mercoledì 21 luglio 2010

Salvate il soldato “Fofò”. Ovvero dei veri “padroni” de “La Magistratura”.




di Felice Lima
(Giudice del Tribunale di Catania)






da Il Fatto Quotidiano online del 22 luglio 2010


Chi è “Fofò”?

Il Presidente della Corte di Appello di Milano Alfonso Marra.

Lo so, sembra impossibile che il più importante e potente magistrato dell’intero distretto della Corte di Appello di Milano abbia un nomignolo come quello. Ma la realtà è questa.

Ancora più strano è chi lo chiami così.

Non la moglie, non le adorate nipotine, né gli amici del cuore.

Ma un tipo (il geom. Antonio Lombardi) che in questi giorni è in galera perché accusato di far parte di una associazione segreta intenta a interferire sull’amministrazione della giustizia fino al C.S.M. e alla Corte Costituzionale.

E perché “Fofò” si sentiva al telefono con Lombardi?

Perché “Fofò”, che allora era Presidente della Corte di Appello di Brescia, voleva diventare Presidente della Corte di Appello di Milano e, per riuscirci, ha ritenuto ragionevole “tramare” con Lombardi, pressandolo perché a sua volta lo raccomandasse prima e pressasse poi i Consiglieri del C.S.M., ivi compresi il Vicepresidente dello stesso C.S.M. e il Primo Presidente della Corte di Cassazione.

Il tenore delle conversazioni e il livello delle discussioni fra “Fofò” e Lombardi può trarsi dalla trascrizione di una delle telefonate, che Il Fatto Quotidiano ha pubblicato a questo link.

Il tipo di “entrature” del Lombardi al C.S.M. e il grado di “indipendenza” del C.S.M. si possono trarre da un altro articolo de Il Fatto Quotidiano a questo link.

Un’idea abbastanza chiara su “Fofò” Marra ce la si può fare ascoltando la sua viva voce in una intervista fattagli da Antonella Mascali che è a questo link (ascoltate questa intervista, è davvero preziosa e illuminante).

A questo link e a quest’altro i rapporti di Lombardi con il Vicepresidente del C.S.M. Mancino e il coinvolgimento del Lombardi nelle nomine di altri importanti magistrati.

E la domanda rimasta senza risposta è: ma a che titolo Mancino, Tinelli e altri accettano che un Lombardi qualunque eserciti – foss’anche senza successo – pressioni su di loro con riferimento alla nomina di magistrati ai vertici di importanti uffici giudiziari?

E che senso ha, cosa significa la frase di Mancino: «Gli ultimi avvenimenti relativi all’inchiesta sull’associazione segreta Loggia P3 gettano un cono d’ombra, ma non credo che possano incidere sulla sostanza dell'attività che abbiamo svolto al Csm»?

Che cos’è concretamente “un cono d’ombra che non incide sulla sostanza dell’attività”?

Comunque sia, quando si scopre come “Fofò” ha ottenuto la sua poltrona e che rapporti avesse con chi, come si suol dire … è scoppiato lo scandalo!

E tutti – anche le persone con più esperienza di cose della “giustizia” e meno ingenue – hanno pensato: “Adesso questi se ne vanno a casa”.

E nelle prime ore dello scandalo – prima che “i padroni” entrassero in azione – c’è stato un certo sconcerto anche al C.S.M.. Così che, nella confusione generale, qualcuno ha chiesto è ottenuto che si aprisse una pratica ex art. 2 della legge sulle guarentigie per dichiarare “Fofò” incompatibile con la sua poltrona e trasferirlo.

I giornali, allora, anche i più attenti, hanno titolato: “Marra trasferito”.

Alcuni titoli del genere a questi link: SkyTG24, La Repubblica, RaiNews24, Avvenire.

Ma i titoli erano sbagliati.

Perché, come ho scritto nel mio precedente post («Il marcio de “La Magistratura”»), Marra non è stato affatto trasferito e il C.S.M. ha solo aperto una pratica ex art. 2 della Legge sulle Guarentigie (R.D.L.vo 511/1946).

E ho aggiunto: “Se conosco bene questi meccanismi (e purtroppo li conosco bene), tendenzialmente accadrà quanto segue:

- questo C.S.M. ha aperto la pratica, ma non la tratterà, perché scade il 31 luglio (e, d’altra parte, come avrebbe potuto trattarla, se, il Consigliere Tinelli, finita anche lei sui giornali in questi giorni, si difende dicendo che Lombardi al C.S.M. era di casa?);

- il nuovo C.S.M. si occuperà della cosa non prima di ottobre e allora altri scandali occuperanno le pagine dei giornali e nessuno si ricorderà di Marra;

- quando la pratica verrà trattata, si osserverà che non si può utilizzare la procedura ex art. 2 della Legge sulle Guarentigie per fatti colpevoli;

- qualcuno ricorderà che con Clementina Forleo l’hanno usata illegittimamente (tanto che il TAR ha annullato il trasferimento) e loro diranno: “Con la Forleo abbiamo sbagliato, ora non possiamo sbagliare ancora”;

- qualcuno allora dirà “Bene, allora fategli il processo disciplinare”, ma poiché Palamara e Cascini non invocheranno la stessa tempestiva mannaia calata su Apicella, Nuzzi e Verasani, limitandosi a chiedere con umile cortesia le dimissioni spontanee di non si sa chi (perché nessun nome viene neppure fatto), la cosa andrà avanti per le lunghe e Marra farà in tempo a maturare il limite massimo di età pensionabile”.

Pensavo, comunque, che questa procedura, diciamo meglio la battaglia per lasciare “Fofò” al suo posto, per “salvare il soldato Fofò” sarebbe stata, comunque, portata avanti con prudenza, lentamente, lasciando passare un po’ di tempo, facendo in modo che non si notasse troppo, aspettando che la gente si scordasse i fatti.

E invece anche io sono stato ingenuo.

Il livello delle nostre istituzioni è tale che soldati come “Fofò” non vengono lasciati esposti al rischio di sanzioni neppure per poche ore.

E così dai massimi vertici dello Stato sono arrivati i soccorsi.

Il Presidente del Consiglio ha detto che l’inchiesta sulla c.d. P3 è solo una montatura.

Il Ministro Alfano ha ammonito tutti, raccomandando di «evitare una caccia alle streghe».

Il Presidente della Repubblica è intervenuto esigendo il rinvio della trattazione della pratica e prescrivendo che, quando la si tratterà (se la si tratterà), lo si faccia in termini assolutamente «generali [e, dunque, del tutto e inutilmente generici] e propositivi [??!!]», «senza gettare ombre …» e «senza interferire con le indagini».

La notizia a questo link. E a questo link il commento di Paolo Flores D’Arcais che titola “Il Presidente Napolitano ha messo il bavaglio al C.S.M.”.

Ma non è bastato, perché chissà cosa poteva ancora capitare a “Fofò”.

“Fofò” poteva aspettare ottobre con l’ansia di non sapere come andava a finire.

Così che la Procura Generale della Cassazione ha avviato un processo disciplinare.

E subito, come avevo previsto, si è detto: “Alt!! Stop!! Ma se c’è il processo disciplinare la procedura di incompatibilità si deve fermare”.

Ma non basta!

Perché la Procura Generale della Cassazione NON ha chiesto per “Fofò” alcuna misura cautelare.

Il risultato è nella agenzia di stampa che si può leggere a questo link.

Riporto qui sotto il testo integrale della agenzia (1). Il titolo dice tutto: «P3/ Atti Csm a pg Cassazione, STOP a trasferimento Marra».

In sostanza, “Fofò” resta saldamente al suo posto. E noi ci teniamo a presiedere la Corte di Appello di Milano (mica la bocciofila di Poggiofiorito) una persona nella imbarazzante situazione di “Fofò”.

“Fofò” è nato il 20.11.1938. E’ già ampiamente in età da pensione. Ma raggiungerà il limite massimo di età e sarà costretto alla pensione il 20.11.2013.

Dunque, a meno che il Governo non aumenti – come proposto per il Presidente della Cassazione Carbone, proprio su sollecitazione di Lombardi – il limite massimo di età dei magistrati, Milano tornerà ad avere un Presidente di Corte di Appello con un nomignolo più adeguato solo alla fine del 2013.

Perché sia chiaro chi fa cosa e perché, dovete sapere che le stesse Autorità che stanno gestendo il “caso Marra” hanno gestito poco più di un anno fa il caso “Salerno/Catanzaro”.

Quel caso nacque quando due pubblici ministeri di Salerno, Gabriella Nuzzi e Dionigio Verasani, si misero a indagare su fatti di malaffare proprio uguali uguali a quelli che hanno portato in galera in questi giorni Lombardi, Carboni & Co..

Subito il potere “insorse”.

Contro il malaffare?

Ma no!!! Contro Nuzzi e Verasani. E contro il Procuratore Capo Apicella, reo di avere permesso a Nuzzi e Verasani di adottare un decreto di perquisizione e sequestro poi ritenuto del tutto legittimo e confermato dal competente Tribunale del riesame.

E cosa ha fatto il potere nella vicenda “Salerno/Catanzaro”?

Il Presidente della Repubblica è intervenuto subito. Quella volta non per chiedere rinvii, ma interventi tempestivi.

