venerdì 28 luglio 2023

Lo rifarà?

Con sentenza n. 34380/22 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione avevano cassato la decisione della  Sezione Disciplinare del CSM secondo cui interferire sulla vita professionale dei colleghi confabulando coi consiglieri superiori per spingere l'amico (di corrente) e osteggiare il nemico non avrebbe leso il canone della correttezza.

Le puntate precedenti sono leggibili qui qui.

Quella presidente del Tribunale era stata, infine, assolta dall'addebito non perché i fatti non fossero veri ma perché ritenuti di "scarsa rilevanza" da un giudice disciplinare composto da soggetti (i consiglieri superiori) evidentemente ben felici di raccogliere le pressioni del territorio e quindi assecondare i loro serbatoi elettorali.  

Così quei fatti - sussistenti - non le hanno impedito di ottenere (a maggioranza) la riconferma nel suo ruolo di presidente del tribunale.

A questo punto la domanda è: continuerà a spadroneggiare sulla vita professionale dei colleghi utilizzando canali di conoscenza privilegiati e non formali?

Se questa è la condizione dei magistrati in Italia sia evidente a tutti che non possono garantire i diritti dei cittadini perché non sono indipendenti risultando violate tutte  le procedure che sovraintendono alla loro vita professionale, decisa secondo percorsi occulti.    

Occulti perché i dati raccolti attraverso confabulazioni private non entrano nelle carte dell'istruttoria - sulla cui base il CSM dovrebbe adottare le sue deliberazioni - e sono a conoscenza solo di alcuni consiglieri superiori, di solito quelli della corrente di appartenenza del segnalante.  

Il messaggio dato dal CSM ai giovani colleghi con le ultime decisioni che hanno relegato nell'irrilevanza condotte invece molto gravi è, in definitiva, assai desolante.

E' la conferma della totale inefficacia della finta riforma del CSM di cui si vantava il ministro Cartabia.

Fuffa. 




Continua - Leggi tutto l'articolo

lunedì 24 luglio 2023

La logica della loggia.




di Nicola Saracino - Magistrato 


Chi, da oggi in poi, continuerà a chiamarlo “il sistema Palamara” commetterà un falso imperdonabile. 

Perché Palamara è morto (figurativamente, non è più un magistrato), il sistema gli è sopravvissuto e gode di eccellente salute. 

Luca Palamara era stato rimosso dalla magistratura per un fatto ben preciso, collegato alle captazioni avvenute all’interno dell’Hotel Champagne. 

Con altri soggetti (consiglieri superiori, parlamentari) si confabulava sulle sorti della Procura di Roma, in prossimità della scelta, ad opera del Consiglio superiore della magistratura, del suo nuovo “capo”. 

Ebbene il giudice disciplinare ha applicato a Luca Palamara la sanzione più grave (rimozione dall’ordine giudiziario) addebitandogli di aver interferito su scelte proprie del CSM, da compiere in autonomia e senza suggerimenti, per così dire, esterni al Consiglio. 

Il fenomeno delle chat rese pubbliche dal trojan non ha avuto, in sostanza, quasi  alcun rilievo nella rimozione dell’ex presidente dell’Associazione Nazionale dei Magistrati dall’ordine giudiziario, poi avallata dalla Corte di cassazione. 

Sul versante penale, come  si sa, tutto si è chiuso con un patteggiamento per ipotesi di reato quasi bagatellari se confrontate con quelle poste alla base dei provvedimenti che autorizzarono le captazioni sul cellulare dell'indagato, che non si sarebbero potute fare se, sin dall’origine, gli indizi fossero stati letti con maggiore prudenza,  il che avrebbe dovuto far escludere ogni ipotesi di corruzione. 

La retromarcia della procura perugina (che si è rimangiata tutte le accuse più gravi per lasciare sul tavolo solo quella di un generico “traffico di influenze”) è infatti avvenuta prima ancora che l’istruttoria dibattimentale avesse luogo e quindi non è dipesa da elementi forniti dalla difesa dell’imputato che non fossero già a sua conoscenza prima della richiesta di giudizio per fatti corruttivi. 

Ma tant’è, dalle captazioni palamariane è scaturito ampio clamore mediatico accompagnato dallo sconcerto  istituzionale di rito  e dall’evocazione, in seno allo stesso CSM, di pericolose derive massoniche paragonabili alla loggia P2. 

