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Pubblichiamo il testo di un discorso tenuto da padre Bartolomeo Sorge S.J. nell’auditorium San Paolo della Diocesi di Reggio Calabria il 22 maggio 2008, in occasione del trentesimo anniversario della morte di padre Guido Reghellin S.J.. Ci sembra che l’analisi e le indicazioni di padre Sorge possano costituire spunto di riflessione per tutti noi che, credenti e non, ci interroghiamo sul “che fare”, su come corrispondere con il nostro impegno alla responsabilità alla quale questo tempo ci chiama. Un grazie affettuoso a padre Giovanni Ladiana S.J., amico fraterno, che ci ha aiutato a ritrovare questo prezioso testo.
L’evoluzione del ruolo dei laici
nella chiesa e nel mondo
di padre Bartolomeo Sorge S.J.
Sono contento di associarmi con voi al ricordo dell’indimenticabile padre Guido Reghellin. Continuare sulla strada da lui tracciata della formazione di un laicato maturo: uomini e donne di sintesi tra spiritualità e professionalità.
In una crisi epocale difficile, tocca soprattutto ai laici cristiani portare avanti un discorso nuovo, segno di speranza, capace di risvegliare gli animi di tutti gli uomini di buona volontà, senza rassegnarsi.
Occorre, perciò, comprendere anzitutto la situazione presente, per poterla cambiare.
Oggi la questione cattolica si identifica con la questione democratica.
La crisi è grave. Il fossato tra società civile e istituzioni democratiche si è allargato smisuratamente.
Dilaga l’“antipolitica” e la classe politica ormai è indicata con il nome dispregiativo di “casta”.
È entrata in crisi la “democrazia rappresentativa”, quella che ci siamo dati dopo la seconda guerra mondiale e che ha consentito al nostro Paese di diventare una delle prime nazioni del mondo.
Che fare per uscire dalle presenti difficoltà? È possibile costruire in Italia una “democrazia partecipativa” matura?
È questa la domanda, alla quale cercheremo di dare una risposta, compiendo tre passi:
1) anzitutto occorre rendersi conto della natura e delle dimensioni della grave crisi nella quale ci dibattiamo;
2) in secondo luogo, vedremo qual è il ruolo dei cristiani nella società oggi;
3) infine, specularmente, qual è il ruolo dei fedeli laici nella Chiesa di oggi, alla luce del Concilio Vaticano II.
1. Natura e dimensioni della crisi presente
Occorre dire subito che quella della democrazia rappresentativa è un aspetto della più ampia crisi di cultura e di civiltà che caratterizza questa lunga transizione dall’epoca moderna all’epoca post-moderna.
Applicando gli strumenti concettuali forniti dall’antropologia culturale, dobbiamo dire che stiamo vivendo una crisi non meramente congiunturale, ma di natura strutturale.
La crisi congiunturale è data dal cambiamento degli equilibri interni della società, ma senza variazioni apprezzabili del quadro generale della cultura e dei valori, sui quali si fondano le istituzioni che sostengono una determinata civiltà.
Finché reggono la cultura e i suoi valori, reggono le istituzioni che su quella cultura si fondano (la famiglia, la scuola, il lavoro, il sistema politico …): ovviamente, gli equilibri si rinnovano a ogni mutare di generazione, ma rimangono all’interno del medesimo quadro di valori, della medesima civiltà, che può durare a lungo.
Si tratta di crisi di natura “congiunturale”.
Quando invece si trasformano la cultura e i valori su cui si regge l’equilibrio istituzionale, allora la crisi diviene “strutturale”, le istituzioni non reggono più ma vanno riformate e ripensate. Finisce una civiltà e ne inizia un’altra.
La crisi strutturale è fondamentalmente una crisi di senso della vita.
La crisi oggi è appunto di natura strutturale: finisce la civiltà industriale, durata più o meno trecento anni, e nasce la civiltà post-moderna o tecnologica; è entrata in crisi la cultura precedente con i suoi valori.
Finisce un’epoca e se ne apre una nuova.
La crisi presente delle istituzioni (familiari, lavorative, scolastiche, di partecipazione politica come i partiti …) è strutturale, non solo congiunturale, perché è in crisi il senso stesso della vita.