I vertici dell’A.N.M. – il Presidente Luca Palamara e il Segretario Giuseppe Cascini – hanno pregato da tutte le testate giornalistiche il Ministro di intervenire al più presto.

Il Ministro Alfano è subito intervenuto, mandando Arcibaldo Miller, detto “Arci”, a inquisire i magistrati “buoni”. Si, proprio “Arci”. Lo stesso “Arci” che andava a cena a casa di Verdini con Dell’Utri, Caliendo & Co.. Ma non a parlare di cose “cattive”, ma della sua possibile candidatura (sua dello stesso “Arci”) a Presidente della Regione Campania (la notizia a questo link).

Quando si dice l’uomo giusto al posto giusto nel momento giusto: Arcibaldo Miller, detto “Arci”. Ovviamente, ancora saldamente anche lui al suo posto. Per evitare “cacce alle streghe”.

La Procura Generale ha avviato un procedimento.

Ma per Apicella, Nuzzi e Verasani è stata chiesta una misura cautelare.

E il C.S.M.?

Rapido e infallibile.

Nessun rinvio.

In pochi giorni il Procuratore Apicella è stato sospeso dalle funzioni e dallo stipendio e Gabriella Nuzzi e Dionigio Verasani sono stati cacciati dal loro ufficio.

Le loro indagini si sono fermate.

Perché siano stati cacciati non è chiarissimo. L’accusa più grave: la motivazione del decreto di sequestro troppo lunga !!!???

Chi volesse approfondire l’argomento troverà materiale di studio (79 articoli) a questo link.

E ancora prima dei colleghi di Salerno, già Luigi De Magistris e Clementina Forleo erano stati trasferiti con provvedimenti velocissimi e di dubbia legittimità. Il trasferimento di Clementina, anzi, certamente illegale, come accertato e dichiarato dal T.A.R. competente.

Concludo e mi scuso per la lunghezza di questo scritto (ma credo che i fatti complessi abbiano bisogno di ricostruzioni complesse).

Luigi De Magistris, Clementina Forleo, Luigi Apicella, Gabriella Nuzzi e Dionigio Verasani non sono più ai loro posti.

Sono stati cacciati grazie anche all’intervento del Presidente della Repubblica, del Ministro della Giustizia, della Procura Generale della Cassazione, dei vertici dell’Associazione Nazionale Magistrati.

“Fofò” e “Arci” (ma anche Caliendo e Marconi) sono saldamente ai loro posti e ci resteranno.

Grazie anche all’intervento del Presidente della Repubblica, del Ministro della Giustizia, della Procura Generale della Cassazione e – questa volta omissivamente – dei vertici dell’Associazione Nazionale Magistrati.

Quali conseguenze dobbiamo trarre da tutto questo sembra inutile dirlo. E comunque è troppo doloroso.

Sembra, comunque, che si possa confermare quanto ho già scritto qualche giorno fa: c’è molto marcio dentro “La Magistratura” e un’operazione trasparenza non è mai neppure cominciata. Forse bisogna aggiungere: e c’è chi è attivamente impegnato perché non cominci mai.

In ogni caso, “La Magistratura” caccia tipi come De Magistris, Forleo, Apicella, Nuzzi e Verasani (che i ptreisti li indagavano) e si tiene tipi come “Fofò”, “Arci” & Co. (che con i pitreisti ci vanno bellamente a cena).



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(1) P3/ Atti Csm a pg Cassazione, stop a trasferimento Marra
Roma, 21 lug. (Apcom) - L’avvio dell’azione disciplinare a carico del presidente della Corte d’appello di Milano, Alfonso Marra, farà venir meno il potere della Prima Commissione del Csm sul caso e porterà al blocco della procedura di trasferimento d’ufficio del magistrato. La Commissione di Palazzo Marescialli, alla fine, dovrà quindi trasmettere – è la spiegazione fornita a Palazzo dei Marescialli – i propri atti al pg della Cassazione: ciò significa che l’audizione di Marra, prevista per lunedì mattina, resta convocata, ma secondo i consiglieri il magistrato non si presenterà. Inoltre, svariati componenti della Commissione sono “amareggiati” dal fatto che, non avendo il pg della Cassazione chiesto alcuna misura cautelare a carico di Marra e con i tempi previsti dall’iter disciplinare, potranno essere necessari anche anni per arrivare a una soluzione della vicenda. Anni durante i quali, fanno notare a Palazzo Marescialli, Marra resterà al suo posto: essendo il magistrato nato nel 1938 e quindi prossimo alla pensione (mancano 3 anni), è il ragionamento a Palazzo Marescialli, potrebbe addirittura restare ai vertici della Corte d’appello di Milano fino a fine carriera. Nonostante questo ‘congelamento’, comunque, l’indagine della Prima Commissione del Csm continuerà e si allargherà anche agli altri magistrati coinvolti nell’inchiesta P3, per i quali al momento non è stato avviato alcun procedimento disciplinare.


La fotografia del Presidente Marra è tratta dal sito dell'Ansa.



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lunedì 19 luglio 2010

Dalla (falsa) guerra tra procure alla P3, il CSM ne esce a pezzi





di Lorenzo Racheli
(Avvocato)





L’articolo di Felice Lima «Il marcio de “La Magistratura”», e, già prima, le notizie relative alla inchiesta sulla c.d. P3, o nuova P2, che vede il coinvolgimento di numerosi magistrati, ai più alti livelli, nonché del CSM, mi hanno fatto pensare a un passo del bel libro di Umberto Ambrosoli, Qualunque cosa succeda (2009, Sironi Editore), che racconta la storia di suo padre Giorgio, commissario liquidatore della banca Privata di Michele Sindona, da questi fatto vigliaccamente uccidere trentuno anni fa, con l’interessamento di Gelli e della P2 e molte ombre sul sistema politico-economico italiano.

A pag. 25 del libro, Umberto Ambrosoli racconta che nel 1958 il padre si è laureato in giurisprudenza, con la discussione di una tesi in diritto costituzionale dal titolo “molto semplice e importante”, Il Consiglio superiore della Magistratura.

Scrive Umberto Ambrosoli: “La tesi è incentrata sul tema dell’indipendenza del magistrato, della sua libertà. Papà sceglie di mettere in esergo una frase di Platone, tratta dall’Apologia di Socrate:

«Il Giudice non siede allo scopo di amministrare a suo piacimento la giustizia, ma di decidere ciò che è giusto e ingiusto: e infatti egli ha giurato di non favorire quelli che vuole, ma di giudicare secondo la legge. Perciò né noi dobbiamo abituare voi a spergiurare, né a ciò vi dovete voi stessi abituare».

La frase di Platone è immediatamente commentata:

«Le parole che Socrate nell’Apologia rivolge ai suoi giudici, valide nel 399 a.C., nulla hanno perso di tale validità con il trascorrere dei secoli. Ogni Stato libero, cioè rispettoso della libertà dei singoli, ha sempre avuta nella storia la stessa preoccupazione: che il giudice fosse libero di giudicare secondo la legge e la sua coscienza. […]

Per garantire la Magistratura, cioè per attuare la vera libertà del giudice da ogni influenza di qualsiasi organo e individuo, è chiara la necessità di rendere indipendente il giudice, anche se è evidente che nessuna soluzione definitiva sarà mai data al problema perché solo la coscienza del giudice potrà fare in modo che la sua volontà possa determinarsi liberamente: sine spe nec metu. Garantire l’indipendenza del giudice significa in sintesi voler fare in modo che la decisione di lui possa derivare dalla sua libera convinzione senza che questa possa subire interne ed esterne influenze e fare in modo che la decisione stessa non possa avere per chi l’ha pronunciata conseguenze tali da rendergli più difficile l’assumere libere decisioni […].

Dobbiamo dire che non tanto sulle garanzie legislative è basata l’indipendenza del giudice, quanto sulla sua ferma coscienza. Il problema dell’indipendenza del giudice non è in ultima analisi un problema che si possa in sede legislativa compiutamente risolvere. Che, per quanto perfette possano essere le leggi, sempre potranno contro la libertà di giudizio del giudice aversi tentativi di violazione, cui – al di là delle garanzie legislative- solo l’alta coscienza del suo ufficio e il senso altissimo delle sue funzioni saprà opporre, ha sempre opposto, valida difesa. A quei giudici che, dispersi in sedi malagevoli e difficili, sono più soggetti ai tentativi di chi ha interesse a che le loro decisioni non siano come in effetti sono e a quelli che, per la delicatezza delle loro funzioni, più si trovano a dover agire tra contrastanti interessi, particolarmente pensiamo: il Consiglio superiore della Magistratura è un assai utile mezzo di difesa. Ma nessuna legge li garantirà mai appieno: fortuna è che nel giudice che, solo con la sua coscienza, decide la questione a lui affidata, possiamo e dobbiamo per le tante e continue prove, avere la massima fiducia. E questa fiducia, noi, con il massimo rispetto e la massima riconoscenza, con certezza esprimiamo”.

Il CSM, dunque, quale “utile mezzo di difesa” dei magistrati e della loro autonomia.

Dall’inchiesta in corso e dalle intercettazioni emerge tutt’altro.

Il CSM ne esce invero a pezzi.

Una istituzione del tutto in balia delle correnti e che, per le nomine degli uffici direttivi, subisce fortissime pressioni esterne, volte ad indirizzare il voto della commissione e poi del plenum sui nominativi di magistrati “amici”.

