di Nicola Saracino - Magistrato
Quella del giudice, in particolare.
Perché a leggere le cronache degli ultimi mesi s’avverte netta la sensazione di una troppo diversa “sensibilità” delle due categorie di togati, giudici e pubblici ministeri, per l’appunto, verso quest’obbligo di legge.
Che ricorre - tralasciando le incompatibilità derivanti dal compimento di atti processuali e che sono poste in funzione di garanzia dell’imputato dal “pregiudizio” di chi già si sia occupato della sua vicenda - ogni qualvolta il magistrato sia interessato da ragioni d’opportunità tali da sconsigliare l’esercizio della sua funzione in un particolare processo.
Ad esempio quando sia amico o nemico di una parte, abbia dato consigli sul procedimento, siano ravvisabili ragioni d’opportunità non catalogabili a priori.
E così s’è appreso che per qualche pubblico ministero non è d’ostacolo allo svolgimento del suo compito che uno stretto congiunto presti o abbia prestato la sua opera professionale a vantaggio di soggetti coinvolti nel procedimento, sia pure in relazione ad affari diversi.
Il tema è piuttosto avvertito dal legislatore, se è vero che recentemente, nel 2018, l'art. 35 del d. lgs. 6 settembre 2011, n. 159, s'è arricchito di un comma 4 bis dal seguente tenore: «Non possono assumere l'ufficio di amministratore giudiziario, né quello di suo coadiutore, coloro i quali sono legati da rapporto di coniugio, unione civile o convivenza di fatto ai sensi della legge 20 maggio 2016, n. 76, parentela entro il terzo grado o affinità entro il secondo grado con magistrati addetti all'ufficio giudiziario al quale appartiene il magistrato che conferisce l'incarico, nonché coloro i quali hanno con tali magistrati un rapporto di assidua frequentazione. Si intende per frequentazione assidua quella derivante da una relazione sentimentale o da un rapporto di amicizia stabilmente protrattosi nel tempo e connotato da reciproca confidenza, nonché il rapporto di frequentazione tra commensali abituali».
La legge è quindi intervenuta su un doppio fronte: da un lato quello di evitare favoritismi a vantaggio di parenti ed amici dei magistrati nell'ottenimento di incarichi quand'anche non conferiti da loro congiunti ma da altri magistrati dell'ufficio giudiziario; dall'altro lato quello di prevenire eventuali incompatibilità dei magistrati chiamati ad occuparsi, a titolo non preventivabile, di vicende nelle quali siano coinvolti soggetti comunque collegabili a parenti ed amici.
Tornando all’obbligo di astenersi, quando riguardi un giudice, esso sarebbe ravvisabile a fronte di ventilati, sebbene indimostrati, rapporti con avvocati della difesa. Ciò, secondo un pubblico ministero.
Si legge, infatti, sul il Giornale del 18 marzo 2021 - in un articolo dal titolo "Anni di pressioni e ideologia: Devono essere condannati, Quei messaggi più o meno espliciti per indirizzare il processo e il tentativo di screditare il giudice Tremolada" - che il pubblico ministero del processo a carico dei massimi dirigenti dell’Eni avrebbe chiesto di produrre un verbale contenente, per l’appunto, quelle che ad una verifica compiuta nelle sedi competenti, si rivelarono mere insinuazioni nei confronti del presidente del collegio giudicante.
Il quale non ha dato ingresso a quel documento ed ha condotto a compimento il processo.
Se i fatti fossero veri, e speriamo che non lo siano, saremmo giunti al punto che il giudice deve denotare d'aver la “schiena dritta” non già a fronte di critiche e pressioni esterne, mediatiche o dell’imputato, ma al cospetto di un atteggiamento - assai discutibile dal punto di vista tecnico - della pubblica accusa.
La quale, se aveva seri elementi per farlo, era tenuta a formalizzare una ricusazione del giudice, secondo le regole del codice di procedura penale.
Che persino i pubblici ministeri cadano nel tranello dell’istituto farlocco dell’invito ad astenersi desta sconforto.
L’invito ad astenersi - sia esso espresso o tacito, per facta concludentia - è un non senso ed infatti non è previsto da alcuna norma.
Le cose stanno, invece, in questi termini: se il togato è a conoscenza di fatti che debbano indurlo ad astenersi deve, spontaneamente, dichiararli e lasciar decidere ad altri se debba lasciare il processo e se non lo fa ne assume la responsabilità, anche disciplinare.
Ma se non lo fa a nessuno è consentito di sollecitarne l’astensione.
Chi ha ragione di dubitare della sua idoneità a celebrare il processo deve far ricorso alla ricusazione, vale a dire ad una formale dichiarazione delle cause che rendono quel giudice incompatibile corredata delle prove della loro esistenza.
Ci sarà un altro giudice a stabilire se sollevare il giudice “precostituito per legge” dal suo compito, ovvero lasciare che il percorso “naturale” del processo prosegua col titolare del fascicolo.
Se si lascia libero ingresso alle illazioni ed alle insinuazioni si fa solo un enorme danno alla credibilità della giurisdizione, oltre ad offrire uno spettacolo non tranquillizzante all’opinione pubblica.
E’ quindi innegabile che tra giudici e pubblici ministeri appaia oggi ravvisabile uno scarto o meglio, una netta "separazione", nella sensibilità verso istituti che preservano la terzietà dei protagonisti investiti di pubbliche funzioni nel processo, quella del giudizio e quella dell’accusa, quest'ultima mai ricusabile e proprio per questo tenuta, se possibile, ad un rigore ancora maggiore nel soppesare l'opportunità che impone d'astenersi.
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