martedì 30 settembre 2008

Il testo integrale delle questioni di costituzionalità sul “lodo Alfano”


Ai seguenti link è possibile scaricare e leggere le questioni di costituzionalità della legge Alfano (cosiddetta – vai a capire perché - “lodo”), sollevate dal Pubblico Ministero e dal Tribunale di Milano e il verbale della seduta della Costituente nella quale si è discussa l’eventuale impunità del Presidente della Repubblica e la si è intenzionalmente esclusa.





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La facoltatività dell'azione penale







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La battaglia finale




di Franco Cordero


da La Repubblica del 30 settembre 2008


Il re decrepito, tema della fantasia alchimistica: le sue terre decadono; non cresce più niente.

Bisogna ringiovanirlo e l’opus comincia da una “mortificatio”: nel “Viridarium chemicum” muore massacrato dai rivoltosi; in Mayer, “Scrutinium chemicum”, un lupo lo divora affinché rinasca dal fuoco (cito dalla junghiana “Psicologia e alchimia”, figure nn. 173 e 175, ed. inglese).

Sir George Ripley, canonico di Bridlington (1415-90), racconta una metamorfosi meno cruenta: acquattato sotto le vesti materne, ridiventa feto; lei mangia carne di pavone e beve sangue d’un leone verde (nell’iconografia alchimistica corrisponde all’unicorno); il rinato riceve carismi da luna, sole, stelle attraverso una vergine inghirlandata il cui latte è vita; trionfa sui nemici, guarisce gl’infermi, estingue i peccati (ivi, 408 ss., e “Mysterium coniunctionis”, pp. 274-80).

Non era digressione oziosa. Abbiamo un presidente del Consiglio fuori misura: cantastorie stipendiati vantano mirabilia e ne è convinto; «toccatela», diceva offrendo la mano in un convegno, «ha fatto il grano»; quanto più taumaturgo dei re che guarivano gli scrofolosi.

Ma deperiscono anche i corpi regali.

Nell’“Allegoria Merlini” fenomeni d’idropisia preludono alla rinascita: pronto alla battaglia, chiede da bere e beve troppo gonfiandosi; non può salire in sella; vuol sudare in una camera calda; vi rimane esanime; allora vari mediconi lo tritano, poi riplasmano con ammoniaca e nitro; cuoce nel crogiolo.

Quando l’ultima stilla è caduta nel vaso sottostante, salta su gridando: dov’è il nemico?; vengano a sottomettersi; se qualcuno resiste, l’ammazza.

Voleva sudare e affinarsi anche Re Lanterna, padrone degli ordigni con cui s’è fabbricato un popolo d’elettori: riposava tra fanghi, pietre vulcaniche et similia; nel quarto giorno esce, dovendo assistere al derby milanese.

L’unica differenza dall’“Allegoria Merlini” è che non l’abbiano tritato: resta qual era, compatto, nerovestito, arrembante; e stermina i nemici: non vuol più sentire la parola “dialogo” (scelta semantica seria, diamogliene atto); un secco fendente decapita l’avversario, colpevole d’essersi accorto del nascente regime autoritario.

Seguono due battute: la Corte costituzionale renderà ossequio al cosiddetto lodo Alfano, del cui valore un collegio del Tribunale milanese osa dubitare; altrimenti, e la voce assume toni gravi, ha in serbo una «profonda riflessione sull’intero sistema giudiziario».

Parlava chiaro: qualcuno s’illude d’imprigionarlo in ragnatele legali?; gl’istogrammi dei consensi dicono chi comandi; avendo l’“omnipotence de la majorité”, fa quel che vuole; può rifondare Carta, codici, personale.

Non lo fermano due o tre parrucche, o quante risultino determinanti dell’ipotetica decisione ostile: s’infuria ogniqualvolta dei giudici non deliberino nei termini convenienti; è lesa maestà contraddirlo.

Che lo pensi, era chiaro: gli ripugnano diritto, etica, grammatica; lo Stato è una delle sue botteghe; sinora però teneva l’idea dentro e finché stia al gioco pudibondo, l’ipocrisia vela i più tristi spettacoli.

Domenica sera l’ha detto, spiazzando cosmetologhi e consiglieri legali.

L’outing scoperchia retroscena visibili da chiunque non chiuda gli occhi: sarà arduo sostenere che l’immunità tuteli un interesse generale; l’ha smentito dai telegiornali, a viso duro; la pretende come scudo nei prossimi 12 anni, ritenendosi diverso da tutti, e guai se una Corte trova da eccepire.

In sede morale figura male, guadagnandovi perché gli aspetti “canaille” rendono.

Oltre alla disinvoltura piratesca, sinora esibiva un penchant fraudolento, dall’ascesa affaristica alle campagne mediatiche con cui tre volte s’è impadronito del potere.

Stavolta siamo sul cóté violento, emerso tre mesi fa quando un emendamento al decreto sicurezza, straripando dai termini convenuti al Quirinale, minaccia scempi se non gli garantiscono l’immunità: centomila processi al diavolo; gliela votano e l’emendamento cade; caso classico d’estorsione.

Eguale odore penalistico manda l’ultimo fosco messaggio: l’art. 289 c.p. (*) incrimina «ogni fatto diretto a impedire anche temporaneamente» che la Corte eserciti le sue funzioni; e la pena va dai 10 anni in su ma è questione accademica, essendo lui immune dal processo, qualunque sia l’ipotetico reato, anche fossero in ballo i presupposti della convivenza civile.

Siccome esistono precedenti italiani, vale la pena riflettere nel senso etico-intellettuale (la «profonda riflessione» prospettata domenica 28 settembre era minaccia oscura).

Raccomandiamo l’argomento ai liberal, cultori d’uno Stato democratico moderno: così dicono abusando delle parole; il plutocrate allevato dal vecchio malaffare politico, campione d’un grossolano populismo, configura fenomeni né moderni né liberali.

L’analogia colpisce l’occhio perché i discorsi de quibus corrono sotto la stessa illustre testata.

Post ottobre 1922 LuigiAlbertini, formidabile tecnocrate della cura d’anime giornalistica, ha la coscienza inquieta: non l’ammette, anzi ripete vecchie invettive esorcistiche; a sentire lui, le sventure italiane vengono da Giolitti, ma i cinque volumi dei “Venti anni di vita politica” dicono quanto basta al giudizio storico.

Rivisti gli eventi a testa fredda, gli restano pochi motivi d’orgoglio: insisteva nell’assurdo tentativo d’escludere le masse dalla scena politica; patrocinava teste piccole e torbide come Sonnino e Salandra; guerrafondaio quando è chiaro che nel caso migliore l’Italia uscirebbe stravolta; sostiene lo squadrismo fascista, reazione salutare al pericolo rosso, nonché alla neoplasia cattolica.

Dio sa come potesse vedere nei fascisti un partito liberale giovane; e ancora dopo l’insediamento mussoliniano spera una metamorfosi virtuosa, ma precede tutti gli esponenti del vecchio establishment nel dissenso: in extremis salva l’anima.

Siamo a quel punto?

Il teatro storico non concede bis perfetti: nello scenario 2008, ad esempio, manca l’equivalente d’un braccio armato del regime qual era la Milizia volontaria; cose d’allora sono impensabili oggi, fermo restando lo sfondo antropologico (Achille Starace e vari altri vengono su come funghi).

L’analogia sta nel grave pericolo.

Sotto qualche aspetto rischiamo più d’allora: Mussolini era uomo politico, con difetti calamitosi ma non affarista né pirata; e intellettualmente valeva alquanto più del musicante da crociera, impresario edile, piduista, spacciatore del loto televisivo.

Nelle desinenze latine s’equivalgono: «unguibus et rostribus», declama il furibondo maestro elementare romagnolo; l’altro, laureato, infila nella loquela d’imbonimento un «simul stabunt, simul cadunt», ma racconta d’ avere tradotto Erasmo, il cui latino umanistico non é dei più facili.

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(*) L’articolo del prof. Cordero contiene un errore nella citazione dell’art. 289 del codice penale. Il testo citato dal prof. Cordero, infatti, è quello antecedente al 2006. Quella norma disponeva che era «punito con la reclusione non inferiore a dieci anni, qualora non si tratti di un più grave delitto, chiunque commette un fatto diretto a impedire, in tutto o in parte, anche temporaneamente: 1) al Presidente della Repubblica o al Governo l'esercizio delle attribuzioni o prerogative conferite dalla legge; 2) alle Assemblee legislative o ad una di queste, o alla Corte Costituzionale o alle Assemblee regionali, l'esercizio delle loro funzioni. - La pena è della reclusione da uno a cinque anni se il fatto è diretto soltanto a turbare l'esercizio delle attribuzioni, prerogative o funzioni suddette».

L’art. 4 della legge 24 febbraio 2006, n. 85, approvata regnante Berlusconi, ha modificato quella norma con altra del seguente tenore: «È punito con la reclusione da uno a cinque anni, qualora non si tratti di un più grave delitto, chiunque commette atti violenti diretti ad impedire, in tutto o in parte, anche temporaneamente: 1) al Presidente della Repubblica o al Governo l’esercizio delle attribuzioni o delle prerogative conferite dalla legge; 2) alle assemblee legislative o ad una di queste, o alla Corte costituzionale o alle assemblee regionali l’esercizio delle loro funzioni».

Dunque:

1. il fatto è punito ora solo se commesso con violenza; se l’esercizio delle attribuzioni o delle prerogative del Presidente della Repubblica, del Governo, della Corte Costituzionale o delle assemblee legislative viene impedito con altri mezzi il fatto non è più reato;

2. se viene commesso in maniera violenta è reato, ma è punito con una pena più che dimezzata rispetto a quella precedente; meno di un furto con scasso o di una rapina con la pistola giocattolo.

La cosa pare molto molto rilevante e significativa.





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La fine della democrazia d’opinione



Riportiamo dal sito di Micromega un articolo di don Antonio Sciortino, che sarà sul numero 5/2008 della rivista.


L’antipolitica ‘non è quella di Grillo o dei girotondi, ma quella della politica intesa come mercato della soddisfazione dei desideri’. E quando ‘un governo ritiene di doversi scagliare contro le critiche di un giornale, forse qualcosa non va nella nostra democrazia’. Il direttore di Famiglia Cristiana ribadisce le preoccupazioni per il rischio di scivolare verso forme oligarchiche e autoritarie di governo.


di don Antonio Sciortino
(Direttore di Famiglia Cristiana)

da Micromega

La semplificazione del quadro politico alle ultime elezioni e l’ampia investitura popolare ottenuta dal Pdl (e di conseguenza dal governo del presidente Berlusconi) ha posto nel paese la questione del rapporto tra democrazia rappresentativa e democrazia di opinione.

Il dibattito può assumere anche toni drammatici quando, invocando l’estesa legittimazione popolare al governo in carica, si mette in dubbio la possibilità altrui di esprimere opinioni e critiche sull’operato del governo.