In verità il CSM e il ‘sistema giustizia’ nel suo complesso erano già usciti a pezzi dalla vicenda della c.d. (falsa)guerra tra le procure di Salerno e Catanzaro.

Il Consiglio ha spazzato via magistrati onesti, la cui unica colpa era quella di fare il loro dovere seguendo la loro “ferma coscienza”: Apicella, Nuzzi, Varesani. Prima ancora De Magistris e Forleo.

Le decisioni, prese dal CSM all’unanimità, sono state inoltre avallate dall’ANM: il presidente Palamara sottolineava che il sistema giustizia, con quelle decisioni, dimostrava di avere al suo interno gli anticorpi. È singolare che queste sono le stesse parole pronunciate in questi giorni dal ministro Alfano.

E no, presidente Palamara, non si è trattato di anticorpi. Erano pericolosissimi virus, che hanno trovato ulteriore diffusione e che destabilizzano fortemente la democrazia.

La conclusione cui giunge Umberto Ambrosoli nel libro sul padre è assai amara:

“Negli anni Settanta, una coincidenza di interessi illegittimi e dissimulati spingeva perché il fallimento dell’«impero» di Michele Sindona ricadesse come danno sui risparmiatori, sulla collettività del nostro Paese, sul sistema finanziario. Con il suo lavoro papà ha fatto quanto era in suo potere per evitare che ciò accadesse. Per questo la sua vita è stata annientata.

Muovendo lo sguardo da quei giorni all’oggi, mi sembra che l’unica vera differenza stia in una maggiore sfrontatezza”.

È proprio così. I fatti di questi giorni lo confermano.

Si assiste ad una sfrontatezza quotidiana e ad un marcio che si diffonde a tutti i livelli.

Il sistema può, deve reagire. La società civile, anche se stanca, continua a vigilare attentamente.

Con le ultime inchieste sulla P3 si è sicuramente fatto un passo avanti.

Ma molti altri andranno fatti.




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sabato 17 luglio 2010

Il marcio de “La Magistratura”





di Felice Lima
(Giudice del Tribunale di Catania)






da Il Fatto Quotidiano online del 17 luglio 2010



In questi giorni sono su tutti i giornali notizie molto attendibili (in particolare, fra l’altro, registrazioni telefoniche) di vicende oscure che coinvolgono magistrati collocati ai vertici dell’amministrazione della giustizia e in ruoli molto importanti del governo.

Risultano a vario titolo coinvolti nelle vicende riportate dai giornali il Primo Presidente della Corte Suprema di Cassazione Vincenzo Carbone, il Presidente della Corte di Appello di Milano Alfonso Marra (detto “Fofò” nelle intercettazioni), il Presidente della Corte di Appello di Salerno Umberto Marconi, in passato autorevole esponente dell’Associazione Nazionale Magistrati (Segretario Generale di Unità per la Costituzione) e anche membro del Consiglio Superiore della Magistratura, il Sottosegretario di Stato Giacomo Caliendo, in passato Presidente dell’A.N.M. e anche lui ex Consigliere del C.S.M., il dr Antonio Martone, ex Avvocato Generale della Corte Suprema di Cassazione (in pratica il Vice Procuratore Generale), anche lui ex Presidente dell’A.N.M., da qualche mese a capo di una Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità (!!!???) delle amministrazioni pubbliche, istituita dal ministro Brunetta, il dr Arcibaldo Miller (detto “Arci” nelle telefonate), magistrato impegnato in una delle correnti dell’A.N.M. (Magistratura Indipendente) e attualmente Capo degli Ispettori del Ministero della Giustizia.

Emerge anche che, secondo uno dei componenti del C.S.M., l’avv. Michele Saponara, le raccomandazioni al C.S.M. non sarebbero l’eccezione, ma la regola (Saponara, secondo i giornali, avrebbe detto, fra l’altro: «Non voglio liquidare la faccenda dicendo: così fan tutti. Ma è un dato di fatto che Alfonso Marra non è stato il primo a chiedere raccomandazioni. Di pressioni al Csm ne arrivano ogni giorno, per ogni nomina, dalla più importante alla più defilata. Un’iradiddio. Da destra, da sinistra, dal centro, senza distinzioni»).

Mentre un altro Consigliere del C.S.M., l’avv. Celestina Tinelli, si sarebbe difesa dicendo che il faccendiere Lombardi «al C.S.M. era di casa». Secondo una agenzia di stampa, Marra avrebbe detto che Lombardi «stava con la lingua in bocca con tutti».

Ovviamente non è questa la sede per accertare fatti ed (eventuali) responsabilità. Per quello ci sono i Tribunali.

Non è in alcun modo mia intenzione fare processi ad alcuno né prendere posizione alcuna su colpevolezze e innocenze individuali.

Ciò di cui voglio occuparmi non sono i singoli, ma il quadro complessivo che viene fuori dalle notizie di stampa alle quali ho fatto riferimento.

Il quadro complessivo è più che preoccupante. Per il livello delle istituzioni coinvolte, per la gravità dei fatti, per il sistema di relazioni che emerge dai toni e dalle parole.

Fa molta impressione leggere di una telefonata nella quale il Primo Presidente della Corte Suprema avrebbe dialogato con un faccendiere del corso di un procedimento di grande rilievo che interessava ad amici del faccendiere medesimo e, nel mentre accettava di trattare di quel caso in modo certamente non istituzionale, chiedeva al faccendiere cosa gli avrebbero fatto fare dopo la pensione e si lasciava rassicurare sul fatto che quello ne aveva già parlato con il suo “amico di Milano”, così come fa ancora più impressione constatare che dopo quella telefonata il partito che sta al Governo ha proposto una legge per elevare l’età massima alla quale i magistrati vanno in pensione in modo che Carbone potesse restare in servizio per altri tre anni.

Queste vicende e altre sono estremamente gravi e tali da non consentire il commodus discessus della favoletta delle singole mele marce.

Il quadro complessivo che viene fuori dalle notizie di stampa impone di prendere atto che, oltre alle condotte di questo o quel singolo, c’è qualcosa di marcio nel sistema nel suo complesso.

E quello che, con evidenza, non va sono i legami molto ampi e molto diffusi fra magistrati con ruoli di importanza centrale nell’amministrazione della giustizia e nel cosiddetto autogoverno (esponenti, insomma, del “potere interno” alla magistratura) e ambienti della politica, degli affari e del potere (di quello trasparente e di quello oscuro).

Sembra trovare riscontro la tesi – da tanti di noi più volte sostenuta in diverse sedi – che il “potere interno” alla magistratura ha rapporti troppo ravvicinati e troppo spesso complici con il “potere esterno” che, invece, dovrebbe controllare.

Non può essere un caso che nelle vicende qui in discussione siano coinvolti ben due ex Presidenti dell’A.N.M., ben due ex Consiglieri del C.S.M. e un ex Avvocato Generale della Cassazione.

Come non possono non trarsi le logiche conseguenze dal fatto che il Primo Presidente della Corte di Cassazione, tenuto a fare il giudice di un processo nel quale sono in discussione centinaia di milioni di euro di un’azienda riferibile al Presidente del Consiglio, parli al telefono con un faccendiere che gli chiede di anticipare l’udienza, gli porta dell’olio buono e gli promette di fare agire “l’amico di Milano” per assicurargli un futuro professionale gradito.

In queste condizioni è molto difficile confidare che il “controllore” potesse davvero controllare.

La questione è grave e complessa e magari proverò a trattarla dividendola in più interventi.

Questo post, intanto, può essere quello nel quale sfatare un gravissima mistificazione che nuoce grandemente all’immagine della giustizia e alle sue speranze di positiva riforma.

La confusione fra “i magistrati” e “La Magistratura”.

“La Magistratura” è un corpo complesso. Nel suo insieme un “potere”.

Questo potere è in mano a un gruppo molto ristretto di persone, dei veri oligarchi, che lo gestiscono secondo logiche e con metodi che andrebbero messi sotto i riflettori e democraticamente discussi. E che invece sono sostanzialmente poco trasparenti e sconosciuti ai più.

Ma i titolari di questo potere, questi oligarchi, si nascondono dietro il valore e la storia di singoli “magistrati”.

Quando parla “La Magistratura” invoca i nomi di Falcone e Borsellino, ricorda il sangue dei suoi tanti morti, Rosario Livatino, Salvatore Saetta, Mario Amato, Giangiacomo Ciaccio Montalto e molte altre decine.

Ma “La Magistratura” non merita gli onori dovuti a questi eroi e ne usurpa la storia.

I “magistrati” che danno lustro a “La Magistratura” non erano “omologhi”, ma, al contrario, decisamente diversi da “La Magistratura”. Quasi sempre isolati e perseguitati da “La Magistratura” medesima.

Il C.S.M. non è mai stato accanto ai Falcone, ai Borsellino, ai Borrelli, ai Colombo, ai Davigo, ai Ciaccio Montalto, ai Chinnici. Permettetemi, ai De Magistris, alle Forleo, alle Nuzzi e ai Verasani.

In definitiva, purtroppo, “La Magistratura” (intesa come gli oligarchi che formalmente la rappresentano) non è e non assomiglia per niente a coloro dietro le cui storie si copre dinanzi all’opinione pubblica e le cui storie ha tradito e tradisce ogni giorno.

