso, e lo è qualunque sia la sua genesi giornalistica.

È spaventoso se il suo impressionante effetto minatorio discende da un’intenzione consapevole.

Ma è spaventoso anche se siamo di fronte a un gioco cretino, come di chi padroneggia malamente un’arma e credendo di sparare a salve esplode pallottole vere.

Il testo, di livello perfino più basso di quel sub-giornalismo che è il gossip televisivo, farebbe propendere per la seconda ipotesi: un gioco cretino sfuggito di mano.

Ma la costruzione del servizio (pedinamento di un magistrato ritenuto “nemico” del proprio editore, così da indicarlo all’odio e al dileggio della propria curva tifosa), e la sua messa in onda nel programma mattutino della rete generalista di Mediaset, con tanto di commento demolitore (e “senza contraddittorio”, come dice l’onorevole Gasparri quando attacca la Rai) di due giornalisti del gruppo, impedisce di credere che si tratti di un banale incidente.

Il clima di forte scontro politico non può essere un alibi.

Non è il cozzo delle idee, non la polemica ideologica a dettare questo genere di colpi sotto la cintura.

È la volontà di attaccare e isolare personalmente, quasi uno per uno, quelli che il leader e padrone considera gli avversari veri e presunti, e dunque esercita, sui meno sereni e meno liberi dei suoi dipendenti, una doppia attrazione, politica ed economica.

In una confusione oramai patologica, irreversibile e venefica (per il paese intero) tra patrimonio politico e patrimonio personale del Capo.

È la voglia di andare a stanare dal barbiere Mesiano, sputtanarlo (verbo berlusconiano) con qualche sciatta considerazione sul suo abbigliamento del sabato mattina, dargli dello “stravagante” perché fuma (?!), evitare che anche una sola parola sia spesa in sua difesa (nel vituperato “Annozero” i giornalisti e i politici di destra hanno una postazione fissa), perché distruggere la persona è il sistema più rapido per risolvere i contenziosi, e levare di mezzo l’ingombro.

O si trova, come nel caso del già dimenticato Boffo, qualche vecchia carta per dare fuoco alla pira, o si confeziona qualcosa di comunque infamante, per esempio spacciando una promozione pregressa per un “premio” (e di chi?) per la sentenza Cir.

Il tutto, per giunta, sotto l’equivoco, ipocrita pretesto della “legittima difesa”, perché l’argomento prediletto da chi pratica questo genere di pestaggio giornalistico è che anche l’attacco a Berlusconi è un attacco alla persona: come se la condotta di vita del presidente del Consiglio, i criteri con i quali dispensa le candidature, il genere di persone delle quali si circonda a palazzo, non fossero quanto di più pubblico si possa immaginare.

Ma il clima è questo.

È un clima nel quale chi governa, chi comanda, chi vanta la maggioranza dei voti e il controllo del Parlamento, si rivolge agli oppositori come se fossero insopportabili oppressori del cui giogo, finalmente, liberarsi.

Così da udire il leghista Castelli (da Santoro) gridare a Curzio Maltese “tu vivi nel mondo marcio di Repubblica”, e in quel “marcio”, anche se Castelli non lo sa, c’è tutto il puzzo del fascismo.

Così da leggere, su Libero di ieri, che “il Caimano non è un film, è una secrezione corporea di Moretti”, quello stesso Moretti accusato dal Giornale di avere “dirottato” fondi europei per il suo nuovo film, tacendo che più di quaranta registi, anche italiani, ne hanno avuto ugualmente diritto.

Così da imbattersi (da anni a questa parte) in vere e proprie liste di proscrizione dei “rossi” che lavorano alla Rai, ovviamente tutti miracolati politici, tutti scrocconi di soldi pubblici, tutti nel calderone indistinto delle “élite di merda” che prima o poi la pagheranno.

A furia di essere indicati con nome, cognome e stipendi (i guadagni dei “nemici” sono un’altra delle ossessioni di questo giornalismo ossesso), alcune di queste persone sono insultate per strada come “sporco comunista”.

Ora toccherà, probabilmente, anche al giudice Mesiano.






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I calzini del giudice



di Livio Pepino
(Componente del Consiglio Superiore della Magistratura)



da Repubblica del 17 ottobre 2009


Caro direttore, la storia non è nuova.