Quando poi gli attacchi vanno diritti contro un giornale e si dissente sul diritto all’opinione diversa e alla critica (non verso le istituzioni, ma verso le idee e le azioni che uomini delle istituzioni esprimono), è legittimo chiedersi se non sia in atto un ritorno all’autoritarismo, che disprezza il principio dell’uguaglianza delle idee, almeno nella loro possibilità di esprimersi.

Ciò che è accaduto di recente nei confronti di Famiglia Cristiana per le sue critiche ad alcuni provvedimenti del governo, è esattamente questo.

Chi governa con ampio mandato popolare ritiene, forse, che è suo compito anche spalmare il paese di un pensiero unico e forte, senza ammettere alcun diritto di replica?

In realtà, da sempre noi non abbiamo mai risparmiato critiche a governi e opposizioni, usando sempre lo stesso metro di giudizio, che è una visione solidale della realtà.

Famiglia Cristiana si è comportata così con tutti i governi, anche quelli democristiani, quando ci sembrava giusto e cristiano farlo.

Fedele al mandato del suo fondatore, il beato Giacomo Alberione, che diceva di «parlare di tutto cristianamente». Avverbio, questo, che connota la nostra missione di comunicatori, e ci spinge a giudicare la realtà alla luce del Vangelo.

In particolare, ci porta a giudicare la politica alla luce di quei pilastri che la dottrina sociale della Chiesa considera fondamentali, in nome di due valori: la solidarietà e la sussidiarietà.

I pilastri sono la dignità di ogni essere umano, la famiglia, il lavoro, l’integrazione e il dialogo tra culture, popoli e religioni, la convivenza e la pace, l’educazione libera e responsabile, la promozione della vita dal concepimento alla sua naturale fine.

Chi fa comunicazione in modo responsabile deve saper verificare la congruenza tra dichiarazioni e scelte concrete di ogni classe politica al governo e all’opposizione, offrirne i dati oggettivi e un criterio di lettura. Solo così un giornale trova interlocutori, stimola il dialogo, aumenta il tasso di democrazia di opinione nel paese.

È stato assai singolare che, dopo le nostre prese di posizioni sulla questione dei rom e sul cosiddetto «pacchetto sicurezza», il governo si sia scagliato con insolita veemenza contro Famiglia Cristiana.

Già questo denota quanto il nostro paese sia poco normale.

Quando si mette il coprifuoco alle idee, quando un governo ritiene di doversi scagliare contro le critiche di un giornale, forse qualcosa non va nella nostra democrazia rappresentativa.

In realtà, in Italia la gente ha una concezione sempre più leggera della democrazia rappresentativa.

Sembra che basti solo assolvere al dovere del voto.

E i politici (soprattutto quelli «nuovi», quelli che non provengono da una lunga formazione, ma dalle scuole del marketing), ritengono che i cittadini abbiano firmato loro una delega in bianco.

Si sentono legittimati a fare tutto ciò che le regole della soddisfazione dei desideri impongono, quasi che l’esercizio nobile dell’arte della politica, sia definita dalla migliore e scintillante soluzione dei desideri di ognuno.

Siamo al paradosso che, proprio oggi, quando la politica sembra aver preso il sopravvento su molte altre attività (al punto che tutti ci si buttano), la partecipazione invece cala.

È vero che la democrazia rappresentativa si risolve nella delega.

Ma essa è intesa in maniera così forte dall’attuale classe politica (al governo e all’opposizione), che ha relegato in soffitta la democrazia di opinione.

Siamo così all’antipolitica, che non è quella di Grillo o dei girotondi, ma quella della politica intesa come mercato della soddisfazione dei desideri.

La classe politica italiana, ma anche gli intellettuali, hanno gravi responsabilità.

L’eterna transizione cui è costretta l’Italia almeno da 15 anni e la promessa reiterata di riforme che non arrivano mai, hanno tolto credibilità alla politica e rafforzato chi, nella politica, vede un teatro da calcare con le sue truppe ordinate e ubbidienti a ogni ordine, senza discutere.

Vale a destra come a sinistra.

In un quadro simile, la partecipazione e, dunque, la democrazia di opinione spariscono.

Né il riconoscimento maggiore del leader serve ad aumentare la partecipazione.

Lo dimostrano le continue incursioni di Berlusconi nelle piazze tra la gente che vive drammaticamente problemi seri, quasi volesse non tanto rassicurarla, ma rassicurare se stesso di averla (la gente) sempre vicina.

In realtà, nessuno sa veramente quel che pensano i cittadini, al di là del vecchio e, talora, obsoleto metodo dei sondaggi.

Neppure a livello amministrativo c’è più passione per la «cosa pubblica».

Non ci si interessa nemmeno del proprio marciapiede o dell’autobus che non passa.

Quando un giornale come il nostro suona la campanella d’allarme, che segnala la distanza tra la politica e le attese concrete della gente, e insiste sulle politiche familiari, su un fisco equo, o critica le ossessioni per la sicurezza e la giustizia … dice semplicemente che in democrazia le opinioni devono contare.

Infatti, se cala la partecipazione e, al tempo stesso, non si ammettono critiche, il rischio di scivolare verso una forma oligarchica e autoritaria è davvero grande.

Fa scalpore che tutte queste cose, corredate di esempi concreti, le abbia scritte un giornale cattolico?

È un’altra delle anomalie italiane.

In Francia nel corso dell’estate il quotidiano cattolico La Croix ha criticato la nuova grandeur francese di Sarkozy sulla scena internazionale.

Ma nessun membro del governo s’è sognato di rivolgersi al cardinale di Parigi o al Vaticano.

Ciò che spesso difetta al nostro paese è l’idea che i cattolici (giornalisti e non) siano cittadini come gli altri, e abbiano il diritto di partecipare al grande gioco della democrazia di opinione.

La rivista francese Esprit (che, certo, non può essere bollata di «cattocomunismo» o di «criptocomunismo») si domandava questa estate se non ci stiamo avviando verso la fine del ciclo democratico.

La scomparsa delle ideologie non ha assolutamente semplificato il quadro politico.

Ha solo prodotto maggiore difficoltà nella comprensione e nell’elaborazione del pensiero politico, che sembra debba inseguire solo i desideri della gente.

Oggi si tende a semplificare cose complesse, con risposte ai bisogni che saranno necessariamente inefficaci sul medio e lungo periodo, anche se al momento sono allettanti.

Ciò che accade attorno al pacchetto sicurezza, alla questione immigrazione, ma anche sui temi della giustizia, lo dimostrerà.

La parola più indicata per definire tutto ciò è populismo, che insegue e accarezza i desideri.

Una dimostrazione è l’ultima finanziaria, valida per tre anni e assai pesante, approvata in una manciata di minuti dal governo.

Oggi la consapevolezza di tutto ciò sembra essere presente solo nel dibattito di opinione, mentre non trova casa (o ne trova una assai ristretta), nella classe politica e nelle istituzioni parlamentari.

Ed è per questo che la classe politica, forte dell’investitura, tende a spazzar via il dibattito.

Oggi, forse, non corriamo alcuni rischi del passato, ma c’è un allarme circa un progetto di Stato e di convivenza democratica, che non dà voce a chi non ha voce, a cominciare dalle famiglie e dai più poveri.

Non è questione, questa, che riguarda e preoccupa solo i cattolici, ma tocca il paese intero.

Quando Famiglia Cristiana bussa all’Italia bipolare, ricordando che i costi sociali di operazioni che semplificano eccessivamente la realtà possono essere altissimi, non fa altro che il suo dovere, a favore del «bene comune».

Il passo dal populismo all’autoritarismo può essere, fatalmente, breve.


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La tenuta delle istituzioni e il senso della democrazia



di Marco Imperato
(Magistrato Distrettuale Requirente presso la Procura Generale della Corte di Appello di Bologna)



E’ notizia di ieri l’esternazione quanto meno minacciosa fatta dal premier circa l’eventualità (denegata) che la Consulta possa accogliere le eccezioni sollevate nei suoi due processi milanesi contro la legge che sospende i processi a carico delle 5 cariche più alte dello Stato.

Nello stesso giorno anche Ghedini aveva utilizzato (evidentemente in maniera volontaria, trattandosi di giurista) un argomento populista e di nessun valore (il fatto che Napolitano abbia promulgato la legge ...) per difendere il lodo Alfano, facendo anche lui capire che l’unica sentenza “accettabile” dalla maggioranza è quella in cui la Corte Constituzionale sancisse la compatibilità con l’ordinamento del lodo.

Non mi pare di aver letto sufficienti e adeguate risposte da nessuno, nemmeno un comunicato a tutela dell’alto organo in questione da parte del presidente Napolitano (a sua volta tirato per la giacchetta ...).

Eppure mi sembra si tratti di comportamenti del tutto incompatibili con il sistema di equilibri previsti dalla Carta Costituzionale (rileggo in questi giorni le pagine di Scoppola e penso che per sua fortuna non aveva ancora visto il peggio), senza dimenticare che proprio la Consulta rappresenta uno delle poche soluzioni istituzionali che ci vengono ammirate, invidiate e copiate all’estero.

Il problema non è solo di metodo, perchè in quei “messaggi” di Berlusconi e Ghedini si rivela, oltre a degli interessi particolari (in ipotesi legittimi, non è questo che mi interessa ora discutere), una concezione demagogica della democrazia, segnata da una particolare insofferenza verso tutti gli istituti non legittimati dal popolo (Corte Costituzionale, Presidente della Repubblica, Magistratura, Authority di vario tipo), ignorandone il ruolo centrale e cancellando ogni reale supremazia alla Costituzione.

Questa insofferenza si percepisce da anni ed è stato uno dei grimaldelli usati per fare leva sull’opinione pubblica contro un sistema accusato di essere non democratico, irresponsabile e inefficiente.

Peccato che quasi nessuna voce si levi a difesa di un sistema creato dai Padri Costituzionali proprio per evitare e contenere le deviazioni patologiche e populistiche della democrazia nonché per evitare che questa si trasformasse in una dittatura della maggioranza (e infatti in questi giorni cade per l’ennesima volta ogni ipotesi di finto dialogo ... non c’è una classe politica da nessuna delle due parti che abbia la levatura morale e il senso istituzionale di fare alcunché di condiviso per il Paese da ANNI).

A corollario di questo leggo indiscrezioni su un CSM ridisegnato e diviso nel quale comandi da una parte (quella dei giudici) il Presidente della Repubblica (ma che in prospettiva sarà il vero vertice dell’esecutivo, oltre che incarnarsi in Berlusconi) e dall’altra (quella dei pm) il Ministro della Giustizia ... con buona pace di Montesquieu e della separazione dei poteri.

Reazioni ?

Anche questa volta zero ...

Così come non ce ne sono state alla lettera di Saviano o alle gravissime denunce sollevate dall’Espresso su esponenti politici di spicco (anche al governo) nella questioni della gestione da parte della camorra dei rifiuti in Campania ... (per cambiare argomenti e settore).

D’altronde i regimi post-seconda guerra mondiale hanno imparato che farsi scivolare tutto addosso e occuparsi solo della gestione del consenso di massa sia il metodo più semplice per controllare il potere e marginalizzare ogni minoranza riformatrice (non dico certo rivoluzionaria ...)