Falcone, Borsellino, Ciaccio Montalto, Chinnici, De Magistris, Borrelli, Colombo, Davigo non sono mai stati Presidenti dell’Associazione Nazionale Magistrati e neppure membri del C.S.M.. Presidenti dell’A.N.M. e membri del C.S.M. sono stati i protagonisti delle storie di questi giorni e tanti altri come loro (Umberto Marconi, attuale Presidente della Corte di Appello di Salerno, fu quello che, da Consigliere del C.S.M., fece da relatore della nomina di Meli, invece che Falcone, a Capo dell'Ufficio Istruzione di Palermo).

Di questo bisognerà avere il coraggio di prendere atto.

In modo da lasciare chiaro chi subisce incolpevolmente l’andazzo che porta il Primo Presidente della Cassazione a ricevere bottiglie di olio buono da un faccendiere e chi quell’andazzo ha in vario modo e a vario titolo consentito che si realizzasse.

Perché è chiaro che ciò che dovrebbe fare chi quell’andazzo in vario modo e a vario titolo ha consentito che si realizzasse è ammettere la responsabilità di ciò e dimettersi dalle cariche associative e di “potere interno” che ha.

Oggi il Presidente e il Segretario Generale dell’A.N.M. chiedono garbatamente ai magistrati coinvolti nelle tristi storie delle quali parlano i giornali di dimettersi.

Ma poco più di un anno fa gli stessi Palamara e Cascini non chiesero cortesemente dimissioni, ma invocarono ghigliottine e non a favore dei magistrati impegnati, ma contro di loro.

Poco più di un anno fa alcuni colleghi lavoravano a indagini che scoperchiavano le stesse consorterie che oggi sono sui giornali. Poco più di un anno fa Luigi De Magistris, Gabriella Nuzzi e Dionigio Verasani acquisivano prove di fatti perfettamente analoghi a quelli che oggi leggiamo sui giornali.

E cosa fecero l’A.N.M., il C.S.M. e l’intero cosiddetto autogoverno della magistratura, insomma “La Magistratura”?

Li spazzarono via. In pochi giorni.

Palamara e Cascini invocarono dalle prime pagine dei giornali l’intervento del Ministro e il Ministro “intervenne”, mandando Arcibaldo Miller.

Il Procuratore di Salerno Luigi Apicella, reo di avere permesso ai colleghi Nuzzi e Verasani di redigere un decreto di perquisizione e sequestro confermato in tutte le sedi competenti si è trovato IN POCHI GIORNI, senza funzioni e senza stipendio.

L’A.N.M. e il C.S.M. intervennero pesantemente nelle inchieste di De Magistris, Nuzzi e Verasani e ne causarono, di fatto e a prescindere dalla intenzioni di chiunque, il rallentamento e sotto alcuni profili la paralisi.

Lo stesso non sta accadendo e, purtroppo, non accadrà per nessuno dei protagonisti delle vicende oggi sui giornali.

Alcuni giornali hanno titolato: “Il C.S.M. trasferisce Marra”.

Ma il titolo è falso.

Il C.S.M. ha solo aperto una pratica ex art. 2 della Legge sulle Guarentigie (R.D.L.vo 511/1946).

Se conosco bene questi meccanismi (e purtroppo li conosco bene), tendenzialmente accadrà quanto segue:

- questo C.S.M. ha aperto la pratica, ma non la tratterà, perché scade il 31 luglio (e, d’altra parte, come avrebbe potuto trattarla, se, il Consigliere Tinelli, finita anche lei sui giornali in questi giorni, si difende dicendo che Lombardi al C.S.M. era di casa?);

- il nuovo C.S.M. si occuperà della cosa non prima di ottobre e allora altri scandali occuperanno le pagine dei giornali e nessuno si ricorderà di Marra;

- quando la pratica verrà trattata, si osserverà che non si può utilizzare la procedura ex art. 2 della Legge sulle Guarentigie per fatti colpevoli;

- qualcuno ricorderà che con Clementina Forleo l’hanno usata illegittimamente (tanto che il TAR ha annullato il trasferimento) e loro diranno: “Con la Forleo abbiamo sbagliato, ora non possiamo sbagliare ancora”;

- qualcuno allora dirà “Bene, allora fategli il processo disciplinare”, ma poiché Palamara e Cascini non invocheranno la stessa tempestiva mannaia calata su Apicella, Nuzzi e Verasani, limitandosi a chiedere con umile cortesia le dimissioni spontanee di non si sa chi (perché nessun nome viene neppure fatto), la cosa andrà avanti per le lunghe e Marra farà in tempo a maturare il limite massimo di età pensionabile.

Solo pochi mesi fa ha lasciato “La Magistratura” in fretta e furia, mentre una Procura indagava su di lui in relazione a vicende non meno imbarazzanti di quelle odierne, il Procuratore Aggiunto di Roma Achille Toro, anche lui maggiorente dell’A.N.M., già Presidente di Unità per la Costituzione, la corrente maggioritaria dell’A.N.M., dimessosi qualche anno prima da quella carica per essere rimasto coinvolto in un’altra imbarazzante vicenda (le indagini sulla scalata Unipol) e nonostante quella vicenda messo a fare il Procuratore Aggiunto di Roma.

Quando si è dimesso Toro, tutto quello che l’A.N.M. ha saputo e voluto dire è testualmente questo:

«Le recenti indagini presso la Procura della Repubblica di Firenze rappresentano l’occasione per ribadire che la deontologia professionale, la correttezza e il riserbo nei comportamenti rappresentano baluardi della credibilità della magistratura, in relazione ai quali si impone un costante impegno complessivo e coerente di autoriforma. E’, pertanto, indispensabile che tali questioni, in quanto esprimono valori fondamentali della giurisdizione, trovino concreta e tempestiva risposta nell’organo di governo autonomo, anche attraverso la scelta di una dirigenza professionalmente adeguata. La Giunta riafferma il proprio impegno a tenere alta l’attenzione sui temi indicati, che appaiono indefettibili per il futuro della magistratura. Roma, 17 febbraio 2010».

Tutto qui.

Nient’altro che queste inconcludenti e genericissime parole.

Un brevissimo vaniloquio per fare finta di avere preso una posizione (ognuno potrà giudicare da sé se questo comunicato/farsa possa essere inteso come “prendere una posizione”).

Mentre Unità per la Costituzione, invece di vergognarsi e chiedere scusa per quanto coinvolgeva il suo ex Presidente ha prodotto solo un comunicato ancor più vaniloquente e surreale, sol che si consideri che sono stati ai vertici di Uncost (Achille Toro, ex Presidente), Umberto Marconi (ex Segretario Generale e Consigliere del C.S.M.), Giacomo Caliendo (ex Presidente A.N.M. ed ex Consigliere del C.S.M.), Antonio Martone (ex Presidente A.N.M.).

Unicost, invece di vergognarsi e chiedere scusa, in quel comunicato si dipinge come fucina di campioni della deontologia e della morale.

Goacchino Genchi ha pubblicato in un libro (“Il caso Genchi. Storia di un uomo in balìa dello stato”) il testo di intercettazioni telefoniche che raccontano retroscena decisamente scabrosi nei rapporti fra magistrati e potere, ma quelle cose è come se non fossero mai state raccontate e rese pubbliche.

Quando sui giornali scoppiano scandali gravissimi che coinvolgono “La Magistratura”, dentro “La Magistratura” si fa il più fitto, assordante e impenetrabile silenzio.

Si direbbe una triste e dolorosa omertà.

De Magistris, Forleo, Nuzzi, Verasani, Apicella, sono argomenti tabù.

I magistrati parlano continuamente del marcio della politica e tacciono ostinatamente sul marcio de “La Magistratura”.

Salvo poi, quando qualche telefonata di “grandi Capi” de “La Magistratura” finisce sui giornali, fingere di “cadere dal pero”, come molto opportunamente ha scritto Marco Travaglio con l’arguzia di sempre, in un articolo di qualche giorno fa.

Ben vengano, ovviamente, gli striminziti e deplorevolmente generici comunicati stampa dell’A.N.M., ma allo stato sono solo “chiacchiere”, per giunta fumose e inconcludenti.

C’è molto marcio dentro “La Magistratura” e un’operazione trasparenza non è mai neppure cominciata.

Peggio, chi da quel “marcio” è stato assassinato, punito, trasferito, licenziato, non solo non viene riconosciuto come prova dello scandalo, ma viene usato dai suoi carnefici come “copertura” per fare apparire “La Magistratura” che comanda e gestisce potere – interno ed esterno – uguale ai “magistrati”, che quel potere hanno cercato, a prezzo del sangue, della carriera e del posto di lavoro, di sottoporre al controllo di legalità.

Nei prossimi giorni ritornerò su questo tema, cercando di illustrare a chi non lo conosce come funziona il “potere” interno a “La Magistratura” e perché quel potere è “contro” “i magistrati” e nei fatti danneggia la giustizia, favorendo solo le carriere parallele di alcuni magistrati, arruolati alcuni nei partiti cc.dd. “di destra”, altri nei partiti cc.dd. “di sinistra”, altri in lobby dagli oscuri contorni e dai preoccupanti obiettivi.