Per la maggioranza di governo, per il suo leader e peri suoi cortigiani giustizia è sinonimo di utilità: «E giusto non ciò che rispettale regole ma ciò che conviene».

Così, ci si sorprende se le decisioni giudiziarie non sono oggetto di private trattative e non realizzano scambi di favori (che si vorrebbero richiesti finanche dal capo dello Stato).

Ma oggi si è fatto un passo ulteriore sulla via della barbarie. Il giudice indisponibile a considerare le sentenze merce di scambio o ossequio al potente viene indicato come bersaglio (con numero telefonico e indirizzo di abitazione) su un quotidiano della famiglia del premier e i suoi spostamenti quotidiani vengono ripresi da giornalisti (sic!) di una televisione di proprietà del premier (che ne accompagnano la diffusione con commenti sarcastici sul suo passeggiare da solo, sul suo aspettare il turno dal barbiere e sul colore dei suoi calzini).

Non conosco il giudice Mesiano, come non conosco gran parte degli 8.000 magistrati italiani.

Non so se coltivi stranezze e non mi interessano la foggia e le caratteristiche dei suoi indumenti.

Non mi appassionano le sue conversazioni al ristorante (captate da un anonimo avvocato più attento ai discorsi dei vicini che alla compagnia dei propri familiari e dotato di una memoria a scoppio ritardato).

Ma ho lettole 142 pagine della sentenza con cui quel giudice (l’oscuro giudice Mesiano, privo di scorte e uso – cosa incomprensibile ai cortigiani del premier – ad aspettare rispettosamente il turno dal barbiere ...) ha motivato la condanna della Fininvest a risarcire la Cir per i danni «a lei cagionati dalla corruzione del giudice Vittorio Metta».

Sono motivazioni rigorose e oneste.

Non sta a me discuterne la maggiore o minor fondatezza.

Su di esse si pronuncerà, come previsto dal nostro sistema, la corte di appello.

Ma non può sfuggire ai cittadini onesti il senso della operazione messa in atto nei confronti del suo estensore: da un lato, delegittimare la sentenza e renderla non credibile, dall’altro intimidire i giudici che in futuro dovranno occuparsi di controversie analoghe.

Il messaggio è chiaro: il magistrato non può – non deve – emettere decisioni sgradite. Altrimenti è un nemico (silenzioso o protagonista che sia ...).

Gli altri – anche se corrotti – possono stare tranquilli: non conosceremo mai il colore dei calzini del giudice Metta e degli intermediari della sua corruzione, né saremo informati delle loro passeggiate, dello shampoo preferito dal loro barbiere, del loro indirizzo di casa, del loro numero telefonico.

Guai a considerare ciò che accade (solo) una circoscritta sgradevolezza di alcuni cortigiani troppo solerti!

La storia insegna a quali rischi siamo esposti.

Non è inutile ricordare la situazione dell’età dell’imperatore Commodo, descritta dallo storico E. Gibbon in Declino e caduta dell’impero romano: «L’attuazione delle leggi era diventata venale e arbitraria» e «un criminale benestante poteva non solo ottenere l’annullamento di una giusta sentenza di condanna, ma anche infliggere all’accusatore, ai testimoni e al giudice la punizione che più gli piaceva».




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venerdì 16 ottobre 2009

Chi vuol giocare senza arbitro?


La Consulta boccia il lodo Alfano? Giù botte sui Giudici Costituzionali accusati di far politica.

Un giudice civile condanna la Fininvest? Giù botte ancora più dure, un vero e proprio pestaggio mediatico mandato in onda da una Tv legata alla parte soccombente.

Ieri mattina su Canale 5 è andato in scena il peggio: il dott. Mesiano (l’autore della sentenza civile che ha condannato la Fininvest ad un cospicuo risarcimento in favore della CIR di De Benedetti) viene ripreso dalle telecamere, a sua insaputa, per le vie di Milano, al di fuori di qualsiasi attività che possa interessare il pubblico.

Ed un giornalista, che di cognome fa Brachino, indugia in commenti personali sulle pretese stravaganze dell’inconsapevolmente spiato.

Occorre, forse, mettere un po’ d’ordine.