Dove andremo a finire se non si riprende a seminare e praticare un minimo di senso della legalità, di rispetto delle istituzioni e di condivisione dei valori costituzionali?

Saluti dal ciglio del precipizio.



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domenica 28 settembre 2008

Mafia e potere



Il 16 settembre 2008 si è tenuto a Milano, a Palazzo Marino, un dibattito pubblico per la ricorrenza del 30° anniversario della morte di Peppino Impastato, dal titolo “Mafia e potere a Milano a 100 passi dal duomo”.

Il dibattito è stato molto interessante.

Il tema è importantissimo, perché è evidente che siamo, nel nostro Paese, a una fase “nuova” della dinamica delle organizzazioni mafiose.

“Eliminati” i mafiosi con la coppola, i Reina, i Santapaola, i Provenzano, la mafia, la ‘ndrangheta e la camorra non sono affatto finite.

Esse vivono e prosperano più che mai e, anzi, paradossalmente è quasi certo che abbiamo preso infine i Reina, i Santapaola e i Provenzano proprio perché alle mafie quelli come loro non servivano più.

E’ accaduto alle mafie quello che accade anche alle imprese.

C’è stato il tempo in cui l’impresa si faceva secondo certe logiche per così dire artigianali del dopo guerra.

Ma poi sono arrivati i figli di quegli imprenditori che la fanno in tutt’altro modo.

Mentre i loro padri mettevano da parte i soldi a poco a poco e parlavano ancora il dialetto, le nuove generazioni di imprenditori parlano le lingue e compiono audaci operazioni finanziarie.

Così, della mafia, della ‘nrangheta, della camorra vivono e operano oggi le “nuove generazioni”.

Le organizzazioni criminali oggi non sono più bassa manovalanza che ha contatti con il potere e l’economia. Sono pezzi perfettamente integrati del potere e dell’economia.

Non tengono più i soldi sotto il mattone e non si parlano con i “pizzini”.

Non ammazzano i giudici. Li fanno trasferire.

Non ammazzano i giornalisti. Li licenziano.

Non chiedono i subappalti del movimento terra, ma partecipazioni azionarie.

Non chiedono qualche centinaia di euro di pizzo, ma il finanziamento di un’opera pubbica.

Questo, ovviamente, condiziona insuperabilmente le dinamiche politiche ed economiche del Paese.

Chi ha potere – politico ed economico – ha anche legami dai quali non è possibile defilarsi a piacimento.

Certe relazioni producono condizionamenti insuperabili.

Difesa da tutto questo dovrebbero essere le leggi e i tribunali.

Proprio per questo i tribunali sono in corso di smantellamento e le leggi non sono più qualcosa di prestabilito da rispettare tutti, ma qualcosa che si cambia al bisogno per venire incontro alle esigenze di chi le può fare e disfare.

Il Parlamento non è più il luogo dove si discutono e si perseguono gli interessi generali del Paese, ma una sorta di proprietà privata di pochi segretari di partito che designano chi deve occuparlo e vi installano i portatori di tanti grandi e piccoli interessi privati.

Ciò che il potere e l’economia hanno sempre fatto nel nostro Paese è tentare di fare credere che i legami con le organizzazioni criminali non ci fossero o fossero del tutto accidentali e occasionali.

Purtroppo è assolutamente evidente che non è così.

I casi che lo dimostrano sono centinaia.

Basterebbe per tutti la vicenda di Michele Sindona e delle sue banche.

Riportiamo qui sei video tratti da Youtube (non li abbiamo messi lì noi e, dunque, non sappiamo quanto ci resteranno).

I primi tre sono relativi all’intervento di Gianni Barbacetto al dibattito del 16 settembre a Milano.

Gli altri tre sono tratti dalla trasmissione della Rai Blu Notte.

Su questi stessi temi, il 10 maggio scorso, abbiamo pubblicato, a questo link, uno scritto di Felice Lima con altri due video.

Qui in fondo riportiamo i link ad alcuni documenti relativi al sen. Marcello Dell'Utri e a Vittorio Mangano.


Gianni Barbacetto (1 di 3):





Gianni Barbacetto (2 di 3):





Gianni Barbacetto (3 di 3):





Marcello Dell'Utri (1 di 3):





Marcello Dell'Utri (2 di 3):





Marcello Dell'Utri (3 di 3):





Il testo integrale della sentenza di condanna in primo grado del sen. Dell'Utri per concorso esterno in associazione mafiosa

Vittorio Mangano su Wikipedia

Elogio di Mangano eroe 1

Elogio di Mangano eroe 2

La sentenza nella causa Berlusconi/Travaglio/Luttazzi

Il decreto di archiviazione del G.I.P. Giovanbattista Tona





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sabato 27 settembre 2008

Il cantiere per la giustizia: in Sardegna. Ovvero, del ruolo dell’Avvocatura.



di Gioacchino Bàrbera
(Avvocato del Foro di Bari)



Il 23 giugno 2008, la Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane aveva diffuso un ampio Comunicato di cui spero di essere riuscito a cogliere gli aspetti più rilevanti che cerco qui di riassumere.

1) Inaccettabile qualsiasi intervento che impedisca di condurre a compimento i processi in corso, essendo questo un caposaldo dello stato di diritto;

2) fermo ciò, la Giunta tiene subitaneamente a chiarire, ad evitare confusioni, che «Altro discorso è discutere per il futuro di meccanismi, anche riformando leggi e Costituzione, che regolino l’esercizio dell’azione penale»;

3) in strettissima sequenza, la inequivoca e fondamentale precisazione che questi meccanismi devono essere inmquadrati «nel contesto di una riforma complessiva della giustizia, prevedendo anzitutto un adeguato stanziamento di mezzi, risorse e uomini per fronteggiare le reali cause della lunghezza dei processi»; (nel testo originale il brano qui in neretto era sottolineato, ma il blog non consente la sottolineatura);

4) in perfetta sintonia con questa consapevole? esigenza di concretezza si pone la promessa che la «Unione delle Camere penali italiane, nelle prossime settimane, metterà a disposizione i dati che dimostrano che a rallentare i processi sono in gran parte l’irragionevole durata dei tempi morti del processo e le disfunzioni degli apparati giudiziari»;

5) conscia della complessità delle questioni da affrontare l’UCPI sollecita «La classe politica» a dar «corso immediatamente a quel cantiere per la giustizia che i penalisti hanno da tempo richiesto»;

6) in questo cantiere devono entrare: «Separazione delle carriere come riforma che nobilita funzione e ruolo del giudice salvaguardando l’indipendenza del pubblico ministero e migliora la qualità del processo accusatorio; riforma del CSM e della “magistratura fuori ruolo” per salvaguardare dalle invasioni di campo tutelando il principio della separazione dei poteri. Ristrutturazione garantista del codice di procedura penale, modulando anche interventi che incidono sui tempi del processo senza sacrificare garanzie. Nuovo codice penale. Riforma della legge forense con riguardo in particolare all’accesso e alla specializzazione professionale come strumento per dare forza alla difesa nel processo di parti».

Incamminandosi verso la fine, il Comunicato tratta ampiamente (e questo mi costringe ad un rinvio) altri due temi di indubbia rilevanza: la legge Gozzini e le intercettazioni.

Il Comunicato termina così: la Giunta delle Camere penali Italiane ribadisce i passaggi fondamentali evidenziati nel presente documento, invitando la classe politica e la magistratura ad un confronto su questi temi ed «invita il Governo ed il Parlamento a dar corso alla riforma organica della giustizia» facendo «riserva di promuovere un dibattito pubblico che verifichi le reali volontà di aprire subito il cantiere per l’elaborazione di tale riforma».

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Commentare questo Comunicato è onestamente, almeno per me, impresa difficilissima, resa ancora gravosa dalla esigenza di brevità. Sintetizzo dunque quanto più possibile.

A) Dopo la premessa, viene enunciata la fermissima posizione che tutti i processi in corso devono essere celebrati.

B) Immediatamente dopo la Giunta tiene a precisare che «Altro discorso è discutere per il futuro di meccanismi, anche riformando leggi e Costituzione, che regolino l’esercizio dell’azione penale». La discussione (nemmeno la decisione) su questi meccanismi – che potranno anche comportare riforme legislative e costituzionali – non deve dunque iniziare ora, ma IN FUTURO.

C) Non rinviabile è invece la primaria esigenza di un «adeguato stanziamento di mezzi, risorse e uomini per fronteggiare le reali cause della lunghezza dei processi». Questa esigenza è ritenuta di importanza tale da indurre la Giunta all’unica sottolineatura rinvenibile nel testo del documento (che qui ho trasformato in neretto, non avendo il blog i caratteri sottolineati). Come è del resto ovvio, posto che la Giunta individua nella insufficienza degli stanziamenti (in senso ampio) la vera causa del principale male che affligge la nostra giurisdizione: la spropositata lunghezza dei processi. Incontestabilmente logica, sebbene non espressamente enunciata essendo scontata, è la deduzione che, qualora non siano in primo luogo aumentati gli stanziamenti, le reali cause della crisi della giurisdizione non potranno essere rimosse e la crisi della giurisdizione si protrarrà così a tempo indeterminato.

D) Questa posizione della Giunta spiega perché ha osservato che la discussione concernente la regolamentazione dell’esercizio dell’azione penale non può iniziare oggi, ma deve svolgersi in futuro. Non ci vuol molto a comprendere il ragionamento sottostante. Dal momento che la Giunta ha individuato nella inadeguatezza degli stanziamenti la reale causa della inverosimile durata dei processi, l’avvio di un dibattito su riforme legislative che non prendono in considerazione questo gravissimo problema non ha alcun senso. Soltanto dopo aver verificato sul campo gli effetti prodotti dall’incremento delle risorse destinate alla gestione della giurisdizione si può avviare una concreta e perciò non ideologica discussione sulle modificazioni o integrazioni delle leggi che disciplinano l’azione penale, sullo stesso codice penale, sulla normativa in materia di accesso alla professione e specializzazione, e così via.

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Può darsi per scontato che il Comunicato è stato consapevolmente diffuso in un momento particolare. Il governo ha infatti ripetuto infinite volte che uno dei fondamentali obiettivi che intendeva raggiungere era la riforma della giustizia ed aveva dichiarato il cerchio si sarebbe chiuso nell’autunno di quest’anno. Ignoti e, comunque, non ufficializzati erano peraltro i perni attorno a cui la riforma doveva ruotare. Per questo motivo gli avvocati penalisti sono intervenuti prima che si scoprissero le carte. Hanno inteso così escludere che il loro ruolo si riducesse a quello di semplici comparse ed hanno perciò voluto far sentire la loro voce affinché il governo tenesse conto delle indicazioni provenienti da una categoria che giornalmente vive il disastro del nostro sistema giurisdizionale.

Il 26 agosto 2008, a distanza di due mesi dal Comunicato, il premier incontra il ministro della giustizia. In circa un’ora raggiungono un’intesa sui momenti essenziali della riforma. Il giorno successivo il ministro li illustra in una intervista: separazione delle carriere, riforma del CSM e accelerazione del processo penale.