______________

Post Scriptum del 19 luglio 2010

Purtroppo, nel descrivere, nell’articolo riportato qui sopra, il presumibile corso delle “pratica Marra” al C.S.M., sono stato facile profeta.

Già oggi il Presidente della Repubblica si è affrettato a fermare tutto, con la "lettera/freno/rinvio/poi vediamo/andiamoci piano/non facciamo di tutta l’erba un fascio” di cui si trova notizia a questo link.





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venerdì 16 luglio 2010

Nomine e missioni proibite venti toghe a disposizione della “loggia”





di Maria Elena Vincenzi ed Emanuele Lauria
(Giornalisti)




da Repubblica.it del 16 luglio 2010


ROMA - “Prendono parte alle riunioni nelle quali vengono impostate le operazioni e paiono fornire il proprio contributo alle attività di interferenza”.

Venti nomi che scottano.

Quelli delle toghe coinvolte nell’inchiesta sull’eolico e sulla nuova loggia “P3”.

Il rapporto dei Carabinieri non lascia adito a equivoci. Era fitta la rete di giudici e procuratori attraverso la quale la banda Carboni portava avanti i suoi piani di “interferenza” sulle istituzioni.

Tutto ruotava intorno al ruolo di Arcibaldo Miller (capo degli ispettori del ministero della Giutsizia), Giacomo Caliendo (sottosegretario alla Giustizia) e Antonio Martone (ex avvocato generale in Cassazione). Loro gli incaricati di costruire la ragnatela da stendere sui magistrati.

Qualcuno aveva un ruolo di primissimo piano nell’attività dell’associazione segreta, altri davano informazioni preziose. Altri ancora erano semplicemente oggetto di tentativi di avvicinamento da parte della combriccola che – per perseguire i propri obiettivi illeciti – si avvaleva della copertura offerta dal centro studi “Diritti e libertà”.

Sono sempre Miller, Caliendo e Martone i commensali del famoso pranzo a casa Verdini del 23 settembre scorso in cui sarebbe stato pianificato il condizionamento della Consulta per far approvare il Lodo Alfano.

Martone era stato invitato senza giri da parole da Lombardi all’incontro a piazza dell’Aracoeli: “Noi ci dobbiamo vedere all’una meno un quarto”. “Ma io sono impegnato con il procuratore ...”.

“Mandalo affanc. che chisto non porta voti e vieni da noi ...”, insiste Lombardi mostrando una certa confidenza.

Caliendo poi è presente in tutte le manovre. Dopo il pranzo a casa Verdini, Lombardi raccomanda al sottosegretario di fare la conta dei giudici costituzionali a favore e contro il Lodo: “Ci dobbiamo vedere ogni giorno, ogni settimana, capire dove sta o’ buono e dove o’ malamente: vuagliò, ti hai la strada spianata per fare il ministro”.

Le carte raccontano che Caliendo, su pressione di Lombardi, ha sollecitato al vicepresidente del Csm Mancino la nomina di Alfonso Marra a presidente della Corte d’Appello di Milano.

Nomina che si è rivelata poco decisiva: Caliendo infatti è poi intervenuto, senza fortuna, con lo stesso Marra per far accogliere il ricorso di Formigoni contro l’esclusione della sua lista nelle elezioni regionali lombarde.

Successivamente, davanti alle pressioni dello stesso Lombardi per far inviare gli ispettori alla Procura di Milano, il sottosegretario ammetterà: “L’ho chiesto trenta volte al ministro!”.

Della stessa vicenda è protagonista anche Miller, chiamato confidenzialmente Arci dai membri della banda, che in una telefonata del 5 marzo suggerisce ad Arcangelo Martino cosa fare per ottenere l’ispezione: “Ci vorrebbe un esposto ...”.

Un magistrato vicino a Lombardi, Angelo Gargani, compare frequentemente nell’inchiesta: con il tributarista, dopo il pranzo a casa Verdini, parla della vicenda del Lodo e gli fornisce il numero di un ex presidente della Consulta da contattare, Cesare Mirabelli (che respingerà la “corte” del disinvolto faccendiere napoletano).

Lombardi attiva di continuo la sua rete di contatti con i magistrati. Lo fa all’occorrenza e soprattutto in occasione dell’elezione di Marra che – secondo i carabinieri – è avvenuta proprio grazie all’interferenza della banda. Il tributarista ne parla il 21 ottobre con Celestina Tinelli, componente del Csm. Alla quale chiede informazioni anche sulle chances di altri due “amici” in corsa per incarichi di rilievo: Gianfranco Izzo per la Procura di Nocera e Paolo Albano per Isernia.

Lombardi parla in quel periodo con diversi magistrati.

Fra i voti da conquistare (e poi conquistati) per l’elezione di Marra, c’è quello di Vincenzo Carbone, primo presidente di Cassazione: il 22 ottobre Lombardi invita Caliendo a “lavorarselo per bene”, e gli comunica di avere già prospettato un aumento dell’età pensionabile da 75 a 78 anni. Una modifica della legge che proprio in quei giorni il governo proporrà con un emendamento. Lo stesso Carbone, un mese prima, aveva chiesto a Lombardi: “Che faccio dopo la pensione?”.

Un altro giudice, Francesco Castellano, il 31 gennaio conferma all’attivissimo Lombardi di avere segnalato alla Tinelli il nome di Marra.

Ma intanto Lombardi aveva già parlato del caso Marra a Beppe (“verosimilmente il giudice Giuseppe Grechi”, scrivono i carabinieri). Anzi, è quest’ultimo il 16 novembre a chiedere a Lombardi qual è l’intenzione del “comune amico” Carbone in vista del voto: “Tienilo sotto che lo tengo sotto anch’io”, dice il tributarista.

Il 19 gennaio Lombardi parla con Gaetano Santamaria della candidatura di tale “Nicola” per la Procura di Milano.

A Cosimo Ferri, altro componente del Csm, arriva a chiedere il rinvio di quella nomina. Ferri, in realtà, si ritrae imbarazzato.

A Lombardi sta a cuore, in quel periodo, anche la candidatura di Nicola Cosentino alla guida della Regione Campania.

Vede due volte il procuratore di Napoli Giambattista Lepore per chiedergli informazione sulla situazione giudiziaria di Cosentino, indagato per rapporti con la camorra.

Dopo l’incontro del 20 ottobre, Lombardi riferirà, violando tutte le procedure, ad Arcangelo Martino che le prospettive per il sottosegretario (appena dimessosi) non sono buone: “Negativo al 90 per cento”.

Agli atti anche una telefonata fra Lombardi e il magistrato Giovanni Fargnoli: parlano del ricorso in Cassazione contro la richiesta di arresto a carico di Cosentino: Fargnoli assicura a Lombardi che gli farà sapere perché il ricorso è stato rigettato.

Una conferma, l’ennesima, della rete che lega i componenti della combriccola, i politici e i magistrati: il 14 ottobre Ugo Cappellacci, presidente della Sardegna, chiama Martino per avere il numero di telefono di Cosimo Ferri: vuole evitare il trasferimento di Leonardo Bonsignore, presidente del tribunale di Cagliari, ad altra sede: “Perderemmo un amico carissimo e una persona valida”.

Martino si attiva subito e parla con la segretaria di Ferri.

Secondo i carabinieri proprio per questo motivo Martino “poteva ritenersi creditore nei confronti di Cappellacci”.




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martedì 13 luglio 2010

Toghe verdine



di Marco Travaglio
(Giornalista)




da Il Fatto Quotidiano del 13 luglio 2010


Chissà che fine han fatto gli inventori di fortunate cazzate tipo l’“uso politico della giustizia” o la “magistratura politicizzata”.

Gli Ostellini, i Panebianchi, i Sergiromani, i Pigibattista, los Politos, i Gallidellaloggia e i Pollidelbalcone sono letteralmente scomparsi, proprio ora che gli allegri conversari chez Vespa e chez Verdini dimostrano che l’uso politico della giustizia esiste eccome.

Solo che lo fanno il governo e i suoi manutengoli.

Il colore delle toghe politicizzate è l’azzurro-Verdini, il marron-Dell’Utri, il nero-Carboni/Carbone, come nella Prima Repubblica era il bianco-Andreotti, il rosé-Craxi, il grigio-Previti, il giallo-Gelli.

Battaglioni di giudici furono trovati nelle liste della P2 o sul libro paga di Cesarone.

Insabbiavano inchieste, aggiustavano processi, compravendevano sentenze, annullavano condanne di mafiosi per un timbro un po’ fané.

Eppure – anzi proprio per questo – mai un’ispezione ministeriale, un’azione disciplinare, una convocazione al Csm, un dossier dei servizi, un attacco dalla stampa di regime.

Queste persecuzioni spettavano di diritto ai giudici davvero indipendenti, bollati e perseguitati come “pretori d’assalto” e “toghe rosse”.

Ora la storia si ripete, nella beata indifferenza dei garantisti da riporto e dei pompieri della sera.

La signora Augusta Iannini in Vespa, collaboratrice di governi di destra e sinistra, apparecchia cene per il premier plurimputato B., il banchiere plurimputato Geronzi, il sottosegretario indagato Letta e cardinali assortiti, ma la cosa non sembra interessare il Csm che dovrebbe tutelare l’indipendenza della magistratura non solo dalle minacce esterne, ma dagli inciuci interni.