Lo sottolinea Benedetto XVI: «A motivo dell’influsso di fattori di ordine culturale e ideologico, la società civile e secolare oggi si trova in una situazione di smarrimento e di confusione: si è perduta l’evidenza originaria dei fondamenti dell’essere umano e del suo agire etico e la dottrina della legge morale naturale si scontra con altre concezioni che ne sono la diretta negazione. Tutto ciò ha enormi e gravi conseguenze nell’ordine civile e sociale» (1).
Per queste ragioni di fondo è entrata in crisi la “democrazia rappresentativa”, che ci eravamo dati dopo la caduta del fascismo e che tanti buoni frutti ha prodotto.
In certa misura, essa è una “crisi di crescita”, non priva però di aspetti assai negativi.
Oggi i cittadini non si fidano più dei partiti e delle istituzioni democratiche; dubitano che essi siano in grado di tutelare la sicurezza dei cittadini, di garantire il benessere a tutte le fasce sociali, di liberare i territori del Paese dominati dalle mafie, di assicurare la rapidità della giustizia e la certezza della pena, di offrire servizi sociali che funzionino, di elaborare norme fiscali eque.
In una parola, la cosiddetta “Repubblica dei partiti” è finita, non solo perché decapitata da Tangentopoli, ma anche perché, a causa del profondo cambiamento culturale seguìto alla fine delle ideologie, la vecchia forma-partito ideologica non consente più una vera partecipazione dei cittadini alla elaborazione della politica nazionale (Cost., art. 49).
Non basta più andare a votare una volta ogni cinque anni!
La vita democratica è stata ridotta a ingegneria amministrativa e a ricerca del potere fine a se stesso; i vecchi partiti hanno finito con disattendere il bisogno di relazioni umane, interpersonali e sociali, che è maturato nei cittadini.
Oggi la società civile è cresciuta, non accetta più che il bene dei cittadini meno favoriti o emarginati dipenda dalla benevolenza dello Stato che interviene a ridistribuire la ricchezza prodotta (Stato sociale); chiede che i cittadini partecipino responsabilmente alla vita politica e siano inclusi attivamente nei processi di produzione e di ridistribuzione della ricchezza.
È impressionante come una Nota pastorale della CEI del 1991 vedeva già venire la crisi di oggi: «non fa meraviglia che la stessa determinazione delle regole generali di convivenza risulti in qualche modo inquinata. Le leggi, che dovrebbero nascere come espressione di giustizia, e dunque di difesa e di promozione dei diritti della persona, e da una superiore sintesi degli interessi comuni, sono spesso il frutto di una contrattazione con quelle parti sociali più forti che hanno il potere di sedersi, palesemente o meno, al tavolo delle trattative, dove esercitano anche il potere di veto. Tutto ciò ha portato ad elevare al massimo il potere ricattatorio di hi ha una particolare forza di contrattazione, ad aumentare il numero delle leggi “particolaristiche” (cioè in favore di qualcuno) e a ridurre invece drasticamente le leggi “generali”, vanificando così le istanze di chi non ha voce né forza. Per le stesse ragioni il parlamento corre il rischio di essere ridotto a strumento di semplice ratifica di intese realizzate al suo esterno, con il conseguente impoverimento della funzione delle assemblee legislative. Anche all’interno dei partiti il gruppo di vertice può giungere a imporre le sue scelte sulla base di contrattazioni fatte all’esterno dei partiti stessi. Per questa via le leggi corrono il rischio di farsi sempre meno strumento di meditata e condivisa regolamentazione dei problemi che vanno emergendo nella società e sempre più ratifica dell’esistente, cioè delle conquiste che, in assenza di una regolamentazione giusta ed efficace, il potente di turno ha realizzato. […] Anche la classe politica, con il suo frequente ricorso alle amnistie e ai condoni, a scadenze quasi fisse, annulla reati e sanzioni e favorisce nei cittadini l’opinione che si può disobbedire alle leggi dello Stato. Chi si è invece comportato in maniera onesta può sentirsi giudicato poco accorto per non aver fatto il proprio comodo come gli altri, che vedono impunita o persino premiata la loro trasgressione della legge. Tutto ciò può innestare una generale e pericolosa convinzione che la furbizia viene sempre premiata, che il “fai da te” contro le regole generali dello Stato può essere considerato pienamente legittimo» (2).
Che fare per passare alla “democrazia deliberativa” o partecipativa?