Lo stesso giorno, con incredibile tempestività, il prof. Dominioni esprime un deciso apprezzamento riguardo alle linee fondamentali della riforma rese note dal ministro nell’intervista,. Ritiene, infatti, che vadano nella direzione delle storiche battaglie dei penalisti italiani che sono perciò disponibili, “a mettere a disposizione le proprie elaborazioni e il proprio contributo per le riforme, augurandosi che questa volta, a differenza del passato, propositi e promesse vengano rispettati”.

Non si riesce davvero a comprendere come il prof. Dominioni possa aver immediatamente plaudito alle decisioni prese dal governo che non sfiorano minimamente il problema di adeguare le risorse destinate alle esigenze di funzionamento della giurisdizione «per fronteggiare le reali cause della lunghezza dei processi».

Ad appena due mesi dal Comunicato della Giunta il prof. Dominioni lo getta alle ortiche

Come può spiegarsi questo comportamento? I casi sono due: o nel proclamare il suo assenso alle linee della riforma della giustizia disegnate dal governo è sfuggito di mente al prof. Dominioni il Comunicato della Giunta del 23 giugno; oppure – come è di certo più verosimile – lo ricordava perfettamente, ma ha comunque deciso di “fare di testa sua”.

Anche la decisione della Giunta di sollecitare la classe politica a dar «corso immediatamente a quel cantiere per la giustizia che i penalisti hanno da tempo richiesto», nella consapevolezza che temi delicatissimi come quelli che incidono sul sistema giudiziario penale devono essere attentamente esaminati da tutti i soggetti interessati al funzionamento della macchina giudiziaria svanisce nel nulla.

Non si può peraltro escludere che l’immediato consenso alla riforma Alfano manifestato dal prof. Dominioni trovi spiegazione proprio nell’apertura di quel cantiere da tempo auspicato dagli avvocati penalisti, ovviamente, ben lungi dall’assomigliare a quelli che vediamo sorgere qui e là ogni giorno. Un cantiere del tutto particolare e che nell’occasione è divenuto ancor più tale. E’ stato aperto negli splendidi e sconfinati spazi della Sardegna ed è stato chiuso in un paio d’ore. Il tempo di un pranzetto cui hanno partecipato il progettista, il direttore dei lavori ed il capo-cantiere, a porte così rigidamente chiuse da non permettere l’accesso nemmeno al maggiordomo. Del resto, non occorreva.

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A questo link si può leggere un altro articolo con il quale Gioacchino ha risposto ad alcune delle osservazioni svolte nei commenti a questo.



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Vecchi obbiettivi, nuove strategie



Riportiamo da Camerepen@alionline, rivista dell’Unione delle Camere Penali Italiane un articolo dell’avv. Oreste Flamminii Minuto.

Si tratta di uno scritto davvero prezioso e molto significativo è che esso sia datato 27 ottobre 2006. Sono passati due anni e l'articolo è ancora di strettissima attualità, perché i problemi messi in luce dall’avv. Flamminii Minuto si sono solo aggravati.
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di Oreste Flamminii Minuto
(Avvocato)



da Camerepen@alionline


Non dirigo più questo “sito”. Per la verità non l’ho mai diretto: mi sono limitato a fare – come specificato in alcuni post - il “curatore”, e non mi è parso corretto intervenire con continuità sui contenuti e sul merito di diversi articoli che ho pubblicato. Solo qualche nota di dissenso, appena accennato, proprio perché non vi era “una linea editoriale” da difendere o, più semplicemente da divulgare.

Ora, però, sono tornato “libero” e penso di poter esporre alcune idee, nella convinzione e nella consapevolezza della loro apparente “non ortodossia”. E dal momento che quello che sto per dire posso farlo senza dover chiedere a nessuno il permesso per la pubblicazione (non mi è ancora stata tolta la chiave di accesso al sito) ne approfitto in maniera forse non troppo corretta.

Lo riconosco, ma la tentazione è troppo forte e dunque ….

Dunque !

Da diversi anni sembra (dico: sembra) che l’unica ossessione della nostra associazione sia la separazione delle carriere Non c’è Congresso, Convegno, riunione conviviale in cui non si parli della separazione delle carriere. Ed è giusto che se ne parli. Ma, forse, se si facesse una riflessione più approfondita si potrebbe scoprire che l’ “ossessione”, non solo non risolve il problema, ma contribuisce a “non risolverlo affatto”.

Intendo dire che il “problema” ormai è tale che ciascuno di noi pensa che la soluzione sia la separazione e che una volta ottenuta in virtù di una statuizione normativa (possibilmente irrevocabile, vale a dire con norma costituzionale) il problema stesso non esista più.

Da diversi anni, invece, io vado sostenendo che la separazione delle carriere non risolverebbe affatto il “problema” in quanto non è la carriera del PM, ma la terzietà del giudice che è -in definitiva- in discussione. E’ il perverso legame culturale che lega Giudici e PM che va reciso. E per reciderlo non basta certo una disposizione di legge.

Nelle interminabili discussioni tra amici ho sempre portato a esempio quello che accadeva nella vigenza del reato di oltraggio. Per far dichiarare l’arbitrarietà del comportamento del pubblico ufficiale era necessario avere l’appoggio di una consorteria di santi e non era affatto certo che anche in questo caso si riuscisse a far assolvere il tapino sventurato che aveva avuto la sfortuna di discutere con un pubblico ufficiale.

Quello che è in ballo, dunque, è la concezione del “cittadino” da parte della magistratura. E’ in discussione il ruolo della magistratura in una società libera in uno con la concezione degli “associati” in quella stessa società (cittadini e non sudditi), il ruolo dello Stato e di chi lo rappresenta che non può essere valutato alla stregua di una logica della appartenenza. Lo Stato non è una lobby, né un’associazione di privilegiati. Lo Stato è il cittadino e il cittadino è lo Stato.

A queste mie considerazioni è stato sempre risposto (con una certa sufficienza): “Si è vero ! Hai ragione. Ma da una parte bisogna pur cominciare. Cominciamo, allora, con lo stabilire per legge che PM e Giudici sono “due cose diverse”. Il “resto” verrà in seguito”.

E l’errore sta proprio in questo. Il “resto” non verrà mai o, perlomeno, non verrà fino a quando non si sarà compreso, da parte di tutti, che Giudicare, Accusare e Difendere sono funzioni diverse (o se si preferisce funzioni analoghe nella loro diversità) che presuppongono “l’indifferenza” di chi giudica !

L’obbiettivo (il primo obbiettivo) non è dunque la separazione delle carriere, ma la “terzietà del Giudice”. E si badi bene: non è un gioco di parole. Puntare il dito sugli effetti perversi di una situazione anomala è politicamente molto più efficace che denunciarne le cause. E gli effetti perversi dipendono da formazioni di base, culturalmente diverse.

Dopo una prima sommaria, superficiale formazione universitaria, che non può neppure definirsi di “base” per la mancanza di problematiche sulla diversità dei ruoli nell’ambito della giustizia, senza alcuna analisi della comune cultura della legalità e della giurisdizione, le strade dell’avvocatura e della magistratura divergono in maniera evidente e netta.

E qui sta la causa delle deviazioni culturali che ne conseguono.

Carlo Guarnieri scrive nella sua breve relazione per il centro Studi Marongiu: “… Quello di cui abbiamo bisogna è una cultura della legalità che inglobi tutti: pubblico ministero e giudice ma anche fra magistrati e avvocati. Il nostro assetto è da questo punto di vista seriamente carente, specie da quando le facoltà di giurisprudenza hanno visto declinare la loro capacità di fornire una “cultura comune” ai propri laureati. Quindi, se si vuole che i protagonisti del processo siano in grado di “intendersi” e condividere principi comuni, una più accentuata formazione comune è necessaria .... Va perciò valorizzata la formazione post- laurea, rendendola comune a tutte le professioni legali. Per tutte queste ragioni è importante che la Scuola della magistratura possa iniziare a funzionare al più presto, con programmi adeguati e con l’apporto indispensabile dell’accademia e dell’avvocatura”.

E ancora : “… si tratta di ricreare un tessuto comune fra le professioni legali – magistratura, avvocatura e università – un tessuto che negli ultimi decenni ha subito troppe lacerazioni, con gravi danni per il buon funzionamento del processo e per la stessa difesa dei diritti dei cittadini. Del resto, a ben vedere, la stessa magistratura avrebbe tutto da guadagnare da relazioni più strette con le professioni giuridiche ed in particolare con l’avvocatura. Infatti, acquisterebbe un formidabile difensore della sua indipendenza, fatto che le permetterebbe di emanciparsi in buona misura dalla necessità di organizzare “pellegrinaggi” presso le varie chiese della politica …” (Carlo Guarnieri “I fondamenti politici e tecnici della separazione delle carriere”).

Se, dunque, il vero problema è la riacquisizione da parte del Giudice della sua effettiva indipendenza, la strategia da seguire concerne non più “la separazione delle carriere”, ma “la terzietà del Giudice”. E questo dovrà essere lo slogan delle future e imminenti battaglie.



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Giustizia, informazione e democrazia




di Bruno Tinti
(Procuratore Aggiunto della Repubblica di Torino)



da Chiarelettere

Mi ero ripromesso di scrivere sul rapporto tra democrazia e informazione. E adesso mi rendo conto che rischio di mettere in fila una serie di luoghi comuni.

Così ho pensato di utilizzare un esempio.

Ai tempi di Mani Pulite, tranne uno zoccolo duro di politici inquisiti o inquisendi, amici e amici degli amici di questi politici, anche loro in odore di inquisizione; tranne questa gente, tutti erano contentissimi della ventata di aria fresca che faceva volare il putridume della politica.

Poi, piano piano e però sempre più in fretta, il vento è cambiato.

Non è difficile capire perché.

Partiamo da lontano, dai Tre Moschettieri.

In Il Visconte di Bragelonne (come tutti sanno, si tratta dell’ultimo volume della serie) Dumas mette in scena la morte di Mazzarino, il Cardinale che governò la Francia per quasi 40 anni; e descrive l’incontro con il giovanissimo Luigi XIV che va a fargli visita sul letto di morte. Luigi chiede a Mazzarino: “Cardinale, voi che mi avete così fedelmente servito e mi avete insegnato tutto quello che so, datemi un ultimo consiglio”.

E Mazzarino, con l’ultimo respiro gli dice “Sire non assumete mai più un primo ministro”.

Luigi se ne ricordò sempre, governò senza controlli e senza controllori; diventò il Re Sole, padrone della Francia e, per lungo tempo, dell’Europa.

Così è successo con la nostra classe politica (che però è parecchio meno entusiasmante del Re Sole): Mani Pulite? Mai più! E, scientificamente, si è applicata su un doppio versante: la distruzione del sistema giustizia, attraverso leggi costruite apposta per non consentire il processo penale. e il bavaglio all’informazione.

Sul primo punto abbiamo già parlato un po’ e ancora parleremo.