Vincenzo Carbone, fino al mese scorso primo presidente della Cassazione, fu nominato dal Csm sebbene insegnasse da anni all’Università di Napoli con doppio stipendio all’insaputa dell’organo di autogoverno: ora si scopre pure che dava del tu al traffichino del clan Carboni, il geometra avellinese Pasqualino Lombardi, che lo apostrofava “p re s i d e”, gli chiedeva di anticipare l’udienza su Cosentino, gli preannunciava telefonate di Letta e avvertiva gli amici che “con quello lì stamo a posto”.

Lui, come si conviene agli alti magistrati, rispondeva “statte bb u o n o” e all’alba dei 75 anni s’interrogava: “Che faccio dopo la pensione?”.

Pasqualino Settebellezze lo rassicurava: “Tranquillo, ne sto parlando con l’amico di Milano”.

Ancora una settimana fa Carbone era candidato alla Consob.

Uno come Lombardi che in un altro paese faticherebbe a entrare in un bar sport discettava con gran familiarità della sentenza sul lodo Alfano col presidente emerito della Consulta, Cesare Mirabelli, detto “o’ p ro fe s s o’”: “La donna della Consulta è amica sua, possiamo intervenire su questa signora? Mi stanno mettendo in croce gli amici miei, che poi sono anche amici suoi ...”.

E garantiva sul voto di Mancino, vicepresidente del Csm, per la nomina di Marra detto “Fo fo’” a presidente della Corte d’Appello di Milano.

Missione compiuta. Marra si riuniva chez Verdini con i faccendieri Carboni e Lombardi e i giudici Martone e Miller, quest’ultimo capo degli ispettori ministeriali che da anni perseguitano i pm dipinti come politicizzati proprio perché non lo sono.

Ieri Martone ha finalmente lasciato la toga dopo aver presieduto addirittura l’Anm.

Ora si spera che il Csm vicepresieduto da Mancino accompagni alla porta anche Marra e Miller, e reintegri al loro posto De Magistris, la Forleo e i pm salernitani Nuzzi, Verasani e Apicella.

Già perché questi giudici onesti sono stati sterminati l’uno dopo l’altro dagli ispettori (Miller), dalla Procura della Cassazione (Martone) che attivava le azioni disciplinari, dal Csm (Mancino e Carbone) che condannava e dalle Sezioni Unite (ancora Carbone) che confermavano le condanne.

Ora l’Anm cade dal pero e ammonisce: “Non vogliamo magistrati contigui al potere”.

Che riflessi, ragazzi.

Che faceva l’Anm mentre il plotone di esecuzione delle toghe contigue al potere fucilava quelle non contigue al potere, a parte applaudire i fucilatori?



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giovedì 8 luglio 2010

Le condizioni di lavoro dei magistrati






di Egidio de Leone
(Giudice del Tribunale di Urbino)





Innanzitutto mi presento: mi chiamo Egidio de Leone, sono entrato in magistratura nel dicembre 2007 e sono in attesa della I valutazione di professionalità, sostanzialmente (per farmi intendere dai non addetti ai lavori) faccio il giudice da circa un anno. Sono giudice civile a 360 gradi, giudice delle esecuzioni immobiliari e componente del collegio penale.

Perché scrivo e perché qui?

Scrivo per stanchezza della non verità e dell’approssimazione con la quale viene illustrato il lavoro del magistrato sia da chi non ha mai messo piede in un Tribunale (e forse sarebbe meglio informarsi prima di scrivere, accusare etc.) sia dai “pretesi” addetti ai lavori che spesso ignorano colpevolmente.

Qui perché non sono iscritto alle correnti, non nutro interesse verso le stesse e non ho capito (o forse ho capito) perché esistono e perché ritengo di avere il dovere di spiegare a chi chiede “giustizia” come (nel senso di in che forme, modi, tempi) la si può ottenere.

La prova per testi.

Ci sarebbero molti aspetti che vorrei affrontare, ma non voglio tediare chi mi legge e così parto subito con un esempio. Esempio in cui è facile intravedere la crisi del sistema, i modelli di lavoro, i tipi di lavoratore e tutte le relative conseguenze. Sarò poco tecnico ma voglio che la questione sia compresa anche e soprattutto dai non addetti ai lavori.

Nel processo civile vige il principio dell’onere della prova: Tizio sostiene che Caio gli ha rotto la bicicletta e chiede che Caio la ripari o gli corrisponda il costo dei lavori necessari per la riparazione.

Secondo le leggi vigenti Tizio per avere una sentenza favorevole, insomma per avere “ragione” con la condanna di Caio a pagargli i danni, deve dimostrare nel processo che Caio un dato giorno ad una certa ora ha rotto la bicicletta, che per ripararla servono x euro oppure che l’ha già riparata pagando x euro.

Per provare ciò avrà normalmente bisogno di un testimone che dica: ho visto Caio rompere la bicicletta di Tizio in un dato giorno e ad una certa ora. Così Tizio si rivolgerà ad un avvocato che introdurrà la causa e compirà tutti gli adempimenti necessari per arrivare un giorno davanti al giudice (sorvolo su tutti gli aspetti tecnici relativi a queste fasi) che dovrà decidere quali mezzi di prova ammettere. Infatti l’avvocato di Tizio avrà chiesto di ammettere la prova testimoniale di Sempronio che (secondo lui) ha visto Caio rompere la bicicletta di Tizio.

Il giudice, e sorvolo sul modo in cui il giudice può arrivare processualmente a questa decisione, dovrà decidere se la prova testimoniale richiesta è ammissibile e rilevate. Laddove per ammissibile si intende che non è vietata dalla legge e per rilevante si intende che è utile ad assumere la decisione finale. Nel caso fatto la prova sarà sia ammissibile che rilevante, ma pensate ora a casi molto più complessi (non vi faccio esempi altrimenti corro il rischio di confondere le idee) in cui sarà necessario un approfondito giudizio di ammissibilità e rilevanza e poniamoci insieme le seguenti domande: a che serve quel giudizio? Come si deve prendere la decisione? Quali sono i modelli organizzativi attualmente esistenti nella prassi?

Il giudizio serve essenzialmente ad evitare che vengano sentiti testi le cui “verità” non possono essere utilizzate (perché vietato dalla legge) per emettere la sentenza o che non servono per emetterla.

Ancora non vi ho detto veramente perché. Infatti anche un bambino potrebbe dire: senti tutti i testi e poi quando devi decidere scarti le testimonianze vietate dalle legge e quelle che non ti servono per decidere. Vero, verissimo, ma allora perché mi viene chiesto di prendere quella decisione prima di sentire i testi? Perché secondo quando previsto dal codice (e tralascio volutamente la riforma del 2009 e la c.d. testimonianza scritta che per motivi che qui prenderebbero troppo tempo non avrà mai applicazione pratica) per sentire un teste servono: un giorno di udienza, un giudice, un cancelliere, gli avvocati, il teste, carta e penna, un computer (se si accende) e una stampante (se funziona e se c’è il toner e la carta).

A ciò deve aggiungersi che per sentire un teste sempre secondo il codice: il giudice legge le domande che gli avvocati hanno preparato, poi può chiedere chiarimenti al teste, il tutto deve essere puntualmente verbalizzato magari indicando anche l’atteggiamento del teste al cospetto del giudice. In pratica per fare una decina di domande, il giudice dovrebbe avvertire il teste che deve dire la verità, leggere la domanda, magari riformulandola per renderla comprensibile al teste (il linguaggio giuridico non è propriamente di immediata comprensione), ascoltare la risposta, dettare al cancelliere cosa verbalizzare, quindi far firmare il verbale al teste, fissare un’altra udienza per sentire altri testi, firmare il verbale e così via. Se non c’è il cancelliere e vi assicuro che non c’è quasi mai (perché deve fare tanto altro lavoro e non ha il dono dell’ubiquità) puoi fare come faccio io, rimedi un computer vecchio, ricicli una stampante (il tutto grazie alla fortunosa presenza di persone volonterose e competenti all’interno dell’ufficio) e verbalizzi con il computer (anzi tutti, a partire dal CSM, ti dicono che devi fare così) così se sei veloce a scrivere fai prima se invece non sai nemmeno dove sono i tasti della tastiera ci metti il doppio del tempo.

Il tutto richiede, anche per me che scrivo a dieci dita, una quantità di tempo impressionante. Per sentire una quindicina di testi ci metti almeno sei o sette ore.

Bene mi direte voi tanto questo è il lavoro che fai. No questo è solo il 10%, volendo esagerare, del lavoro che deve fare un giudice civile.

Ma torniamo alla domanda iniziale del bambino: il giudizio di ammissibilità e rilevanza lo devi fare prima e non dopo altrimenti lavori a vuoto e la causa dura almeno 6 mesi/un anno in più, ma anche molto, molto di più.

Quindi ricapitolando secondo il codice il giudice civile deve studiare ogni fascicolo subito, capire di cosa si discute, cosa serve per decidere, quindi, vedere quali prove sono state chieste, verificare se sono ammissibili e rilevanti, ascoltare tutti i testi e quindi decidere la causa. Il tutto farcito da termini processuali di difesa non abbreviabili (e per carità sacrosanti) e facendo la stessa cosa per un migliaio di fascicoli.