Occorre impedire che la politica resti in mano alla “casta”, cioè a rappresentanti eletti dal popolo ma succubi dei poteri forti o di gruppi d’interesse, senza più riferimento alla volontà degli elettori e a spese del bene comune: «è indispensabile che la comunità civile si riappropri quella funzione politica, che troppo spesso ha delegato esclusivamente ai “professionisti” di questo impegno nella società. Non si tratta di superare l’istituzione “partito”, che rimane essenziale nell’organizzazione dello Stato democratico, ma di riconoscere che si fa politica non solo nei partiti, ma anche al di fuori di essi, contribuendo a uno sviluppo globale della democrazia con l’assunzione di responsabilità di controllo e di stimolo, di proposta e di attuazione di una reale e non solo conclamata partecipazione» (3).
Tuttavia, bisogna stare attenti che il discorso sulla “democrazia deliberativa” non si riduca, a sua volta, al solo aspetto pragmatico e funzionale, cioè alla necessità di escogitare nuove tecniche di dialogo e di “inclusione” dei cittadini nelle decisioni, ma trascurando la parte fondativa o dei valori su cui la nuova forma di democrazia deve poggiare per essere solida.
Per “ricostituzionalizzare” lo Stato, per passare a una “democrazia deliberativa” effettivamente partecipata, c’è bisogno soprattutto di una nuova cultura della partecipazione, rafforzando i pilastri corrosi della “democrazia rappresentativa”.
Quali sono gli elementi fondamentali di questa cultura?
2. Ruolo dei fedeli laici nella società
Si tratta di superare la visione antropologica neoliberista, utilitaristica e individualistica, che sta all’origine del relativismo etico e ha messo in crisi la “democrazia rappresentativa” (4).
Infatti, il “pensiero unico” neoliberista dominante ha corroso i pilastri fondamentali della democrazia rappresentativa: la persona (riducendola a “individuo”), la solidarietà (riducendola a “legalismo formale”), la razionalità (riducendola a “laicismo”).
Perciò, lo sforzo che oggi dobbiamo fare è quello di porre a fondamento della nuova “democrazia deliberativa” o partecipativa una nuova cultura politica, passando: a) dall’“individuo” alla persona integrale; b) dal “legalismo formale” a una vera solidarietà fraterna; c) dal “laicismo” a una laicità positiva.
A) Dall’individuo alla persona.
Il neoliberismo si fonda su una visione “debole” della persona umana intesa come individuo; una simile concezione intacca anzitutto il concetto stesso di “persona”, giungendo a negare che ogni individuo sia persona, come nel caso di chi non fosse capace di relazioni normali a motivo di malformazioni genetiche.
In realtà l’uomo vale per quello che è, e non solo per quello che ha o per quello che fa.
L’uomo merita amore e rispetto perché vive, non perché possiede.
La sua dignità è legata proprio al fatto che è persona.
Perciò, finché vive, ogni uomo conserverà sempre la sua onorabilità; anche se è povero o infermo, anche se sbaglia o è delinquente.
La persona umana non perde mai la sua grandezza nativa e nessuno gliela può togliere.
L’uomo rimane sempre il principio e il fine della convivenza civile.
E’questa la ragione per cui – come rileva il Concilio Vaticano II –, almeno in via di principio, «credenti e non credenti sono pressoché concordi nel ritenere che tutto quanto esiste sulla terra deve essere riferito all’uomo, come a suo centro e vertice» (5).
La difficoltà nasce invece, quando si tratta di chiarire l’origine e il fondamento della dignità della persona.
Si danno tante spiegazioni. Tuttavia – come dimostra la storia – nessuna concezione puramente immanente dell’uomo riesce a fondarne in modo assoluto la dignità e l’esistenza di diritti inalienabili.
Ogni volta che si nega o si ignora l’origine trascendente della persona, si cade nel relativismo e l’uomo si distrugge.
La razza, la cultura, la salute, il potere, il successo, il danaro o qualsiasi altra realtà immanente, non potranno mai fondare il valore primario della persona.
Da qui viene il ruolo fondamentale dei cristiani nella crisi presente della società.
Infatti, la rivelazione cristiana viene in aiuto, svelando l’uomo all’uomo.
«La Sacra Scrittura, infatti, – aggiunge il Concilio – insegna che l’uomo è stato creato “a immagine di Dio”, capace di conoscere e di amare il proprio Creatore, e che fu costituito da Lui sopra tutte le creature terrene quale signore di esse, per governarle e servirsene a gloria di Dio» (6).