Le sentenze della Corte Costituzionale hanno prodotto, producono e produrranno sempre “effetti politici”. L’attività della Consulta, il più delle volte, consiste nel bilanciamento di valori costituzionali che entrano in conflitto tra loro. Nel comporlo, i Giudici usano gli arnesi del giurista: la logica, la lingua, le norme, i precedenti giurisprudenziali, gli scritti di dottrina. Alla fine decidono, talvolta a maggioranza. Ma non votano come voterebbe un parlamentare.
Il politico nel voto afferma direttamente un valore, lo presceglie come fine e lo persegue con la sua volontà “politica”. Il Giudice compie un percorso diverso. Egli cerca di cogliere, proprio nelle leggi già esistenti ed approvate dai politici, il valore che deve prevalere in un caso controverso. Lo trova, non lo vuole.

Se, in relazione ad una qualsiasi attività pubblica, non si è capaci di cogliere la diversità tra la politicità del “risultato” e quella dello “scopo”, tutto viene coinvolto nella logica settaria degli opposti schieramenti.

Analogamente, un giudice civile che – sbagliando oppure no – dà torto ad una parte e ragione all’altra, non può essere sospettato di aver voluto favorire uno dei contendenti e per questo motivo essere messo impunemente alla berlina.

In queste condizioni la giurisdizione non sopravvive.

Ed il sospetto è che qualcuno aspiri a giocarsi la partita senza arbitro, magari invocando l'acclamazione del pubblico sugli spalti.

Potrà anche vincere; gioca in casa ed il pubblico è dalla sua.

Ma, a meno che non pensi di giocare sempre tra le mura amiche, deve accettare di sottoporsi ai lazzi ed agli insulti dei sostenitori avversari, quando andrà in trasferta.

I brocchi vincono solo così.

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giovedì 8 ottobre 2009

CSM: finalmente curabili le sindromi da immunità (male) acquisita?


Alla fine la decisione sul lodo Alfano è arrivata. Entrambi i fondamentali quesiti posti all'attenzione della Corte Costituzionale hanno trovato risposta nella “forza di resistenza” della Carta sulla quale si fonda questa Repubblica: i principi valgono per tutti e le eccezioni, se giustificate, devono essere contenute in una fonte del diritto di pari grado rispetto alla Costituzione.

In un post di qualche tempo fa, dal titolo Nell'attesa della decisione sul lodo Alfano, avevamo annunciato che la decisione sul lodo avrebbe spianato la via all'eliminazione di altre “eccezioni” introdotte nell'ordinamento con legge ordinaria, anziché costituzionale.

Oggi sappiamo che l'immunità (male) acquisita è una patologia dello Stato democratico perché in esso non possono operare soggetti - se capaci di ragione e di volontà – in tutto o in parte irresponsabili.

Tra le immunità - previste da una legge ordinaria e non da una norma costituzionale – resiste quella introdotta nel 1981 dall’art. 32 bis della l. 24 marzo 1958 n. 195 che manda esenti da conseguenze civili e penali i consiglieri del CSM disponendo che “I componenti del Consiglio superiore non sono punibili per le opinioni espresse nell'esercizio delle loro funzioni, e concernenti l'oggetto della discussione”.



La giurisprudenza ha chiarito che tale immunità riguarda ogni tipo di responsabilità, sia essa civile, penale o disciplinare. Basta che il provvedimento del CSM sia adottato in seguito ad una votazione per assegnare agli autori la franchigia auto-immunitaria.

Sarebbe quanto mai opportuno, dunque, che il Legislatore, seguendo la linea tracciata dalla Consulta, eliminasse quella anacronistica dispensa.

Per i Consiglieri del CSM, poi, deve essere alquanto imbarazzante difendere non già una temporanea esenzione dalla giurisdizione come quella prevista dal defunto lodo Alfano, ma una vera e propria impunità che agli occhi di tutti appare priva di ragion d’essere.

E', in fondo, una reliquia poco nobile della prima repubblica. Per nulla lusinghiera: esplicitamente suggerisce che non si può fare il Consigliere superiore senza incappare in guai giudiziari.

Siamo, ormai, un popolo di costituzionalisti. Ci interessiamo alla Carta non meno di quanto ci attiri lo sport. E' un segno nuovo, importante.
E come il calcio evolve i suoi schemi di gioco, così la consapevolezza democratica suggerisce letture via via più evolute dei “fondamentali”.