Ma perché il secondo? Perché il bavaglio all’informazione?

Qui la cosa è un po’ complessa. E’ ovvio che la distruzione del sistema giustizia e, anche, una certa incapacità della magistratura ad interpretare il suo ruolo in maniera organizzata ed efficiente, hanno cagionato malcontento e sfiducia nei cittadini. Nessuno si fida più del processo, della giustizia, dei giudici.

Quando la spazzatura è nelle strade la gente se la prende con tutti, anche con gli spazzini; e non le importa molto se le colpe, in realtà, non sono proprio tutte degli spazzini. La gente vuole le strade pulite e se pulite non sono si incazza.

Certo, si potrebbe spiegare che la spazzatura resta nelle strade perché gli amministratori della città non hanno organizzato per tempo discariche ed inceneritori; e si potrebbe spiegare che il processo non funziona perché la classe politica ha fatto tutto il possibile per non farlo funzionare. Si potrebbe spiegare ai cittadini cosa non funziona e di chi è la colpa. E i cittadini potrebbero farsi delle idee, decidere di votare questo o quell’altro, fidarsi di Tizio e non fidarsi di Caio. Insomma si potrebbero informare i cittadini, raccontargli quello che succede e metterli in condizione di avere delle idee.

Eh, già, così ritorniamo ai tempi di Mani Pulite.

Così finisce che la gente riesce a sapere, ad esempio, che per i reati di molestie, ingiurie, percosse, lesioni perfino (in molti casi perlomeno) e per un’altra sterminata serie di reati (per esempio il falso in bilancio, eh, eh) non si può mettere in prigione nessuno; che misure alternative un po’ ridicole (l’obbligo di dimora etc.) possono essere violate impunemente; che la valutazione di pericolosità, sussistenza di esigenze probatorie, pericolo di fuga, è stata fatta preventivamente dal legislatore in un modo talmente idiota (furbissimo) da rendere difficilissimo sia mettere qualcuno in prigione sia tenercelo per un tempo adeguato.

Così finisce che la gente capisce perché il sistema giustizia non funziona; e a chi giova che non funzioni.

Così finisce che i cittadini sanno. E magari non sono d’accordo; e protestano; e votano male (dal punto di vista della nostra classe politica).

Insomma, l’informazione non può essere libera perché non ci si può permettere un giudizio dei cittadini libero.

Ed ecco che l’informazione viene negata e trasformata in propaganda, il giudizio reso impossibile e i cittadini trasformati in sudditi.

Quando Montesquieu elaborava la sua celebre teoria della divisione dei poteri viveva in un’epoca in cui l’informazione era sostanzialmente riservata ad una elite di intellettuali, aveva una diffusione limitatissima e non influiva per nulla sulla gestione del potere.

Oggi, come è ovvio, le cose non stanno più così.

Il potere esecutivo e il potere legislativo sono, nei fatti, uno solo; poiché il Governo impone le sue leggi al Parlamento che le emana come atto dovuto.

L’esecutivo inoltre ha in corso una strategia per appropriarsi anche del potere giudiziario in modo da essere immune dal controllo di legalità e orientare l’amministrazione della giustizia in senso utile ai suoi disegni politici o quantomeno con essi non contrastante.

Tutto ciò che rimane è la possibilità per i cittadini di rendersi conto di questa rivoluzione strisciante e di opporvisi con lo strumento democratico che ancora posseggono: il voto.

Ed è qui che l’informazione gioca il suo ruolo decisivo; ed è qui che l’esecutivo tenta di incidere imponendole limiti che diventano veri e propri bavagli.

Al prossimo post per qualche altra considerazione.



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venerdì 26 settembre 2008

Tribunali, il miracolo degli organici pieni



di Luigi Ferrarella
(Giornalista)




da Corriere della Sera del 20 settembre 2008


Milano - Chi c’è, c’è; e chi non c’è al 30 settembre, non ci sarà proprio.

Oplà, e il miracolo è fatto: benché in realtà ne manchino più di 3.000, i cancellieri dei tribunali italiani vedranno il loro organico andare magicamente in pari sulla carta.

In attesa infatti che entro il 30 novembre «le amministrazioni pubbliche ridimensionino gli assetti organizzativi secondo principi di efficienza, razionalità ed economicità», cioè tagliandoli del 10%o imposto dalla legge, il decreto legge n. 112/2008 (lo stesso che toglie al bilancio della giustizia anche 900 milioni nel 2009-2012) in estate ha avvertito al comma 5 dell’articolo 74 che «le dotazioni organiche» sarebbero state «provvisoriamente individuate in misura pari ai posti coperti al 30 settembre 2008».

Ecco fatto: non impressionerà più il 70% in meno negli organici dei direttori di cancelleria C3 (che oggi sono 350 invece di 1.330), sparirà quasi il 60% di vuoti nelle file dei cancellieri C2 (oggi 1.750 anziché 4.300): e in effetti i nuovi organici messi a punto il 6 agosto per la Giustizia si avvicinano proprio a questa fotografia dell’esistente in emergenza, sostituendosi all’organico teorico e concentrando in quelle fasce il grosso della soppressione dei posti.

Basta un tratto di penna per far magicamente scomparire o ridimensionare i disastrosi vuoti negli organici della spina dorsale della celebrazione dei processi, i cancellieri C2 e C3, le cui lacune da anni costringono molti tribunali a ridurre (per esempio non facendo udienza di pomeriggio) il numero di processi celebrabili ogni giorno.

E se nel «taglio» generale del loro del personale amministrativo spuntano invece qualifiche che con la nuova taratura guadagnano organici, sono le mansioni inferiori A e B (commessi, ausiliari); oltre ai posti solo in teoria in più, creati sì ma per 1.439 precari (ex Lsu, Poste, Zecca) che da anni lavorano e la cui stabilizzazione stava già nella Finanziaria di due anni fa.

Dal 6 ottobre, intanto, entreranno in agitazione e non andranno più in udienza a rappresentare l’accusa al posto dei magistrati togati, i 1.707 viceprocuratori onorari (240 meno del previsto) ai quali una circolare ha dimezzato per il futuro, e negato negli arretrati per il passato, le indennità che ne compensano un lavoro ormai non sostituibile.

Da anni, infatti, questi precari del diritto (prorogati a termine) e cottimisti del diritto (pagati 75 euro a udienza, senza pensione, malattia, maternità) si sono visti subappaltare dallo Stato il 90% dei processi davanti al giudice monocratico: furti, scippi, rapine, droga, Bossi-Fini, proprio i reati di solito al centro dei tanto pubblicizzati «pacchetti-sicurezza».

Forse a non giovare è che, già solo per riassumere le due questioni, occorrano più di 9 minuti: il tempo vantato dal Consiglio dei Ministri per sbrigare il via libera alla maxi-Finanziaria triennale.

E deve essere sempre questo singolare rapporto tra tempo e decisione a far esaminare in questi giorni la riforma della giustizia civile (proposta dal governo) solo alle Commissioni Bilancio e Affari costituzionali, e curiosamente non anche alla Commissione Giustizia. Ma per quanto la si costringa nelle maglie del “decisionismo” contabile, la realtà, come anticipano le vicende di cancellieri e vpo, si riaffaccia a bussare.

Solo che, ad avvertire il toc-toc, saranno le spalle dei cittadini: utenti di una giustizia che sempre più scaricherà nei «subprime» delle loro istanze inevase/rimandate/negate tutti i finti risparmi, pagati al caro prezzo dei debiti di efficienza accumulati.




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giovedì 25 settembre 2008

Il decreto Alitalia: verso il fallimento della legalità



E’ sempre più evidente che stiamo assistendo in questi anni a un’accelerazione violenta di un percorso “culturale” nel quale l’illegalità, il privilegio, la diseguaglianza fra i cittadini non sono più per la classe politica di questo Paese un disvalore da evitare, da biasimare, da tenere nascosto, ma un obiettivo da perseguire senza pudore.

Si tratta di un radicale sovvertimento dei valori costituzionali e di un vulnus gravissimo alla speranza di una democrazia che è sempre più solo nominale.

E’ ormai costante il ricorso a leggi ad personam, a salvacondotti, a indulti mirati, a “lodi” impensabili.

L’ennesimo caso è quello del salvacondotto a chi, al vertice di Alitalia, abbia fatto “pasticci” e/o illegalità.

Si tratta dell’ennesimo “condono tombale”: si parla del tutto genericamente de “la responsabilità per i relativi fatti”. Qualunque responsabilità per qualunque “relativo fatto”.

La cosa appare giuridicamente abnorme e logicamente inspiegabile. Perché i responsabili di Alitalia non dovrebbero rispondere di eventuali illegalità commesse?

Riportiamo sul punto un articolo del prof. Roberto Bin, tratto dal Forum di Quaderni Costituzionali.


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di Roberto Bin
(Professore Ordinario di Diritto Costituzionale nell’Università di Ferrara)



da Forum di Quaderni Costituzionali


“In relazione ai comportamenti, atti e provvedimenti che siano stati posti in essere dal 18 luglio 2007 fino alla data di entrata in vigore del presente decreto al fine di garantire la continuità aziendale di Alitalia-Linee aeree italiane S.p.A., nonché di Alitalia Servizi S.p.A. e delle società da queste controllate, in considerazione del preminente interesse pubblico alla necessità di assicurare il servizio pubblico di trasporto aereo passeggeri e merci in Italia, in particolare nei collegamenti con le aree periferiche, la responsabilità per i relativi fatti commessi dagli amministratori, dai componenti del collegio sindacale, dal dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili societari, è posta a carico esclusivamente delle predette società. Negli stessi limiti è esclusa la responsabilità amministrativa-contabile dei citati soggetti, dei pubblici dipendenti e dei soggetti comunque titolari di incarichi pubblici. Lo svolgimento di funzioni di amministrazione, direzione e controllo, nonché di sindaco o di dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili societari nelle società indicate nel primo periodo non può costituire motivo per ritenere insussistente, in capo ai soggetti interessati, il possesso dei requisiti di professionalità richiesti per lo svolgimento delle predette funzioni in altre società.”

Questo non è uno scherzo, né il “caso” sottoposto da un collega fantasioso all’esercitazione degli studenti: è il testo dell’art. 3, comma 1, del decreto-legge 28 agosto 2008, n. 134, “Disposizioni urgenti in materia di ristrutturazione di grandi imprese in crisi”.

Il mio non vuole essere un commento, ma piuttosto una richiesta di aiuto: vorrei tanto che qualcuno mi spiegasse che cosa significa questa disposizione.

Che l’Alitalia sia in condizioni gravissime lo sanno tutti; che il Governo se ne preoccupi è – finalmente – una buona notizia.

Ma il salvataggio dell’Alitalia – o meglio della parte “sana” di essa: dove andranno le sue amputazioni ormai necrotiche è un altro problema – può giustificare un provvedimento di “sanatoria” che mandi esenti da responsabilità amministratori, controllori, dirigenti, nonché “pubblici dipendenti” o “soggetti comunque titolari di incarichi pubblici” da “fatti commessi” e, in particolare, da irregolarità nella “redazione dei documenti contabili”?