In altre parole, la persona umana possiede – a differenza di tutti gli altri esseri viventi – una dignità trascendente e diritti inalienabili, perché è creata «a immagine e somiglianza» di Dio (Gen 1, 26).
B) Dalla solidarietà alla fraternità.
Il secondo pilastro della democrazia rappresentativa, inteso in modo riduttivo dal neoliberismo, è il concetto di “solidarietà”.
Infatti, secondo la concezione individualistica della persona, ognuno è libero di scegliere e di fare ciò che vuole: l’unico limite è il rispetto della libertà altrui, e l’unico principio di autorità e verità è la volontà della maggioranza.
Non esistono una presunta verità e una norma etica trascendenti, che possano impedire la libera autodeterminazione dell’individuo.
Tuttavia, la storia stessa dimostra che una libertà senza limiti e senza alcuna norma morale porta alla autodistruzione della stessa libertà e della solidarietà.
I valori non dipendono dalla volontà libera degli uomini, né da maggioranze provvisorie e mutevoli; non li crea, né li decide lo Stato.
Essi vengono prima della libera organizzazione della società; sono inscritti nella coscienza di ogni uomo e, in quanto tali, sono punto di riferimento normativo per la stessa legge civile.
Compito dello Stato è tutelarli e coordinarli in vista del bene comune, ponendoli a fondamento dell’ordinamento democratico.
Perciò, anche Giovanni Paolo II ribadiva: «Se non esiste nessuna verità ultima, la quale guida e orienta l’azione politica, allora le idee e le convinzioni possono esser facilmente strumentalizzate per fini di potere. Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia» (7).
Il sistema democratico è solo uno strumento e, come tale, riceve la sua moralità dal fine cui serve.
La concezione illuministica di libertà altera, perciò, il modo di intendere la legalità cioè il concetto di solidarietà, i rapporti dei cittadini tra di loro e con lo Stato.
La legalità non può consistere nella mera osservanza formale delle regole in senso individualistico, ma è intrinsecamente sociale (vedi l’esempio del semaforo rosso).
Infatti la società è una comunità di persone in relazione tra loro, non è un gregge di individui anonimi uno accanto all’altro, ciascuno dei quali pensa solo a se stesso: non c’è libertà personale senza responsabilità sociale.
Il bene comune non è la somma totale dei beni individuali, ma è il bene di tutti e di ciascuno.
«Dall’indole sociale dell’uomo – ribadisce il Concilio – appare evidente come il perfezionamento della persona umana e lo sviluppo della stessa società siano tra loro interdipendenti. Infatti, principio, soggetto e fine di tutte le istituzioni sociali è e deve essere la persona umana, come quella che di sua natura ha sommamente bisogno di socialità. Poiché la vita sociale non è qualcosa di esterno all’uomo, l’uomo cresce in tutte le sue doti e può rispondere alla sua vocazione attraverso i rapporti con gli altri, i mutui doveri, il colloquio con i fratelli» (8).
Ancora una volta, il ruolo dei cristiani è determinante. La rivelazione cristiana, ancora una volta, viene in aiuto.
La solidarietà ci vuole, ma la pura legalità da sola non basta: «In nome di una presunta giustizia (ad esempio, storica o di classe), talvolta si annienta il prossimo, lo si uccide, si priva della libertà, si spoglia degli elementari diritti umani. L’esperienza del passato dimostra che la giustizia da sola non basta e che, anzi, può condurre alla negazione e all’annientamento di se stessa, se non si consente a quella forza più profonda che è l’amore, di plasmare la vita umana nelle sue varie dimensioni» (9).
C) Dal laicismo a una “laicità positiva”.
Infine, pure il terzo pilastro della democrazia rappresentativa – la razionalità, divenuta “laicismo” – oggi è in discussione.
Da un lato, la storia ha camminato, ma ha camminato pure la Chiesa: la dimostrazione storica dell’importanza decisiva della coscienza religiosa nella lotta contro le ingiustizie e per la pace è andata di pari passo con l’abbandono da parte della Chiesa dei vecchi schemi apologetici e il riconoscimento che la democrazia laica è il migliore sistema di governo.