Non sarà di ostacolo, allora, la remota pronuncia della Corte Costituzionale (Sent. n. 148 del 1983) che aveva graziato l’art. 32 bis della l. 24 marzo 1958 n. 195 sulla base di argomentazioni che - oggi - appaiono alquanto eccentriche. Si scriveva, infatti, sul punto: "...è agevole notare che la natura, la posizione e le funzioni del Consiglio superiore della magistratura sono state concepite dalla Costituzione in termini così caratteristici, da fornire un'adeguata ragione giustificativa della scriminante in discussione.... Ora, dall'insieme di queste disposizioni..." (la Corte richiama gli art. 105,106,107 della Cost.)"...risulta che la parte centrale e costituzionalmente necessaria dell'azione del Consiglio consiste in apprezzamenti sulle attitudini, sui meriti e sui demeriti dei magistrati da assegnare ai vari uffici, da trasferire, da promuovere, da sottoporre a procedimenti disciplinari e via dicendo. Ma la garanzia che il Consiglio è chiamato ad offrire in tal campo, proprio per poter essere effettiva, richiede a sua volta che i componenti del Consiglio stesso siano liberi di manifestare le loro convinzioni, senza venire in sostanza costretti ad autocensure che minerebbero il buon andamento della magistratura. In altre parole, è nella logica del disegno costituzionale che il Consiglio sia garantito nella propria indipendenza, tanto nei rapporti con altri poteri quanto nei rapporti con l'ordine giudiziario, “nella misura necessaria a preservarlo da influenze” che potrebbero indirettamente pregiudicare 'l'esercizio imparziale dell'amministrazione della giustizia' (cfr. la sent. n. 44 del 1968).

Più o meno, ognuno noterà, sono le stesse argomentazioni usate vanamente dai difensori del lodo appena dichiarato incostituzionale.

Il discorso suona un po' come quello del professore che pretende l'immunità per poter mettere un'insufficienza ai suoi studenti, o del giudice che vuole lo scudo per condannare il ladro, perché diversamente lo manderebbe assolto.

In realtà operano, per queste elementari esigenze, le categorie generali dell'adempimento del dovere.

Nessuno, infatti, viene punito per aver fatto ciò che la legge gli impone di fare.

Ma se il professore varcasse i limiti del suo dovere penalizzando ingiustamente lo studente ed il giudice si accanisse contro il ladro, arrecando loro danni maggiori di quelli ammessi, non si capirebbe più chi è il professore e chi il somaro, chi il giudice e chi il ladro.

Questo l'insegnamento appena offertoci dalla Corte Costituzionale.

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domenica 4 ottobre 2009

Il Cappio



di Giovanni Parisi
(Ingegnere)


Succede che una mattina trovi nella buca delle lettere un invito dell’Istituzione Biblioteca Comunale “G. B. Nicolosi” di Paternò e apprendi che il nuovo Presidente è il Procuratore Aggiunto di Agrigento.

Apprendi inoltre che la prima iniziativa del nuovo Presidente è la presentazione del libro “Il Cappio” il cui autore è un Sostituto Procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo, che per l’occasione, fissata per il pomeriggio del 2 ottobre 2009, verrà introdotto da un Magistrato da poco assegnato alla Direzione Nazionale Antimafia.

Quando tutto questo ti sembra normale e anche un po’ prestigioso, avverti forte una sensazione di disagio: perché?

L’autorevole evento letterario si terrà a Paternò, che con circa 50.000 abitanti è il Comune più grande della Provincia di Catania dopo lo stesso capoluogo.

Paternò, una volta rinomata per la sua florida economia agrumicola e per altre importanti attività produttive, ha subìto nel passato recente un forte declino, che nei bui anni ottanta la inserì, con Biancavilla ed Adrano, nel famigerato “triangolo della morte”, insanguinato dalle feroci e quotidiane lotte di mafia.

Oggi Paternò è ritornata alla ribalta delle cronache nazionali (con un articolo pubblicato in prima pagina su “Panorama”, che si può leggere a questo link) perché il Prefetto di Catania, a valle di un’istruttoria condotta da tre ispettori nominati dal Ministero dell’Interno (un Vice Prefetto, un Capitano dell’Arma dei Carabinieri e un Capitano della Guardia di Finanza), ha richiesto al Ministro dell’Interno lo scioglimento della Giunta Comunale per gravi indizi di infiltrazioni mafiose, anche a seguito di quanto emerso, il 27 novembre 2008, dall’operazione “Padrini”, condotta dal Comando Provinciale dei Carabinieri di Catania, in cui tra i 24 arrestati c’è anche il giovane Assessore ai Servizi Sociali del Comune di Paternò, ritenuto dagli inquirenti il collegamento tra le cosche mafiose Santapaola-Ercolano e le Istituzioni locali (si veda la notizia a questo link).