Il “sistema” disvelato al grande pubblico dalla lettura delle chat era, in realtà, già  noto  ai magistrati che in gran numero lo alimentavano con le loro forsennate aspirazioni carrieristiche. 

La raccomandazione era eretta, per l’appunto, a sistema. 

Nonostante il coinvolgimento di numerosi membri,  il precedente CSM non venne sciolto dal Presidente della Repubblica e si tennero  nuove elezioni per soppiantare i consiglieri “spintaneamente” dimessisi dall’incarico. 

La Procura generale della cassazione,  titolare dell’azione disciplinare (insieme ad un Ministro della Giustizia mai pervenuto sullo specifico  tema), aveva sostanzialmente graziato i questuanti, cioè i carrieristi che pietivano il voto per ottenere il posto ambito. 

Tanto è stato scritto su quanto sciagurata fosse stata quella scelta ed è inutile ripetersi. 

Erano invece incorsi in sanzione disciplinare gli autori di condotte  volte a danneggiare un concorrente, specialmente se ciò fosse avvenuto per ragioni di appartenenza correntizia (soci dello stesso gruppo di potere togato). 

Sanzione che era stata comminata anche ad un presidente di un tribunale del nord che nei giorni scorsi era sottoposto alla valutazione del CSM di  conferma al posto direttivo per il secondo quadriennio. 

Il CSM, a maggioranza, ha stabilito che quel presidente potesse continuare l’incarico nonostante la precedente condanna disciplinare. 

Ci può stare, in astratto. 

Senonché, alle solite diatribe correntizie che hanno fatto seguito a quella votazione, con la minoranza che gridava  all’ennesimo scandalo, i consiglieri di maggioranza (quelli, cioè, che col loro voto avevano valutato positivamente il presidente, confermandolo) hanno reagito offrendo delle spiegazioni che paiono in netto contrasto con le scelte sin qui  compiute ed ampiamente pubblicizzate dallo stesso CSM in sede disciplinare, di trasferimento d’ufficio per incompatibilità cd ambientale, di valutazione della professionalità.

Si noti che una toga  con un precedente disciplinare non può nemmeno far da relatore ad un corso di formazione per i neo   magistrati. 

In questo caso era stata ritenuta idonea alla presidenza di un tribunale.

Ebbene, pubblicamente nella seduta del  CSM del 19 luglio un consigliere superiore ha affermato: "Vi invito a essere un pò coerenti con noi stessi. Chi di voi non prende informazioni sul territorio quando va in una nomina? Chi di voi non chiama qualcuno che conosce  sul territorio per sapere che tipo è quel collega o non riceve in maniera indiretta o diretta informazioni sul collega?"

Nei giorni successivi i consiglieri di MI (Magistratura Indipendente) hanno lamentato l’inefficacia delle procedure interne di valutazione dei magistrati  - dettate dallo stesso CSM ed attuate dai Consigli Giudiziari periferici, dislocati su tutto il territorio nazionale – tanto da giustificare il ricorso a fonti di conoscenza non catalogate dalle norme e gli interessamenti degli estranei al procedimento purché mossi da “interesse pubblico”. 

Un uno-due che, in termini pugilistici, mette knock-out gli interessati  cantori della favoletta del cd “sistema Palamara”. 

Palamara è stato rimosso per aver confabulato sulla scelta del procuratore di Roma, per giunta caldeggiando un candidato di indiscusso valore come Marcello Viola  che, vinto il ricorso contro la sua bocciatura a quella carica,  ottenne in seguito dallo stesso CSM il posto, di pari prestigio, di Procuratore della Repubblica di Milano.

Chi ha stabilito e come che l’intervento di Palamara fosse contrario all’interesse pubblico?  

Nessuno.

Eppure la condanna disciplinare di Luca Palamara è passata in cosa giudicata. 

Personalmente ho sempre ritenuto quella sanzione eccessivamente severa, ma non ingiusta. 

Perché non rileva che un magistrato sia mosso da un “interesse pubblico” quando raccomanda ed interferisce sull’operato del CSM; quel che rileva è la modalità, platealmente illecita, di chi si immischia in affari esulanti dalla sua competenza, regolata dalla legge e dalle circolari.  

A garanzia di tutti. 

Perché un magistrato che voglia concorrere ad un qualsiasi posto non deve temere interferenze esterne di colleghi che non hanno titolo per esprimere alcun giudizio nei suoi riguardi, né deve sollecitare raccomandazioni per caldeggiare la sua posizione. 