Ciò ha condotto al superamento, anche da parte dello Stato laico, delle antiche diffidenze e al riconoscimento della importanza sociale della religione.
Chi può ancora sostenere che la fede è un fatto puramente privato e senza alcuna ricaduta sociale, di fronte alla parte avuta dalla coscienza religiosa nella caduta del muro di Berlino, nel riscatto di tanti popoli latino-americani, nella lotta alla mafia?
D’altro canto, anche la Chiesa ha camminato.
Il Concilio Vaticano II ha riconosciuto la laicità come valore.
Infatti – spiega la costituzione Gaudium et spes – le realtà temporali hanno un loro valore intrinseco, hanno finalità, leggi e strumenti propri, che non dipendono dalla rivelazione soprannaturale: «E’ in virtù della creazione stessa che le cose tutte ricevono la propria consistenza, verità, bontà, le loro leggi proprie e il loro ordine. L’uomo è tenuto a rispettare tutto ciò, riconoscendo le esigenze di metodo proprie di ogni singola arte o scienza» (10).
Per la Chiesa, quindi, la laicità non è un accidente storico, ma ha addirittura un fondamento teologico.
La conclusione è che ragione e religione non sono alternative, ma complementari.
Questo ripensamento della nozione di laicità, imposto dalla evoluzione dei tempi e delle idee, è confermato da due casi emblematici: l’Accordo di revisione del Concordato lateranense tra la Santa Sede e la Repubblica italiana (18 febbraio 1984) e il Trattato costituzionale europeo (firmato a Roma il 29 ottobre 2004, ora sostituito dal Trattato di riforma dell’Unione, firmato a Lisbona nel dicembre 2007) (11).
La religione, dunque, non è più considerata un fenomeno privato, e lo Stato laico non può più ignorarla.
Nella società pluriculturale e plurietnica, il problema di trovare una via all’incontro nel rispetto delle diversità è divenuto improrogabile e urgente.
Solo una laicità positiva consente l’incontro fra tradizioni diverse, nel rispetto della identità di ciascuna.
La nuova laicità, intesa non più come opposizione tra separati, ma come collaborazione tra diversi, comporta che, senza rinunciare alla propria identità, si cerchino insieme piste concrete per realizzare il maggior bene comune possibile in una data situazione, consapevoli delle necessarie mediazioni da compiere.
Ciò può fare problema soprattutto ai cattolici, chiamati a ispirare le scelte politiche a esigenze etiche fondamentali e irrinunciabili.
Tuttavia, è la natura stessa dell’arte politica a non consentire che quelle esigenze assolute si traducano immediatamente in leggi, ma a imporre la necessaria gradualità richiesta dalle situazioni concrete.
Lo rileva il Compendio della dottrina sociale della Chiesa: «Il fedele laico è chiamato a individuare, nelle concrete situazioni politiche, i passi realisticamente possibili per dare attuazione ai principi e ai valori morali propri della vita sociale. […] la fede non ha mai preteso di imbrigliare in un rigido schema i contenuti socio-politici, consapevole che la dimensione storica in cui l’uomo vive impone di verificare la presenza di situazioni non perfette e spesso rapidamente mutevoli» (12).
Pertanto, la collaborazione politica dei cattolici con partner di diverso orientamento culturale va impostata laicamente e nel rispetto delle regole democratiche, senza con ciò compromettere la propria identità e la coerenza con i valori ispiratori.
Questo incontro sul piano della laicità è il passaggio forzato alla democrazia deliberativa.
Nello stesso tempo, i cristiani, mentre si impegnano in politica a rispettare pienamente la laicità e le regole democratiche, ricercando il maggior bene concretamente possibile in dialogo con gli uomini di buona volontà, non rinunceranno mai a testimoniare la forza profetica e critica del Vangelo.
Tocca alla Chiesa intera di annunziare profeticamente, con la Parola e con la vita, che «il potere di Dio è diverso dal potere dei potenti del mondo».
Ora, questo passaggio dalla democrazia rappresentativa alla “democrazia deliberativa” non è scontato: siamo tutti impreparati.
Ecco perché è essenziale il discorso sulla educazione politica.
Tanto più oggi che la “questione sociale” è divenuta “questione antropologica”, i cui problemi gravissimi – quelli cosiddetti “eticamente sensibili”, insieme a quelli della pace, della salvaguardia del creato, della convivenza multietnica e multiculturale – esigono l’incontro e la collaborazione di tutti gli uomini di buona volontà, quale che sia la loro razza, la loro cultura, la loro religione.