Posto che l’udienza è solo la punta dell’iceberg del lavoro del giudice civile, e che in udienza non si sentono solo i testi ma si compiono mille altre attività, non posso fare udienza ogni giorno, altrimenti chi le scrive le sentenze? Chi decide se le prove richieste sono ammissibili e rilevanti? Posso fare udienza due, esagerando tre, volte alla settimana e allora, lavorando di media 10 ore al giorno, puoi beccare la causa in cui tutte le prove richieste sono inammissibili e irrilevanti e la causa nel complesso può durare un anno (e non meno, vi assicuro che codice alla mano una decisione prima di un anno è praticamente impossibile) oppure, ed è la normalità dei casi, puoi far guadagnare alla causa un anno, forse due, solo che dovendo sentire il teste personalmente con tutte le attività di cui sopra la causa dura comunque un’eternità.

E se invece ammettessi sempre tutti i mezzi di prova richiesti senza nemmeno aprire il fascicolo? Se le domande le facessi fare agli avvocati in un’altra stanza diversa dall’aula di udienza, oppure nel corridoio (vi assicuro che accade anche questo), e facessi verbalizzare loro e io mi limitassi a indicare la prossima data di “udienza” e a firmare il verbale? Poi quando arriva il momento di decidere non tengo conto delle prove inammissibili e irrilevanti e anche il bambino di cui sopra è contento.

Quest’ultimo modello ha poi un altro indiscutibile vantaggio: la decisione sull’ammissione dei mezzi di prova, come la stesura di una sentenza, deve essere fatta entro un certo tempo, è evidente allora che più studi il fascicolo, più tempo ti serve, più lunghi sono i tuoi ritardi, più alta la probabilità di essere considerato un fannullone dall’opinione pubblica e un cattivo magistrato dai tuoi colleghi e dal CSM (si proprio quello che ti dice che devi fare tutto tu, che dietro ogni fascicolo ci sono delle persone etc.) con le conseguenze relative in termini di carriera.

Ah, quasi dimenticavo di dire che (salvo approfondimenti tecnici dei quali non vi voglio tediare in relazione alla riforma del 2009 che ha introdotto la c.d. testimonianza scritta) il modello da ultimo prospettato è illegale, nel senso che è palesemente contrario alla legge, ma, di fatto, è anche l’unico umanamente praticabile se hai 1500 cause sul ruolo, altrimenti per sentire un teste dovresti rinviare di due anni alla volta e ogni processo durerebbe (almeno) una decina di anni.

Ricapitolando sulla questione delle prove per testi, con i rischi insiti ad ogni astrazione, ci sono due modelli di giudici civili: quello che segue la legge, lavora di più, solo se è fortunato accorcia i tempi del processo, sarà condannato dall’opinione pubblica e in sede disciplinare per i ritardi accumulati; quello che lavora di meno (e giustamente perché 10 ore al giorno compresi sabati e domeniche le lavorano in pochi), non segue la legge, non abbrevierà mai tempi del processo, sarà condannato dall’opinione pubblica per la lungaggine del processo ma non in sede disciplinare.

Io, ma forse si era già intuito, seguo il primo modello, ma sono giovane, non ho figli, ho una compagna che ha tanta pazienza e al momento non ho problemi di salute.

Aggiungo, infine, che se tutti i colleghi lavorassero nel modo in cui lo faccio io il sistema giustizia civile (con ogni probabilità) collasserebbe definitivamente nel giro di qualche mese. Forse allora quelli che lavorano in modo diverso non possono esser biasimati, perché in fin dei conti, salvano la loro integrità fisica e psichica e fanno in modo che il carrozzone vada comunque avanti, forse anche io, per necessità, dovrò giungere prima o poi a questo compromesso, forse.

O forse qualcuno inizierà a capire che, senza false modestie, io sono una risorsa “scarsa”, nel senso che il lavoro che faccio non lo può fare qualunque laureato in giurisprudenza, e di assoluta centralità per la vita democratica ed economica del paese, paese che dovrebbe rispettarmi e non denigrarmi e soprattutto mettermi nelle condizioni di lavorare al meglio.

Esemplificando, l’altro giorno (1.7.2010) ero in sciopero (nel senso “ridicolo” che ho rinunciato alla retribuzione corrispondente alla giornata di lavoro) ma ero in ufficio, ho fatto un’udienza, ho scritto una sentenza, altre decine di provvedimenti vari etc. quando, all’improvviso, alle cinque del pomeriggio è salata la rete informatica del Tribunale e non c’era nessuno che potesse risolvere il problema allora mi sono metaforicamente guardato in faccia e ho detto: ma vaff ... ho raccolto i fascicoli e sono tornato a casa, insieme ai fascicoli, ovviamente.





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lunedì 5 luglio 2010

I complici della mafia e i loro sguatteri






di Felice Lima
(Giudice del Tribunale di Catania)






da ilfattoquotidiano.it del 4 luglio 2010



Tutte le volte che il Dell’Utri di turno viene trovato troppo immischiato con la mafia, nugoli di sguatteri del regime ci ammorbano con una lunga serie di menzogne disoneste.

Fra queste c’è quella secondo la quale l’ipotesi delittuosa del concorso c.d. esterno in associazione mafiosa sarebbe una “montatura” dei magistrati. Un reato inesistente nella legge, inventato dai magistrati per perseguitare politici galantuomini che, avendo bisogno di un eroe da ammirare, scelgono Vittorio Mangano.

La verità è, invece, un’altra.

L’art. 110 del codice penale dispone che “quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita, salve le disposizioni degli articoli seguenti”.

Chi ha studiato giurisprudenza, sa che l’art. 110 del codice penale punisce le cc.dd. “condotte atipiche”.

Faccio un esempio facile con l’omicidio.

Chi spara a un uomo e lo ammazza commette la condotta “tipica” descritta dall’art. 575 c.p.: “Chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno”.

Ma che si fa se Tizio dice a Caio: “Senti, devo ammazzare Sempronio, ma non trovo una pistola. Tu me ne potresti prestare una che funzioni bene? Ci ammazzo Sempronio e te la restituisco”?

Caio presta la pistola a Tizio, sapendo che lui la userà per uccidere Sempronio e proprio perché possa uccidere Sempronio.

Ma Caio non commette la condotta di cui all’art. 575 c.p. e non spara materialmente a nessuno.

Se non ci fosse l’art. 110 del codice penale Caio non verrebbe punito.

In forza dell’art. 110 c.p. chi concorre in un omicidio risponde dell’omicidio.

Nell’esempio che ho appena fatto, Caio ha concorso con Tizio nell’omicidio di Sempronio – in particolare fornendo intenzionalmente l’arma per il delitto – e viene, quindi, punito ai sensi del combinato disposto (così si dice in gergo) degli artt. 110 e 575 del codice penale.

Questa cosa si fa ogni giorno con mille e mille reati e mille e mille delinquenti.

Dunque, l’art. 628 c.p. punisce la rapina, disponendo che “chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, mediante violenza alla persona o minaccia, s'impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, è punito con la reclusione da tre a dieci anni e con la multa da 516 euro”.

Il palo che sta fuori dalla banca non minaccia nessuno e non si appropria di niente. Fa il palo fuori dalla banca, mentre i suoi complici rapinano.

Il palo viene punito applicando l’art. 110 c.p.. Altrimenti non verrebbe punito.

E così chi presta il suo casolare di campagna per custodire un rapito, risponde del rapimento. E chi passa i codici del sistema d’allarme ai ladri risponde del loro furto. E così via.

La domanda allora è: perché mai queste regole che valgono per tutti i reati non dovrebbero valere anche per l’associazione a delinquere di tipo mafioso?

Solo perché in questa cosa sono coinvolti anche politici importanti, amici di altri politici importanti?

Si dice: il reato di associazione a delinquere è “particolare”, o uno è associato o non lo è; il concorso c.d. esterno non è ipotizzabile.

E’ una menzogna vergognosa.

Anziché spendere mille parole, faccio un esempio.

Io faccio il magistrato, sono nato e vivo in Sicilia.

Immaginiamo che mi venga a trovare Pippo, un mio vecchio compagno del liceo e mi dica: “Caro Felice, come sai io faccio parte di una cosca mafiosa. La mia cosca è in pericolo, perché la polizia ci cerca con tutti i mezzi. Abbiamo bisogno di una casa dove riunirci senza temere di essere sorpresi. So che tu hai una casa al mare che usi poco. Ti vorrei chiedere se ce la presti per le riunioni della mia cosca. Essendo la casa di un magistrato, la polizia non sospetterà nulla”.

Immaginiamo che io, essendo un verme, dica: “Senti Pippo, noi siamo stati compagni di scuola e ci siamo voluti bene. Siamo rimasti amici anche per tutti gli anni successivi. Io, in relazione al fatto che faccio il magistrato, non voglio essere coinvolto nella tua cosca e non ne voglio fare parte. Ma se ti serve casa mia, ecco le chiavi”.

Le domande sono le seguenti:

1. Si può dire che io faccia parte della cosca mafiosa di Pippo? Certamente no, perché non ho fatto nulla per associarmi e ho detto chiaramente a Pippo che non voglio fare parte della sua cosca.

2. Dare consapevolmente a una cosca mafiosa un covo sicuro dove riunirsi significa o no “concorrere” nel reato di associazione mafiosa? Sembra, francamente, di si. Dare un covo sicuro a una cosca da, infatti, un evidente e prezioso contributo alla vita e sopravvivenza della cosca medesima.