La vicenda, come riportato dalla stampa, ha creato anche un certo imbarazzo politico, poiché Paternò è il paese natale del Ministro della Difesa (da cui dipende anche l’Arma dei Carabinieri che ha condotto le indagini investigative), che a capo dell’attuale Giunta ha politicamente “insediato” un vecchio amico d’infanzia.

“Carmelino (1) deve essere il nostro portavoce, il mio orecchio e i miei occhi. Voialtri (diretto all’Amministrazione Comunale, ndr) siete padroni di cacare e pisciare nelle vostre case…tutto quello che fate a livello politico e di cui discutete deve passare da me. Perché a Paternò non vi faccio camminare più. Vi potete candidare centomila volte …”, è una delle trascrizioni delle intercettazioni telefoniche, riportate dal quotidiano “La Sicilia” il 29 novembre 2008, del capo clan mafioso di Paternò.

E’ di tutta evidenza che l’ipotesi che i bisogni delle fasce più deboli della Città siano stati messi nelle “mani” della mafia, fermo restando l’iter giudiziario che stabilirà le eventuali responsabilità penali dell’ex-Assessore ai Servizi Sociali di Paternò e degli altri coimputati (le cui indagini si sono appena concluse con le richieste di rinvio a giudizio da parte del Pubblico Ministero), da un punto di vista civico e politico avrebbe dovuto innescare diversi interrogativi, tra cui: com’è possibile che a Paternò la politica abbia così tanto abbassato la soglia di attenzione sulle azioni di contrasto alla mafia, che membri dell’organizzazione criminale stessa abbiano potuto ritenere di avere interlocutori diretti nella Giunta Municipale?

Se eventi come questi si fossero verificati quando era ancora caldo il sangue versato da rappresentanti delle Istituzioni, diventati eroi per la loro coerente testimonianza di Uomini dello Stato, immediatamente si sarebbe sollevata l’indignazione collettiva.

Ma Paternò è rimasta muta, assopita e chiusa nell’indifferenza e nell’individualismo che caratterizza questi tempi.

Né dal Sindaco o dalla stessa Giunta Municipale si sono manifestati quei segnali chiari ed inequivocabili di contrasto e prevenzione contro le infiltrazioni mafiose nella vita amministrativa cittadina che la gravità delle vicende emerse richiedeva (adozione di protocolli di legalità, criteri più selettivi e di garanzia per l’affidamento degli appalti e degli incarichi, ecc.).

Tutto è stato ricondotto a “fenomeni individuali”, tanto che l’ex-Assessore ai Servizi Sociali è stato indicato, anche dal locale Deputato Nazionale (membro anche della Commissione
Nazionale Antimafia) e padre politico dell’attuale Amministrazione Comunale di Paternò, come un “mariuolo” indisciplinato (oggi più modernamente potrebbe dirsi un “tarantino”) che agiva autonomamente.

La Sicilia è terra difficile e spesso complessa.

Chi ci nasce, scegliendo di viverci, sa perfettamente che i gesti e le parole non hanno sempre lo stesso significato: un semplice saluto, una stretta di mano o una “fotografia di gruppo” possono rappresentare e comunicare, a secondo dei contesti, significati molto differenti: Pirandello, Sciascia e tanti altri letterati ne hanno, in diverse occasioni, spiegato le ragioni.

Ciò non sfugge a nessun siciliano e non può tantomeno sfuggire ai tre magistrati invitati all’incontro letterario di Paternò, che della Sicilia sono anche figli illustri.

Non può sfuggire che, entrare nell’unico “salotto buono” rimasto ad una Giunta Municipale su cui pesano non solo inquietanti ombre, ma anche gravi provvedimenti istituzionali, può indirettamente contribuire a stringere il “cappio” su una comunità inerme ed indifferente, alimentando quel clima di nebbia, confusione, rassegnazione e sfiducia nelle Istituzioni (in cui sembra che tutto ciò che non è penalmente perseguibile è giusto e rispettabile), non utile a supportare la crescita di una Città che, nella sua parte sana, vuole liberarsi dai vecchi cliché, facendo camminare, con fatica ed orgoglio, il proprio sviluppo sulla professionalità e sull’onestà.