Esiste un procedimento amministrativo con regole ben precise sulla relativa istruttoria. 

Ovvio che se il CSM si fa influenzare da elementi estranei al fascicolo molte sue decisioni poi cadano sotto la scure del giudice amministrativo. 

Il ricorso a fonti di conoscenza spurie, non regolamentate, non controllabili né verificabili nella loro attendibilità,  inserisce preoccupanti elementi di “massoneria”  nell’organizzazione magistratuale, proprio come pubblicamente denunciato subito dopo i fatti dell'Hotel Champagne.

Se davvero questi sono i metodi ai quali fanno ricorso i consiglieri superiori è concreto il rischio di affidare a potentati di qualsiasi natura, comunque illecita, la scelta dei vertici degli uffici giudiziari.  

Con quella logica  - aberrante – i consiglieri superiori eletti dal Parlamento (quindi non magistrati) potrebbero legittimamente raccogliere dossier sui magistrati coinvolti in procedure di interesse del Consiglio Superiore, al di fuori di ogni garanzia formale e sostanziale. 

Abbiamo un problema: il Sistema non  era Palamara.  


Continua - Leggi tutto l'articolo

venerdì 7 luglio 2023

I garantiti.


di Nicola Saracino - Magistrato 

La divisione tra giustizialisti e garantisti offre, da sempre, una visione squilibrata della giustizia perché 
la spada non dovrebbe mai prevalere sulla bilancia, né viceversa. 

Le cronache di questi giorni, oltre a riproporre l’atavico scontro tra due visioni, entrambe strabiche, suggeriscono l’idea di uno strappo ulteriore che col garantismo nulla ha a che vedere.
 
Questa “filosofia” aveva sempre operato, sul piano normativo, ampliando le garanzie di carattere processuale volte a limitare indebite anticipazioni di “pena”   sotto le mentite spoglie di misure cautelari ovvero esigendo un maggiore grado di gravità degli indizi necessari all’affermazione di colpevolezza.

Ebbene,  persino l’abrogazione dell’abuso d’ufficio è stata spacciata, senza troppa cautela, come misura di stampo “garantista”, trascurando totalmente che questa volta è stata eliminata una norma di carattere sostanziale, punitiva: la stessa norma incriminatrice.
 
E poiché l’abuso era il reato tipico dei pubblici ufficiali,  per effetto della sua eliminazione si può affermare che abusare del potere non è reato. 

Con questo intervento  - definitivamente caducatorio di una norma penale già resa moribonda per via di precedenti mutilazioni operate da chi oggi simula un pianto da coccodrillo – il potere si è, senz’altro, “garantito”. 

Ma ciò non ha nulla a che vedere con le garanzie che assistono i comuni cittadini che incappino nel processo penale,  anzi non c’è più difesa dagli abusi di potere, ormai non più punibili.  Probabilmente neanche da quelli dei magistrati. 

L’attualità, poi,  costringe a sillabare i fondamentali dell’azione penale italiana, voluta “obbligatoria” dal Costituente. 

L’obbligatorietà è tale solo se esiste un controllo sul corretto esercizio dell’azione penale che, sul piano processuale, è stato attuato assegnando ad un giudice (il Giudice per le indagini preliminari) il compito di contraddire il pubblico ministero che non voglia muovere un’accusa nonostante le contrarie indicazioni delle indagini; in tal caso glielo impone, con un vero e proprio “ordine”. 

Questo è un atto di ragione e non di volontà, non conta nulla che il pubblico ministero non “voglia” esercitare l’accusa in una determinata vicenda. 

Lo dovrà fare perché così impone la legge, per il tramite dell’ordine del giudice. 

E non conta nulla che quello stesso pubblico ministero probabilmente chiederà l’assoluzione o il non luogo a procedere nel prosieguo del processo. 

Quello che conta, invece, è che il processo si farà ed il suo esito non è legato alle richieste del pubblico ministero, potendo sfociare in condanna anche contro il suo parere. 

Questo è il quadro. 

Le contrarie aspirazioni di chi vorrebbe un pubblico ministero totalmente libero di agire o non agire, secondo volontà e non secondo ragione, implicherebbero l’abrogazione anche di un altro reato tipico dei pubblici ufficiali, quello di rifiuto od omissione di atti d’ufficio. 

Perché l’arbitrio, l’idea che il potere può tutto, totalmente estranea al pensiero liberale, esige garanzie. 

D'impunità. 


Continua - Leggi tutto l'articolo