Giuristi da accatto hanno detto: “Ma c’è già il favoreggiamento. Il concorso esterno è un di più. E per di più la condotta del concorrente esterno o è già punita come reato autonomo o non è niente”.

Chi ha fatto queste affermazioni – e le hanno fatte anche professori universitari e avvocati disperatamente protesi a conquistare la gratitudine del solito padrone – o è ignorante o è in malafede.

Il favoreggiamento, infatti, è punito dall’art. 378 c.p., che dispone che: “Chiunque, dopo che fu commesso un delitto … aiuta taluno a eludere le investigazioni dell'Autorità, o a sottrarsi alle ricerche di questa, è punito …”.

Quindi, il favoreggiamento punisce l’aiuto dato a qualcuno per eludere le investigazioni DOPO che è stato commesso il reato. Non l’aiuto dato prima e/o durante la commissione del reato. Quest’ultimo non è favoreggiamento, ma concorso nel reato.

Peraltro, una prova decisiva di tutto questo si trae dall’art. 418 del codice penale, che punisce l’assistenza prestata agli associati.

Quella norma dispone testualmente che “chiunque, fuori dei casi di concorso nel reato o di favoreggiamento, dà rifugio o fornisce vitto, ospitalità, mezzi di trasporto, strumenti di comunicazione a taluna delle persone che partecipano all'associazione è punito con la reclusione da due a quattro anni”.

Quindi, l’art. 418 c.p. cita espressamente tre tipologie diverse e autonome di reato: l’assistenza agli associati (che provvede a punire), il favoreggiamento e il concorso nel reato.

Dunque, la configurabilità del concorso nei reati associativi appare francamente fuori discussione, con buona pace dei tanti giuristi da accatto e giornalisti servi che affliggono la vita agonizzante della nostra democrazia.

E quanto, infine, al fatto che la condotta del concorrente esterno o è punita come reato autonomo o non è niente, basta osservare che stare davanti a una banca e guardare la strada per vedere se arriva la polizia o è concorso nella rapina ex art. 110 c.p. o non è niente. Il reato di “palo” non esiste.

Prestare una macchina a un amico non è, in sé, nessun tipo di reato.

Come prestare la casa a mare a un amico e ai suoi amici non è, in sé, nessun reato.

Ma prestare la macchina a un amico che ti dice che deve fare una rapina e ha bisogno di un’auto con la quale scappare è, pacificamente (e anche per tutti i servi del regime), concorso nella rapina.

Così dare consapevolmente la casa a mare a una cosca mafiosa perché vi si riunisca in sicurezza è certamente concorso nell’associazione mafiosa.

E non è una invenzione dei giudici.

Ed è concorso nell’associazione mafiosa anche se lo fa un amico di questo o quel politicante.

E i complici dei mafiosi meritano il nostro disprezzo sia se abitano in un quartiere povero e malfamato, sia se stanno in palazzi di lusso o magari in Parlamento. Anzi, forse ne meritano di più quelli che stanno in Parlamento.

E davvero francamente non se ne può più di cambiare canale alla TV, magari per sbaglio, e sentire lo sguattero di turno che, con il tono e la faccia di uno che davvero ne capisce di diritto, dice che questo reato di concorso in associazione mafiosa è “discutibile”. Verrebbe da dirgli “discutibile sarà lei e i delinquenti che protegge”. Ma, purtroppo, la televisione parla, quasi sempre blatera, ma non ascolta.



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venerdì 2 luglio 2010

Mai complici di questo scempio di civiltà






di Felice Lima
(Giudice del Tribunale di Catania)






da ilfattoquotidiano.it del 30 giugno 2010


Non tutto il male è uguale!

E non tutto il male fa lo stesso danno.

Quando uno evade le tasse, deruba i suoi concittadini. Ma quando uno, da Presidente del Consiglio, fa l’apologia dell’evasione fiscale, dileggia quelli che onestamente le tasse le pagano e incoraggia gli evasori.

Nel declino di una civiltà, il passaggio da una corruzione diffusa, ma negata, all’elogio pubblico dei corrotti è un momento decisivo e dalle conseguenze devastanti.

Qualunque società, per sopravvivere, ha bisogno necessariamente della condivisione da parte dei consociati di un minimo etico sotto il quale una società non è che non funziona, proprio non esiste più.

Per quelli che trovano i discorsi filosofici “astrusi” e sono stati ridotti dalla televisione alle sole categorie del calcio, se, quando l’arbitro fischia, i giocatori continuano a correre dietro al pallone, una partita non c’è proprio più e quello che si vede in campo è un’altra cosa.

Il “minimo etico” perché si possa giocare a calcio è che, chiunque sia l’arbitro, quando fischia i giocatori si fermino.

Dell’Utri è stato condannato oggi in secondo grado a sette anni di galera per complicità con la mafia.

Cuffaro è stato condannato pochi mesi fa in secondo grado a sette anni di galera per avere favorito dei mafiosi.

Questi due sono ancora oggi Senatori della Repubblica.

Mi scuso con loro e con tutti se li apostrofo per cognome e in maniera non cortese, ma francamente non riesco a essere cortese con chi (salvo il suo diritto al ricorso in Cassazione) risulta così coinvolto in vicende di mafia.

La mafia non è “una cosa brutta”. E’ molto peggio. La mafia è una associazione criminale di assassini, grassatori, eversori e quanto di peggio si possa pensare e fare.

La mafia è quella che ha assassinato Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, gli agenti delle loro scorte, Salvatore Saetta e suo figlio, Rosario Livatino e centinaia e centinaia di altri uomini, donne e bambini.

Davvero ci deve essere oggettivamente un limite a tutto.

Davvero non è possibile che a una persona che viene condannata in secondo grado per concorso in associazione mafiosa – Dell’Utri – invece di intimargli le dimissioni da ogni carica pubblica, gli si diano diversi minuti nei telegiornali di Stato per dire che la sentenza che lo ha condannato è “pilatesca” e che Vittorio Mangano, mafioso assassino, è il suo “eroe”.

E non è possibile che uomini di Governo e parlamentari trovino motivo di gioia nel fatto che il Dell’Utri è stato condannato per avere favorito la mafia ma solo fino al 1992. Così come il Cuffaro aveva gioito del fatto che la condanna a suo carico era stata pronunciata per favoreggiamento di alcuni mafiosi e non della mafia nel suo insieme.

Tutto questo non è “politica”.

Tutto questo non è “possibile”.

Tutto questo non è solo lo scempio dello Stato e della democrazia, ma proprio la sua radicale e sfacciata negazione.

Tutto questo non può essere accettato.

Chiunque accetta tutto questo si rende complice dell’assassinio di una civiltà e di un popolo.

Foss’anche il popolo stesso a farlo. In questo caso sarebbe un suicidio.

Non è questione, come dice Dell’Utri citando addirittura Dostoevskij, di avere ognuno gli eroi che preferiamo.

E’ questione di avere rispetto della realtà delle cose e del sangue di tanti giusti.

E’ questione di ritornare con la memoria alle immagini dell’autostrada per Punta Raisi e ai palazzi sventrati di via D’Amelio e considerare che stanno nel Senato della nostra devastata Repubblica persone ritenute da due gradi di giudizio amiche e sodali dei autori di quelle stragi orrende.

Di prendere atto che Governi e Parlamento da anni non sono impegnati a cacciare dai loro banchi i Dell’Utri e i Cuffaro, ma a insultare i magistrati impegnati a scoprirne le malefatte con leggi pensate e promulgate per nessun’altra ragione che impedire l’accertamento della verità e il perseguimento dei reati.

E di riconoscere che, se tutto questo sta materialmente accadendo, le colpe sono molto diffuse.

E’ un alibi comodo ma falso quello di credere che la colpa di tutto questo sia solo di chi occupa lo Stato consumandone l’anima.

Lo Stato può essere distrutto nella sua stessa anima solo se un intero popolo lo consente.

Lo Stato può essere distrutto come sta accadendo a noi ormai da anni solo se un numero molto alto di giornalisti, di deputati, di politici, di professori universitari, di magistrati, di avvocati, di intellettuali si rende complice di questo scempio con i suoi silenzi, con i suoi distinguo, con i suoi opportunismi, con il suo cinismo.

Un grande maestro di civiltà, don Lorenzo Milani, diceva “I care”. “Io me ne curo”, “a me importa”, in contrapposizione allora con il motto fascista “me ne frego”.

Credo che oggi ognuno di noi dovrebbe dire “io me ne sento responsabile”, “io non voglio esserne complice”, “io non tengo acceso il microfono del TG a un condannato per mafia che insulta i suoi giudici e beatifica un assassino”, “io domani scendo in piazza per protestare civilmente ma fermamente”, “io chiedo conto”, “io faccio sentire la mia voce”, “io dico la verità”, “io chiamo le cose con i loro nomi”.

Non è solo giusto e opportuno. E’ davvero indispensabile.

Perché dopo l’elogio dei mafiosi e il disprezzo della giustizia c’è solo la legge della giungla.

Una inevitabile regressione al mondo animale. Alla barbarie della forza bruta. Alla violenza del “ho il potere e faccio quello che mi pare”.



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