Si tratta di realizzare un “neo-personalismo solidale e laico”, che consenta di “andare oltre” le contrapposizioni, per fare unità nella diversità, mantenendo ciascuno le proprie radici e la propria storia, ma superandosi in una visione superiore comune.
Si tratta di passare dalla persona intesa come individuo alla persona intesa in senso integrale, dalla solidarietà ridotta a mera realtà relazionale alla fraternità e dal laicismo inteso come separazione e contrapposizione alla laicità intesa come distinzione nella cooperazione per il bene comune.
In una parola: dalla democrazia rappresentativa alla democrazia deliberativa.
Tuttavia, non basta ripensare i pilastri teorici della “democrazia rappresentativa”, oggi corrosi; ma, nello stesso tempo, bisogna avere il coraggio di misurarsi con i problemi concreti, realizzando le necessarie riforme che consentano la partecipazione soggettiva dei cittadini, affinché essi si sentano coinvolti in prima persona nelle decisioni che contano e non siano solo consultati.
Ma, per questo, occorre formarsi.
3. Il ruolo dei fedeli laici nella Chiesa
Alla nostra generazione spetta il grave compito del discernimento.
I modelli di ieri non servono più, quelli di domani non ci sono ancora.
Occorre “inventare” strade nuove di partecipazione.
E’ una vera fatica – anche pericolosa, perché si può sbagliare –, ma è esaltante.
Il guaio è che questa crisi epocale di civiltà ci ha presi alla sprovvista, non l’abbiamo vista venire.
Ci siamo trovati tutti impreparati ad affrontarla.
Di qui la priorità assoluta della educazione e della formazione, tanto più necessaria in quanto i cattolici oggi sono divisi non sulla necessità di rendere al Paese un servizio culturale, ma sul modo di prestarlo.
Come si devono porre la Chiesa e i cattolici italiani di fronte ai gravi interrogativi che la presente situazione comporta?
La Chiesa non può disinteressarsene – ribadisce il Papa –: «non può esimersi dall’interessarsi del bene dell’intera comunità civile, in cui vive e opera, e ad essa offre il suo peculiare contributo formando nelle classi politiche e imprenditoriali un genuino spirito di verità e di onestà, volto alla ricerca del bene comune e non del profitto personale» (13).
Perciò, Benedetto XVI ha ribadito alla 45ma Settimana Sociale quanto aveva già detto nell’enciclica Deus caritas est: «il compito della Chiesa è mediato, in quanto le spetta di contribuire alla purificazione della ragione e al risveglio delle forze morali»; nello stesso tempo, però, accanto al contributo “mediato”, specifico della Gerarchia, è compito dei fedeli laici operare “immediatamente” per un giusto ordine nella società; pertanto, «come cittadini dello Stato tocca ad essi partecipare in prima persona alla vita pubblica e, nel rispetto delle legittime autonomie, cooperare a configurare rettamente la vita sociale, insieme con tutti gli altri cittadini, secondo le competenze di ognuno e sotto la propria autonoma responsabilità» (14).
In una parola: è l’ora dei laici.
È loro missione, mediare in termini culturali, politici, economici e sociali la luce che il Vangelo e l’insegnamento della Chiesa gettano sull’antropologia.
Infatti, alcuni si ispirano al metodo deduttivo: ritengono che si debba partire dalla riaffer-mazione dei valori e dei principi “non negoziabili” per dialogare «senza complessi di inferiorità con le dinamiche culturali del nostro tempo» (così, per esempio, si leggeva nel Documento preparatorio alla 45ma Settimana sociale), proponendosi in forma neppure tanto velata di ristabilire in Italia una forma di leadership culturale cattolica, dopo la fine di quella politica.
Altri invece, senza nulla togliere alla importanza della testimonianza e dell’annunzio coraggioso dei valori del Regno di Dio, ritengono che sul piano operativo si debba seguire il metodo induttivo: partire piuttosto dalla condivisione disinteressata dei problemi materiali, morali e culturali della gente, per proseguire insieme gradualmente verso la verità tutta intera, confidando nell’aiuto dello Spirito Santo che apre gli occhi della mente e del cuore.