A prima vista, per quanto riguarda i funzionari pubblici questa norma sembra cozzare con gli art. 28 e 103 Cost., che fissano il principio della responsabilità personale del pubblico funzionario: ma per la responsabilità degli amministratori di una società per azioni non c’è proprio alcuna “copertura” costituzionale?

Che cosa vuol dire che la “responsabilità per i fatti commessi” è “posta a carico esclusivamente” della società?

Di quale responsabilità si sta parlando?

Fosse anche solo quella civile, l’azionista o il creditore perdono l’azione contro gli amministratori e possono agire solo contro la società, magari inciampando nel suo fallimento?

È più che evidente che il decreto-legge incide nei rapporti tra privati, con effetti retroattivi, modificando i termini in cui si esercita il diritto di difesa e – c’è da supporre, perché non conosco la realtà processuale – interferendo nella funzione giurisdizionale, con buona pace di una bella serie di principi costituzionali, a partire da quello di eguaglianza per atterrare su quello di separazione dei poteri.

Insomma, il tenore di questa norma mi sembra incompatibile con i fondamenti primi dello Stato di diritto: qui si fa della ragion di stato (identificata nell’aver operato per la “continuità aziendale”) l’unica giustificazione di un provvedimento del tutto abnorme.

Si pensi infatti che, non solo coloro che hanno commesso dei “fatti” tutt’altro che commendevoli (dal punto di vista del rispetto delle regole vigenti, s’intende) sono mandati esenti da responsabilità personale, ma addirittura si vieta di considerarli per quello che sono: il fatto che abbiano falsificato i bilanci o commesso altri illeciti (a proposito, siamo forse di fronte al primo caso di notitia criminis con forza di legge?) “non può costituire motivo per ritenere insussistente, in capo ai soggetti interessati, il possesso dei requisiti di professionalità richiesti per lo svolgimento delle predette funzioni in altre società”.

Fantastico! Si profila l’illegittimità delle delibere amministrative che motivassero la scelta comparativa di un dirigente sulla base dei trascorsi amministrativi in Alitalia dell’altro candidato?
Oppure la denuncia per diffamazione del consigliere di amministrazione di una società privata che fa mettere a verbale il suo dissenso motivato (questo è il punto) rispetto alla nomina di uno dei nostri Alitalia boys?

Qualcuno mi aiuta, per favore?

Si, capisco, sono ipotesi paradossali, quasi fantascientifiche. Ma questa disposizione non lo è forse?

Le leggi ad personam non sono una rarità nel nostro Paese, e non mi riferisco certo alla mitica “legge Bacchelli”.

Ma ormai, come si vede, sta diventando un genere di massa.

Poi andremo a spiegare agli immigrati clandestini il valore della legalità: non hanno mica da salvare la Compagnia di bandiera, loro; egoisticamente pensano a salvare solo se stessi.



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Il governo Berlusconi e la giustizia: se non fosse una tragedia, sarebbe una farsa.




Il governo è sempre più impegnato a riformare la giustizia, nell’interesse … proprio. Ossia a riformarla perché sia sempre più INefficiente e più INgiusta. Il resto sono chiacchiere e propaganda demagogica.



di Liana Milella
(Giornalista)


da Repubblica.it del 25 settembre 2008


Giustizia, nuovo blitz del Pdl in arrivo l’immunità per i ministri.

Dopo il lodo Alfano, pronto il lodo Consolo per salvare Altero Matteoli.
Il parlamentare, che è anche legale del ministro, ha preparato un apposito ddl.
Il responsabile delle Infrastrutture è sotto processo per favoreggiamento a Livorno.


Roma - Un lodo Alfano per il premier Silvio Berlusconi. Per bloccare i suoi processi Mills e Medusa. Quello è già fatto. È alle spalle.

Adesso serve un lodo Consolo per il ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli, di cui Consolo è pure avvocato.

Aennino il ministro, aennino il proponente. Tutto in famiglia. Com’è stato per il lodo Alfano.

Uno scudo protettivo per fermare i processi alle alte cariche dello Stato fresco di pochi mesi.

Un disegno di legge, pensato e scritto dal deputato Giuseppe Consolo, affidato alle cure del capogruppo di Forza Italia Enrico Costa, nelle prossime “priorità” della commissione Giustizia della Camera.

Una nuova porta aperta verso il definitivo ripristino dell’immunità parlamentare in stile 1948 per tutelare e mettere al riparo chi è già nei guai con la giustizia.

In comune con il lodo Alfano la solita norma transitoria, quella che disciplina l’utilizzo di una legge, e che, anche in questo caso come per tutte le leggi ad personam, stabilisce che il lodo Consolo “si applica anche ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della presente legge”.

Giustizia di casa nostra per tutto il governo Berlusconi.

Stavolta per i suoi ministri.

Per Matteoli in particolare, visto che a Livorno c’è un suo processo per favoreggiamento.

Ma vediamo prima la proposta e poi la persona e il processo a cui si applica.

Che si va a inventare Consolo per il suo cliente? Una leggina, due articoli in tutto, che rivoluziona le regole costituzionali per i reati ministeriali, quelli commessi da soggetti che sono, o sono stati, ministri. Un giochetto facile facile.

Rendere obbligatoria la richiesta di autorizzazione anche per i reati che, a parere del tribunale dei ministri, non meritano una copertura ministeriale e quindi, stando alle norme attuali, devono essere valutati e investigati dalla procura. Se, a parere dei pm e dei giudici, il delitto è stato commesso, il soggetto va a processo come un normale cittadino.

Eh no, questo a Consolo non sta affatto bene.

Anche perché c’è giusto il suo compagno di partito e legalmente assistito, il ministro Matteoli, ex capogruppo di An al Senato nella scorsa legislatura, e prima ancora ministro dell’Ambiente, che nel 2005 viene messo sotto inchiesta dalla procura di Livorno per aver informato l’allora prefetto della città Vincenzo Gallitto che c’erano delle indagini sul suo conto per l’inchiesta sul “mostro di Procchio”, un complesso edilizio in costruzione a Marciana, nell’isola d’Elba.

Il tribunale dei ministri del capoluogo toscano decise che quel reato non aveva niente a che fare con la funzione di ministro ricoperta da Matteoli e rispedì le carte alla procura. Matteoli non si dette per vinto.

Divenuto nel frattempo senatore convinse la Camera a sollevare un conflitto di attribuzione contro Livorno per la “ministerialità” del reato.

La Consulta lo considera ammissibile e dovrà pronunciarsi.

Nel frattempo il processo è congelato. Adesso Consolo lo vuole ibernare definitivamente.

Nel giorno in cui il Guardasigilli Angelino Alfano, alla Camera, strizza l’occhio all’opposizione, in particolare ad Antonio Di Pietro, e dice che si può “aprire un confronto su norme che vietino la candidabilità di persone che siano state condannate con sentenza passata in giudicato” e mentre il Senato, all’opposto, blocca la richiesta di arresti per il pidiellino Nicola Di Girolamo, ecco che si materializza il lodo Consolo, presentato per tempo l’8 maggio 2008, ma rimasto tra le proposte da valutare in commissione.

All’improvviso esplode l’urgenza.

Con una legge che mette sullo stesso piano chi è ministro e ha commesso un reato nell’ambito delle sue funzioni, e quindi, in base all’articolo 96 della Costituzione, gode di una parziale tutela in quanto spetta alla Camera o al Senato dare il via libera all’indagine, con chi invece è pur sempre ministro, ma ha commesso un delitto nelle vesti di normale cittadino.

Consolo pretende che il tribunale dei ministri trasmetta il fascicolo “con relazione motivata al procuratore della Repubblica per l’immediata rimessione al presidente della Camera competente”.

Una surrettizia autorizzazione che verrebbe garantita a un comune cittadino giudicabile per un reato commesso in coincidenza con la funzione di ministro, ma al di fuori del suo lavoro di membro del governo.

Un’indebita protezione ad personam, una sorta di invito a delinquere, perché tanto le Camere, come la storia cinquantennale dell’autorizzazione a procedere dimostra ampiamente, sono sempre pronte a negare ai giudici la possibilità di indagare.


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lunedì 22 settembre 2008

Saviano, lettera a Gomorra tra killer e omertà



Nonostante la stampa (asservita come sempre) abbia subito titolato giornali e telegiornali come da veline di regime – “Regolamento di conti fra bande di spacciatori” – la strage di Castel Volturno è tutta un’altra storia e le vittime, anche se nere, sono proprio vittime e non complici, come converrebbe al potere.

Certo è imbarazzante ammetterlo da parte di un potere politico che ha detto di avere già risolto tutti i problemi di sicurezza prevedendo l’ergastolo per i lavavetri, ma i problemi di sicurezza sono tutt’altri di quelli falsamente propagandati e contro i problemi veri si è fatta finora una cosa sola: nasconderli alla vista dei cittadini.


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di Roberto Saviano


da Repubblica.it del 22 settembre 2008


I responsabili hanno dei nomi. Hanno dei volti. Hanno persino un’anima.

O forse no.

Giuseppe Setola, Alessandro Cirillo, Oreste Spagnuolo, Giovanni Letizia, Emilio di Caterino, Pietro Vargas stanno portando avanti una strategia militare violentissima.

Sono autorizzati dal boss latitante Michele Zagaria e si nascondono intorno a Lago Patria.

Tra di loro si sentiranno combattenti solitari, guerrieri che cercano di farla pagare a tutti, ultimi vendicatori di una delle più sventurate e feroci terre d’Europa.

Se la racconteranno così.

Ma Giuseppe Setola, Alessandro Cirillo, Oreste Spagnuolo, Giovanni Letizia, Emilio di Caterino e Pietro Vargas sono vigliacchi, in realtà: assassini senza alcun tipo di abilità militare.

Per ammazzare svuotano caricatori all’impazzata, per caricarsi si strafanno di cocaina e si gonfiano di Fernet Branca e vodka.

Sparano a persone disarmate, colte all’improvviso o prese alle spalle.

Non si sono mai confrontati con altri uomini armati.

Dinnanzi a questi tremerebbero, e invece si sentono forti e sicuri uccidendo inermi, spesso anziani o ragazzi giovani. Ingannandoli e prendendoli alle spalle.

E io mi chiedo: nella vostra terra, nella nostra terra sono ormai mesi e mesi che un manipolo di killer si aggira indisturbato massacrando soprattutto persone innocenti. Cinque, sei persone, sempre le stesse. Com’è possibile?

Mi chiedo: ma questa terra come si vede, come si rappresenta a se stessa, come si immagina?

Come ve la immaginate voi la vostra terra, il vostro paese?

Come vi sentite quando andate al lavoro, passeggiate, fate l’amore?

Vi ponete il problema, o vi basta dire, “così è sempre stato e sempre sarà così”?

Davvero vi basta credere che nulla di ciò che accade dipende dal vostro impegno o dalla vostra indignazione?

Che in fondo tutti hanno di che campare e quindi tanto vale vivere la propria vita quotidiana e nient’altro.