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(1)
Carmelo Frisenna, 37 anni, Assessore ai Servizi Sociali del Comune di Paternò, arrestato nell’ambito dell’operazione “Padrini” il 27 novembre 2008, è stato con 597 preferenze il più votato nelle elezioni del 2007 per il rinnovo del Consiglio Comunale, che ha presieduto nella prima seduta consiliare e da cui si è dimesso per ricoprire il ruolo di Assessore nella Giunta Municipale.



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sabato 3 ottobre 2009

Lo scudo fiscale tra amnistia condizionata e depenalizzazione discriminatoria: quando giustizia vuol dire fortuna.


Nel sito ufficiale della Presidenza della Repubblica possono leggersi le considerazioni che la inducono ad escludere la manifesta incostituzionalità della legge di conversione del decreto-legge n. 103 del 2009, meglio noto come “scudo fiscale”.
Eccone il testo.

A proposito del Decreto correttivo del provvedimento anticrisi

Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha esaminato attentamente, seguendone l'intero percorso parlamentare, la legge di conversione del decreto-legge 3 agosto 2009, n. 103, recante disposizioni correttive del decreto-legge anticrisi n. 78 del 2009, approvata definitivamente dalla Camera dei Deputati dopo la posizione da parte del Governo della questione di fiducia sul testo trasmesso dal Senato.
Si osserva innanzitutto che la complessiva disciplina dello scudo fiscale comprese le ulteriori modificazioni introdotte in materia nel testo del decreto-legge n. 103 del 2009 - disciplina che più correttamente avrebbe dovuto trovare collocazione nel testo originario del decreto-legge anticrisi - comporta scelte di merito che rientrano nella esclusiva responsabilità degli organi titolari dell'indirizzo politico di governo.
Si rileva nello stesso tempo che sono state confermate le correzioni che avevano accompagnato la promulgazione della legge di conversione del precedente decreto. Infatti, la legge prevede la punibilità di tutti i reati strumentali all'evasione fiscale per i quali sia stata già esercitata l'azione penale e stabilisce che le dichiarazioni di rimpatrio o di regolarizzazione sono utilizzabili a sfavore del contribuente nei procedimenti penali pendenti e futuri. Quanto al riciclaggio e agli altri reati che la legge esclude dal beneficio della non punibilità, si è preso atto dei chiarimenti forniti dal Governo in sede parlamentare e dalla Agenzia delle entrate, secondo cui la legge mantiene l'obbligo di segnalare le operazioni sospette di costituire il frutto di reati diversi da quelli per i quali si determina la causa di non punibilità.
Si ricorda infine che la previsione di ipotesi di non punibilità subordinata a condotte dirette ad ottenere la sanatoria di precedenti comportamenti non è ritenuta qualificabile come amnistia in base a ripetute pronunce della Corte costituzionale, da ultimo con ordinanza 9 aprile 2009, n. 109.
Il Capo dello Stato procederà quindi alla promulgazione della legge di conversione del decreto-legge 3 agosto 2009, n. 103.



Com’è noto, quella appena approvata, è una legge di conversione del decreto legge n. 103 del 3 agosto 2009 col quale si prevede, tra l’altro, la non punibilità di una serie di reati purché essi risultino collegati alla illecita esportazione di capitali all’estero. Al fine di favorire il rientro in Italia di quei capitali, dunque, lo Stato rinuncia alla sua pretesa punitiva nei riguardi dei soggetti che, a fronte del pagamento di una falcidia del 5%, riportano in patria i loro averi, purché per tali reati non risulti già avviato un procedimento penale.
E’, l’ultimo, il punto cruciale sul quale dovrà misurarsi la legittimità costituzionale dello scudo fiscale.
Se, infatti, la non punibilità avesse riguardato anche i reati già oggetto di un accertamento penale, la misura non si sarebbe potuta distinguere da una vera e propria amnistia, l’adozione della quale richiede però una legge caratterizzata da un particolare procedimento formativo e dall’approvazione con maggioranze più ampie di quella semplice.

