di Nicola Saracino - Magistrato
Non so se commentare una legge in fieri, in particolare una “legge del governo” (neologismo di questi tempi, sic!) mi esporrà a conseguenze disciplinari.
Corro il rischio.
Ma è su tutti i giornali l’idea dell’esecutivo di chiedere al parlamento di approvare (ripristiniamo i “fondamentali”, tipo lo stop di petto) una disciplina che proibisca al magistrato, in quanto tale, di parlare, pubblicamente, di diritto, dei diritti.
Perché i malpensanti potrebbero poi dubitare della sua imparzialità quando di quelle leggi il togato sia chiamato a fare “applicazione”.
Uso questo termine perché in esso riposa la massima aspirazione di un potere politico fuori dal tempo, mosso com'è dall’illusione che la separazione dei poteri implichi la tenuta stagna delle rispettive competenze: io faccio le leggi, tu le applichi.
Senonché tra i due termini della catena v’è un passaggio ineludibile, l’interpretazione.
Nessuna legge vive da sola.
Essa è calata in un contesto di altre norme, molte delle quali affermano “valori”.
Spesso si tratta di norme cd. “sovranazionali”, vale a dire create da enti diversi dallo Stato ed alle quali gli Stati hanno volontariamente scelto di soggiacere, accettando il vincolo alle leggi nazionali che, se in contrasto con quelle, non possono essere applicate.
Non devono essere applicate dai giudici dei singoli Stati.
E qui sta il punto critico, capace di mettere in crisi i pensatori più schematici.
Viene cioè a mancare ogni filtro tra la scure giudiziaria e la “legge del governo”, non risultando necessario il passaggio dalla Corte Costituzionale chiamata in causa solo quando di una legge si dubiti il contrasto con la Costituzione, non quando il contrasto sia con la normativa europea, ad esempio.
In questi pochi passaggi è condensato lo “scontro” politica-magistratura dei giorni nostri.
Veniamo, allora, alle contromisure per porre fine al predominio del giudiziario ideate dai "magistrati" addetti ai servizi legislativi dei vari dicasteri interessati. Già, il paradosso è che le leggi le fanno scrivere proprio ai magistrati che pullulano nei ministeri.
Due strategie.
La prima consiste nell’ideare un “giudice speciale” per la materia dell’immigrazione, agendo però solo sulla “competenza”: se ne occupino le corti d’appello, dove ci sono i saggi.
Se poi dovessero sbagliare, il rimedio si troverà nei tribunali, dove operano i meno saggi e verranno decise le impugnazioni.
A tacere del disastro organizzativo che una simile misura reca con sé, è evidente l’intento punitivo verso una categoria di giudici (quelli che compongono le sezioni immigrazione dei tribunali) ai quali da un lato viene sottratto ogni potere (la competenza, per l’appunto) ma, dall’altro lato, si assegna un potere ancora superiore (la competenza sull’impugnazione).
Con la conclusione, a seguire le contorsioni ascoltate in questi giorni, che la decisione del saggio potrà essere riformata dal meno saggio.
Passiamo al secondo strumento che il Governo pensa di mettere in campo: si vieti ai magistrati di commentare le leggi e se lo fanno che siano puniti disciplinarmente se poi non si astengono quando di quelle leggi debbano fare, per l’appunto, applicazione.
Imporre ai magistrati di non parlare (pubblicamente) di diritto è un po’ come esigere dai medici di non parlare di medicina.
Ma a scrutare l’”arnese” che dovrebbe realizzare l’obiettivo, vale a dire la norma di prossima introduzione, si prende coscienza della sua sostanziale impotenza.
Si prevede, cioè, che sia punibile disciplinarmente il magistrato che non si astenga quando ricorrano “gravi motivi di convenienza”.
Che si tratti di un “teatrino” è documentato dalle reazioni dello stesso potere togato incarnato dai suoi rappresentanti associativi i quali urlano ai quattro venti l’illiberalità della previsione.
Tutti i protagonisti dello “scontro” fingono.
Finge il Governo, finge l’ANM.
Perché già oggi il magistrato che non si astiene quando ricorrano seri motivi per farlo, anche se la legge processuale non lo impone, sono puniti disciplinarmente. E non risulta che l’ANM si sia mai doluta dell’illiberalità della Sezione Disciplinare del CSM, organo militarmente occupato dalle correnti della stessa ANM.
Dall’altro lato il Governo non si sogna di far approvare dal Parlamento una legge che espressamente vieti al magistrato di parlare di diritto, ben sapendo che sarebbe incostituzionale. Del resto il Ministro della Giustizia sa bene che non gli serve la nuova norma per "suicidarsi" accusando disciplinarmente un magistrato di avere espresso il suo pensiero.
Gli uni e gli altri sembrano, allora, alquanto distratti.
Il Governo non s’accorge di introdurre una norma inutile perché già da tempo applicata.
L’ANM non si è accorta che una norma tanto illiberale non ha avuto bisogno del Parlamento, perché è praticata in via di fatto proprio nel suo fortino, il Consiglio Superiore della Magistratura.
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