Vi bastano queste risposte per farvi andare avanti?

Vi basta dire “non faccio niente di male, sono una persona onesta” per farvi sentire innocenti?

Lasciarvi passare le notizie sulla pelle e sull’anima. Tanto è sempre stato così, o no?

O delegare ad associazioni, chiesa, militanti, giornalisti e altri il compito di denunciare vi rende tranquilli? Di una tranquillità che vi fa andare a letto magari non felici ma in pace? Vi basta veramente?

Questo gruppo di fuoco ha ucciso soprattutto innocenti.

In qualsiasi altro paese la libertà d’azione di un simile branco di assassini avrebbe generato dibattiti, scontri politici, riflessioni.

Invece qui si tratta solo di crimini connaturati a un territorio considerato una delle province del buco del culo d’Italia.

E quindi gli inquirenti, i carabinieri e poliziotti, i quattro cronisti che seguono le vicende, restano soli.

Neanche chi nel resto del paese legge un giornale, sa che questi killer usano sempre la stessa strategia: si fingono poliziotti. Hanno lampeggiante e paletta, dicono di essere della Dia o di dover fare un controllo di documenti. Ricorrono a un trucco da due soldi per ammazzare con più facilità. E vivono come bestie: tra masserie di bufale, case di periferia, garage.

Hanno ucciso sedici persone.

La mattanza comincia il 2 maggio verso le sei del mattino in una masseria di bufale a Cancello Arnone.

Ammazzano il padre del pentito Domenico Bidognetti, cugino ed ex fedelissimo di Cicciotto e’ mezzanotte.

Umberto Bidognetti aveva 69 anni e in genere era accompagnato pure dal figlio di Mimì, che giusto quella mattina non era riuscito a tirarsi su dal letto per aiutare il nonno.

Il 15 maggio uccidono a Baia Verde, frazione di Castel Volturno, il sessantacinquenne Domenico Noviello, titolare di una scuola guida.

Domenico Noviello si era opposto al racket otto anni prima.

Era stato sotto scorta, ma poi il ciclo di protezione era finito.

Non sapeva di essere nel mirino, non se l’aspettava.

Gli scaricano addosso 20 colpi mentre con la sua Panda sta andando a fare una sosta al bar prima di aprire l’autoscuola.

La sua esecuzione era anche un messaggio alla Polizia che stava per celebrare la sua festa proprio a Casal di Principe, tre giorni dopo, e ancor più una chiara dichiarazione: può passare quasi un decennio ma i Casalesi non dimenticano.

Prima ancora, il 13 maggio, distruggono con un incendio la fabbrica di materassi di Pietro Russo a Santa Maria Capua Vetere.

È l’unico dei loro bersagli ad avere una scorta.

Perché è stato l’unico che, con Tano Grasso, tentò di organizzare un fronte contro il racket in terra casalese.

Poi, il 30 maggio, a Villaricca colpiscono alla pancia Francesca Carrino, una ragazza, venticinque anni, nipote di Anna Carrino, la ex compagna di Francesco Bidognetti, pentita.

Era in casa con la madre e con la nonna, ma era stata lei ad aprire la porta ai killer che si spacciavano per agenti della Dia.

Non passa nemmeno un giorno che a Casal di Principe, mentre dopo pranzo sta per andare al “Roxy bar”, uccidono Michele Orsi, imprenditore dei rifiuti vicino al clan che, arrestato l’anno prima, aveva cominciato a collaborare con la magistratura svelando gli intrighi rifiuti-politica-camorra.

È un omicidio eccellente che fa clamore, solleva polemiche, fa alzare la voce ai rappresentanti dello Stato. Ma non fa fermare i killer.

L’11 luglio uccidono al Lido “La Fiorente” di Varcaturo Raffaele Granata, 70 anni, gestore dello stabilimento balneare e padre del sindaco di Calvizzano.

Anche lui paga per non avere anni prima ceduto alle volontà del clan.

Il 4 agosto massacrano a Castel Volturno Ziber Dani e Arthur Kazani che stavano seduti ai tavoli all’aperto del “Bar Kubana” e, probabilmente, il 21 agosto Ramis Doda, venticinque anni, davanti al “Bar Freedom” di San Marcellino.

Le vittime sono albanesi che arrotondavano con lo spaccio, ma avevano il permesso di soggiorno e lavoravano nei cantieri come muratori e imbianchini.

Poi il 18 agosto aprono un fuoco indiscriminato contro la villetta di Teddy Egonwman, presidente dei nigeriani in Campania, che si batte da anni contro la prostituzione delle sue connazionali, ferendo gravemente lui, sua moglie Alice e altri tre amici.

Tornano a San Marcellino il 12 settembre per uccidere Antonio Ciardullo ed Ernesto Fabozzi, massacrati mentre stavano facendo manutenzione ai camion della ditta di trasporti di cui il primo era titolare.

Anche lui non aveva obbedito, e chi gli era accanto è stato ucciso perché testimone.

Infine, il 18 settembre, trivellano prima Antonio Celiento, titolare di una sala giochi a Baia Verde, e un quarto d’ora dopo aprono un fuoco di 130 proiettili di pistole e kalashnikov contro gli africani riuniti dentro e davanti la sartoria “Ob Ob Exotic Fashion” di Castel Volturno. Muoiono Samuel Kwaku, 26 anni, e Alaj Ababa, del Togo; Cristopher Adams e Alex Geemes, 28 anni, liberiani; Kwame Yulius Francis, 31 anni, e Eric Yeboah, 25, ghanesi, mentre viene ricoverato con ferite gravi Joseph Ayimbora, 34 anni, anche lui del Ghana. Solo uno o due di loro avevano forse a che fare con la droga, gli altri erano lì per caso, lavoravano duro nei cantieri o dove capitava, e pure nella sartoria.

Sedici vittime in meno di sei mesi.

Qualsiasi paese democratico con una situazione del genere avrebbe vacillato.

Qui da noi, nonostante tutto, neanche se n’è parlato. Neanche si era a conoscenza da Roma in su di questa scia di sangue e di questo terrorismo, che non parla arabo, che non ha stelle a cinque punte, ma comanda e domina senza contrasto.

Ammazzano chiunque si opponga.

Ammazzano chiunque capiti sotto tiro, senza riguardi per nessuno.

La lista dei morti potrebbe essere più lunga, molto più lunga.

E per tutti questi mesi nessuno ha informato l’opinione pubblica che girava questa “paranza di fuoco”.

Paranza, come le barche che escono a pescare insieme in alto mare.

Nessuno ne ha rivelato i nomi sino a quando non hanno fatto strage a Castel Volturno.

Ma sono sempre gli stessi, usano sempre le stesse armi, anche se cercano di modificarle per trarre in inganno la scientifica, segno che ne hanno a disposizione poche.

Non entrano in contatto con le famiglie, stanno rigorosamente fra di loro.

Ogni tanto qualcuno li intravede nei bar di qualche paesone, dove si fermano per riempirsi d’alcol.

E da sei mesi nessuno riesce ad acciuffarli.

Castel Volturno, territorio dove è avvenuta la maggior parte dei delitti, non è un luogo qualsiasi.

Non è un quartiere degradato, un ghetto per reietti e sfruttati come se ne possono trovare anche altrove, anche se ormai certe sue zone somigliano più alle hometown dell’Africa che al luogo di turismo balneare per il quale erano state costruite le sue villette.

Castel Volturno è il luogo dove i Coppola edificarono la più grande cittadella abusiva del mondo, il celebre Villaggio Coppola.

Ottocentosessantatremila metri quadrati occupati col cemento.

Che abusivamente presero il posto di una delle più grandi pinete marittime del Mediterraneo.

Abusivo l’ospedale, abusiva la caserma dei carabinieri, abusive le poste.

Tutto abusivo.

Ci andarono ad abitare le famiglie dei soldati della Nato.

Quando se ne andarono, il territorio cadde nell’abbandono più totale e divenne tutto feudo di Francesco Bidognetti e al tempo stesso territorio della mafia nigeriana.

I nigeriani hanno una mafia potente con la quale ai Casalesi conveniva allearsi, il loro paese è diventato uno snodo nel traffico internazionale di cocaina e le organizzazioni nigeriane sono potentissime, capaci di investire soprattutto nei money transfer, i punti attraverso i quali tutti gli immigrati del mondo inviano i soldi a casa.

Attraverso questi, i nigeriani controllano soldi e persone.

Da Castel Volturno transita la coca africana diretta soprattutto in Inghilterra.

Le tasse sul traffico che quindi il clan impone non sono soltanto il pizzo sullo spaccio al minuto, ma accordi di una sorta di joint venture.

Ora però i nigeriani sono potenti, potentissimi.

Così come lo è la mafia albanese, con la quale i Casalesi sono in affari.

E il clan si sta slabbrando, teme di non essere più riconosciuto come chi comanda per primo e per ultimo sul territorio.

Ed ecco che nei vuoti si insinuano gli uomini della paranza.

Uccidono dei pesci piccoli albanesi come azione dimostrativa, fanno strage di africani – e fra questi nessuno viene dalla Nigeria – colpiscono gli ultimi anelli della catena di gerarchie etniche e criminali.

Muoiono ragazzi onesti, ma come sempre, in questa terra, per morire non dev’esserci una ragione.

E basta poco per essere diffamati.

I ragazzi africani uccisi erano immediatamente tutti “trafficanti” come furono “camorristi” Giuseppe Rovescio e Vincenzo Natale, ammazzati a Villa Literno il 23 settembre 2003 perché erano fermi a prendere una birra vicino a Francesco Galoppo, affiliato del clan Bidognetti.

Anche loro furono subito battezzati come criminali.

Non è la prima volta che si compie da quelle parti una mattanza di immigrati.

Nel 1990 Augusto La Torre, boss di Mondragone, partì con i suoi fedelissimi alla volta di un bar che, pur gestito da italiani, era diventato un punto di incontro per lo spaccio degli africani.

Tutto avveniva sempre lungo la statale Domitiana, a Pescopagano, pochi chilometri a nord di Castel Volturno, però già in territorio mondragonese.

Uccisero sei persone, fra cui il gestore, e ne ferirono molte altre.

Anche quello era stato il culmine di una serie di azioni contro gli stranieri, ma i Casalesi che pure approvavano le intimidazioni non gradirono la strage.

La Torre dovette incassare critiche pesanti da parte di Francesco “Sandokan” Schiavone.

Ma ora i tempi sono cambiati e permettono di lasciar esercitare una violenza indiscriminata a un gruppo di cocainomani armati.

Chiedo di nuovo alla mia terra che immagine abbia di sé.

Lo chiedo anche a tutte quelle associazioni di donne e uomini che in grande silenzio qui lavorano e si impegnano.

A quei pochi politici che riescono a rimanere credibili, che resistono alle tentazioni della collusione o della rinuncia a combattere il potere dei clan.

A tutti coloro che fanno bene il loro lavoro, a tutti coloro che cercano di vivere onestamente, come in qualsiasi altra parte del mondo.