L’esclusione della possibilità di avvalersi dell’esenzione penale per quei soggetti già sottoposti a verifica dall’autorità giudiziaria rappresenta – nei discorsi sin qui letti - il principale ostacolo all’equiparazione all’amnistia.

Del resto, nel comunicato della Presidenza della Repubblica è fatto riferimento ad una recente pronuncia della Corte Costituzionale (ord. n. 109 del2009) nella quale si dava conto che «mentre il condono costituisce una complessa e varia fattispecie produttiva di effetti estintivi, che si compone di una serie di fasi ed i cui effetti estintivi del reato sono quindi rimessi alla volontà, per quanto condizionata, degli interessati» e, pertanto, al perfezionamento del «procedimento amministrativo di sanatoria»; l’amnistia, invece, «in quanto misura di clemenza generalizzata, incide direttamente sulla punibilità astratta, con l’effetto immediato della estinzione del reato senza mediazione fattuale», cosí che tale effetto è «da ricondurre all’atto legislativo concessivo dell’amnistia» e comporta l’«obbligo per il giudice di immediata declaratoria di non doversi procedere»

Nella citata decisione la Consulta, quindi, individua nell’assenza di mediazione fattuale la caratteristica delle leggi di amnistia. Poiché risulta decisiva nell’iter logico sin qui seguito nei ragionamenti della Corte Costituzionale e, a quanto si apprende, del Capo dello Stato, l’affermazione è meritevole di verifica.
Il pensiero corre, quasi intuitivamente, agli artt. 151, comma 4 del codice penale e 672, comma 5, del codice di procedura penale, che regolamentano l’amnistia “condizionata”. E’ quella che realizza gli effetti estintivi del reato o della pena non immediatamente, ma solo mediante comportamenti richiesti a colui il quale intenda beneficiarne. Tanto ciò è vero che per la sua definitiva applicazione l’interessato deve dimostrare di aver adempiuto alla “condizione” o all’”obbligo”. Mentre può discettarsi sul concetto di “condizione” (che può riguardare avvenimenti oggettivi o fatti di terzi) non vi è alcun dubbio che l’”obbligo” riguarda proprio una condotta personale, sia essa positiva o negativa. L’amnistia può, pertanto, ben essere subordinata al compimento di un fatto ad opera dell’imputato o del condannato.
Se le precedenti considerazioni non sono illogiche, cade l’argomentazione che ravvisa nell’assenza di “mediazione fattuale” il discrimine tra le leggi di amnistia e quelle di condono.


La seconda notazione in forza della quale sono state espresse rassicurazioni circa la costituzionalità dello scudo fiscale è rappresentata dalla non generalizzata applicabilità del beneficio, restandone esclusi i soggetti già “scoperti” nei confronti dei quali penda un procedimento penale.
In realtà sembra potersi fondatamente affermare che questa previsione, lungi dal suffragare l’ipotesi della legittimità costituzionale dello scudo fiscale, introduca ulteriori profili di eccentricità rispetto alla Carta, segnatamente sotto il parametro della ragionevolezza (art. 3 Cost.): la fruibilità del beneficio così è rimessa a circostanze del tutto estranee ad una considerazione di “meritevolezza” del soggetto. La pendenza di un procedimento penale, infatti, è collegata esclusivamente all’efficacia dell’azione repressiva che si è manifestata precocemente per alcuni e tardivamente (o mai) per altri. Resta il fatto che, a parità di condotte, alcuni si avvarranno dei benefici fiscali e penali dello scudo mentre altri, senza che sia loro addebitabile alcunché di diverso, non ne beneficeranno.
Paradossale, allora, l’ingiustificata esclusione dallo “scudo” di una parte di soggetti dalla platea di coloro che possono giovarsene: una sorta di ingiustizia nell’ingiustizia che, lungi dal rassicurare circa la correttezza della legge, introduce ulteriori argomenti per sostenerne l’illegittimità costituzionale.

Comunque vada sarà un successo.
Fondamentali principi di garanzia stabiliscono che se una legge penale, favorevole al reo, viene dichiarata incostituzionale, l’imputato non può subire gli effetti negativi della sentenza che pronuncia l’incostituzionalità di quella legge. In altre parole quanti si avvarranno dello scudo fiscale ne godranno appieno i benefici quand’anche dovesse in seguito pervenirsi alla decisione della sua incostituzionalità.


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