A tutte queste persone. Che sono sempre di più, ma sono sempre più sole.

Come vi immaginate questa terra?

Se è vero, come disse Danilo Dolci, che ciascuno cresce solo se è sognato, voi come ve li sognate questi luoghi?

Non c’è stata mai così tanta attenzione rivolta alle vostre terre e quel che vi è avvenuto e vi avviene.

Eppure non sembra cambiato molto. I due boss che comandano continuano a comandare e ad essere liberi. Antonio Iovine e Michele Zagaria. Dodici anni di latitanza.

Anche di loro si sa dove sono.

Il primo è a San Cipriano d’Aversa, il secondo a Casapesenna. In un territorio grande come un fazzoletto di terra, possibile che non si riesca a scovarli?

È storia antica quella dei latitanti ricercati in tutto il mondo e poi trovati proprio a casa loro.

Ma è storia nuova che ormai ne abbiano parlato più e più volte giornali e tv, che politici di ogni colore abbiano promesso che li faranno arrestare.

Ma intanto il tempo passa e nulla accade.

E sono lì. Passeggiano, parlano, incontrano persone.

Ho visto che nella mia terra sono comparse scritte contro di me. Saviano merda. Saviano verme. E un’enorme bara con il mio nome. E poi insulti, continue denigrazioni a partire dalla più ricorrente e banale: “Quello s’è fatto i soldi”.

Col mio lavoro di scrittore adesso riesco a vivere e, per fortuna, pagarmi gli avvocati.

E loro? Loro che comandano imperi economici e si fanno costruire ville faraoniche in paesi dove non ci sono nemmeno le strade asfaltate?

Loro che per lo smaltimento di rifiuti tossici sono riusciti in una sola operazione a incassare sino a 500 milioni di euro e hanno imbottito la nostra terra di veleni al punto tale di far lievitare fino al 24% certi tumori, e le malformazioni congenite fino all’84% per cento?

Soldi veri che generano, secondo l’Osservatorio epidemiologico campano, una media di 7.172,5 morti per tumore all’anno in Campania.

E ad arricchirsi sulle disgrazie di questa terra sarei io con le mie parole, o i carabinieri e i magistrati, i cronisti e tutti gli altri che con libri o film o in ogni altro modo continuano a denunciare?

Com’è possibile che si crei un tale capovolgimento di prospettive?

Com’è possibile che anche persone oneste si uniscano a questo coro?

Pur conoscendo la mia terra, di fronte a tutto questo io rimango incredulo e sgomento e anche ferito al punto che fatico a trovare la mia voce.

Perché il dolore porta ad ammutolire, perché l’ostilità porta a non sapere a chi parlare.

E allora a chi devo rivolgermi, che cosa dico?

Come faccio a dire alla mia terra di smettere di essere schiacciata tra l’arroganza dei forti e la codardia dei deboli?

Oggi qui in questa stanza dove sono, ospite di chi mi protegge, è il mio compleanno.

Penso a tutti i compleanni passati così, da quando ho la scorta, un po’ nervoso, un po’ triste e soprattutto solo.

Penso che non potrò mai più passarne uno normale nella mia terra, che non potrò mai più metterci piede.

Rimpiango come un malato senza speranze tutti i compleanni trascurati, snobbati perché è solo una data qualsiasi, e un altro anno ce ne sarà uno uguale.

Ormai si è aperta una voragine nel tempo e nello spazio, una ferita che non potrà mai rimarginarsi.

E penso pure e soprattutto a chi vive la mia stessa condizione e non ha come me il privilegio di scriverne e parlare a molti.

Penso ad altri amici sotto scorta, Raffaele, Rosaria, Lirio, Tano, penso a Carmelina, la maestra di Mondragone che aveva denunciato il killer di un camorrista e che da allora vive sotto protezione, lontana, sola. Lasciata dal fidanzato che doveva sposare, giudicata dagli amici che si sentono schiacciati dal suo coraggio e dalla loro mediocrità.

Perché non c’era stata solidarietà per il suo gesto, anzi, ci sono state critiche e abbandono.

Lei ha solo seguito un richiamo della sua coscienza e ha dovuto barcamenarsi con il magro stipendio che le dà lo stato.

Cos’ha fatto Carmelina, cos’hanno fatto altri come lei per avere la vita distrutta e sradicata, mentre i boss latitanti continuano a poter vivere protetti e rispettati nelle loro terre?

E chiedo alla mia terra: che cosa ci rimane? Ditemelo. Galleggiare? Far finta di niente? Calpestare scale di ospedali lavate da cooperative di pulizie loro, ricevere nei serbatoi la benzina spillata da pompe di benzina loro? Vivere in case costruite da loro, bere il caffè della marca imposta da loro (ogni marca di caffè per essere venduta nei bar deve avere l’autorizzazione dei clan), cucinare nelle loro pentole (il clan Tavoletta gestiva produzione e vendita delle marche più prestigiose di pentole)?

Mangiare il loro pane, la loro mozzarella, i loro ortaggi? Votare i loro politici che riescono, come dichiarano i pentiti, ad arrivare alle più alte cariche nazionali? Lavorare nei loro centri commerciali, costruiti per creare posti di lavoro e sudditanza dovuta al posto di lavoro, ma intanto non c’è perdita, perché gran parte dei negozi sono loro?

Siete fieri di vivere nel territorio con i più grandi centri commerciali del mondo e insieme uno dei più alti tassi di povertà?

Passare il tempo nei locali gestiti o autorizzati da loro? Sedervi al bar vicino ai loro figli, i figli dei loro avvocati, dei loro colletti bianchi? E trovarli simpatici e innocenti, tutto sommato persone gradevoli, perché loro in fondo sono solo ragazzi, che colpa hanno dei loro padri.

E infatti non si tratta di stabilire colpe, ma di smettere di accettare e di subire sempre, smettere di pensare che almeno c’è ordine, che almeno c’è lavoro, e che basta non grattare, non alzare il velo, continuare ad andare avanti per la propria strada.

Che basta fare questo e nella nostra terra si è già nel migliore dei mondi possibili, o magari no, ma nell’unico mondo possibile sicuramente.

Quanto ancora dobbiamo aspettare? Quanto ancora dobbiamo vedere i migliori emigrare e i rassegnati rimanere?

Siete davvero sicuri che vada bene così? Che le serate che passate a corteggiarvi, a ridere, a litigare, a maledire il puzzo dei rifiuti bruciati, a scambiarvi quattro chiacchiere, possano bastare? Voi volete una vita semplice, normale, fatta di piccole cose, mentre intorno a voi c’è una guerra vera, mentre chi non subisce e denuncia e parla perde ogni cosa. Come abbiamo fatto a divenire così ciechi? Così asserviti e rassegnati, così piegati?

Come è possibile che solo gli ultimi degli ultimi, gli africani di Castel Volturno che subiscono lo sfruttamento e la violenza dei clan italiani e di altri africani, abbiano saputo una volta tirare fuori più rabbia che paura e rassegnazione?

Non posso credere che un sud così ricco di talenti e forze possa davvero accontentarsi solo di questo.

La Calabria ha il Pil più basso d’Italia ma “Cosa Nuova”, ossia la ‘ndrangheta, fattura quanto e più di una intera manovra finanziaria italiana.

Alitalia sarà in crisi, ma a Grazzanise, in un territorio marcio di camorra, si sta per costruire il più grande aeroporto italiano, il più vasto del Mediterraneo.

Una terra condannata a far circolare enormi capitali senza avere uno straccio di sviluppo vero, e invece ha danaro, profitto, cemento che ha il sapore del saccheggio, non della crescita.

Non posso credere che riescano a resistere soltanto pochi individui eccezionali.

Che la denuncia sia ormai solo il compito dei pochi singoli, preti, maestri, medici, i pochi politici onesti e gruppi che interpretano il ruolo della società civile.

E il resto? Gli altri se ne stanno buoni e zitti, tramortiti dalla paura?

La paura. L’alibi maggiore. Fa sentire tutti a posto perché è in suo nome che si tutelano la famiglia, gli affetti, la propria vita innocente, il proprio sacrosanto diritto a viverla e costruirla.

Ma non avere più paura non sarebbe difficile.

Basterebbe agire, ma non da soli.

La paura va a braccetto con l’isolamento. Ogni volta che qualcuno si tira indietro crea altra paura, che crea ancora altra paura, in un crescendo esponenziale che immobilizza, erode, lentamente manda in rovina.

“Si può edificare la felicità del mondo sulle spalle di un unico bambino maltrattato?”, domanda Ivan Karamazov a suo fratello Aljosha.

Ma voi non volete un mondo perfetto, volete solo una vita tranquilla e semplice, una quotidianità accettabile, il calore di una famiglia.

Accontentarvi di questo pensate che vi metta al riparo da ansie e dolori.

E forse ci riuscite, riuscite a trovare una dimensione in cui trovate serenità. Ma a che prezzo?

Se i vostri figli dovessero nascere malati o ammalarsi, se un’altra volta dovreste rivolgervi a un politico che in cambio di un voto vi darà un lavoro senza il quale anche i vostri piccoli sogni e progetti finirebbero nel vuoto, quando faticherete ad ottenere un mutuo per la vostra casa mentre i direttori delle stesse banche saranno sempre disponibili con chi comanda, quando vedrete tutto questo forse vi renderete conto che non c’è riparo, che non esiste nessun ambito protetto, e che l’atteggiamento che pensavate realistico e saggiamente disincantato vi ha appestato l’anima di un risentimento e rancore che toglie ogni gusto alla vostra vita.

Perché se tutto ciò è triste la cosa ancora più triste è l’abitudine.

Abituarsi che non ci sia null’altro da fare che rassegnarsi, arrangiarsi o andare via.

Chiedo alla mia terra se riesce ancora ad immaginare di poter scegliere.

Le chiedo se è in grado di compiere almeno quel primo gesto di libertà che sta nel riuscire a pensarsi diversa, pensarsi libera.

Non rassegnarsi ad accettare come un destino naturale quel che è invece opera degli uomini.

Quegli uomini possono strapparti alla tua terra e al tuo passato, portarti via la serenità, impedirti di trovare una casa, scriverti insulti sulle pareti del tuo paese, possono fare il deserto intorno a te.

Ma non possono estirpare quel che resta una certezza e, per questo, rimane pure una speranza.

Che non è giusto, non è per niente naturale, far sottostare un territorio al dominio della violenza e dello sfruttamento senza limiti.

E che non deve andare avanti così perché così è sempre stato. Anche perché non è vero che tutto è sempre uguale, ma è sempre peggio.

Perché la devastazione cresce proporzionalmente con i loro affari, perché è irreversibile come la terra una volta per tutte appestata, perché non conosce limiti.

Perché là fuori si aggirano sei killer abbrutiti e strafatti, con licenza di uccidere e non mandato, che non si fermano di fronte a nessuno.

Perché sono loro l’immagine e somiglianza di ciò che regna oggi su queste terre e di quel che le attende domani, dopodomani, nel futuro. Bisogna trovare la forza di cambiare.

Ora, o mai più.



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