È questo il metodo di Giovanni XXIII (Vedere, giudicare, agire), fatto proprio dal Concilio (Gaudium et spes), codificato da Paolo VI nella lettera apostolica Octogesima adveniens, n. 4.
È importante chiarire questo rapporto tra dialogo e testimonianza della carità.
Non è solo questione di metodo, se è vero – come scrive Benedetto XVI nell’enciclica Deus caritas est – che la carità (quindi, anche la carità culturale) «non deve essere un mezzo in funzione di ciò che oggi viene indicato come proselitismo. L’amore è gratuito; non viene esercitato per raggiungere altri scopi. […] Chi esercita la carità in nome della Chiesa non cercherà mai d’imporre agli altri la fede della Chiesa» (15).
In Italia, infatti, la questione è questa: in una situazione culturalmente e politicamente fram-mentata i cattolici sono in grado, sì o no, di aiutare il Paese a ritrovare la sua unità nel rispetto della pluralità?
Sono capaci, sì o no, di realizzare insieme con gli altri una mediazione culturale che recepisca quanto di valido vi è nelle differenti tradizioni, senza chiedere a nessuno di rinnegare le proprie radici e la propria storia, ma spingendo tutti a una partecipazione democratica, che vada oltre gli anacronistici steccati ideologici e culturali?
Certamente sì.
Non solo i cattolici sono capaci di recare questo contributo, ma oggi è questo il loro preciso dovere.
A ciò li impegna il grande “sì” della fede, di cui parla spesso Benedetto XVI. Non è una categoria astratta («La fede senza le opere è morta», [Gc 2, 26]), ma si traduce necessariamente in testimonianza disinteressata della carità, anche della “carità culturale” e della “carità sociale e politica”: offerta non in modo strumentale, per imporre agli altri una propria visione confessionale, ma con disinteresse in vista alla formazione di un ethos civile e laico condiviso, intorno al quale realizzare l’unità nella pluralità, necessaria a garantire il bene comune.
Detto in altre parole: non basta enunciare i valori assoluti e i principi “non negoziabili” (i quali devono essere certamente annunziati e testimoniati), se nello stesso tempo non ci si impegna a ricercare insieme il bene comune possibile, il quale passa inevitabilmente attraverso le regole democratiche del consenso e quelle psicologiche della gradualità.
Infatti – come ha spiegato bene il card. Martini nel discorso di sant’Ambrogio 1998 –, il bene comune non consiste in una definizione filosofica astratta, ma va perseguito concretamente commisurandolo alle reali situazioni storiche in cui si opera; ciò significa che il suo raggiun-gimento dovrà passare per il convincimento e la pazienza, per la progressiva e graduale af-fermazione dei valori, talvolta «perfino per dure rinunce nel nome di una superiore concordia civile e sempre in vista di un bene più alto» (16).
Principi e valori, cioè, sono sempre in sé “non negoziabili”, ma la loro traduzione storica è soggetta alle condizioni di tempo e di luogo, al consenso e alla crescita del costume e della vita politica.
«Pare invece – continua Martini – che, nell’accettare le leggi del consenso, il cristiano si senta in colpa, come se affidasse al consenso democratico la legittimazione etica dei propri valori. Non si tratta di affidare al criterio della maggioranza la verifica della verità di un valore, bensì di assumersi autonomamente una responsabilità nei confronti della crescita del costume civile di tutti, che è il compito vero dell’etica politica. Tale compito perciò sta a cuore alla Chiesa nel suo operare come seme e lievito all’interno della società» (17).
Pertanto, si applica anche all’esercizio della “carità culturale” ciò che Benedetto XVI dice più in generale nell’enciclica Deus caritas est: «Il cristiano sa quando è tempo di parlare di Dio e quando è giusto tacere di Lui e lasciar parlare solamente l’amore. Egli sa che Dio è amore (cfr 1 Gv 4, 8) e si rende presente proprio nei momenti in cui nient’altro viene fatto fuorché amare» (18).
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In conclusione, oggi non è più tempo di pensare all’egemonia di una cultura politica (neppure di quella “cattolica”) imposta sulle altre, ma di realizzare la partecipazione di tutti alla vita democratica, che apra le diverse tradizioni culturali che hanno fatto l’Italia a una dimensione trascendente nuova, senza tagliarne le radici.
Ma per questo bisogna formarsi, educarsi alla politica.
Per tutti, si tratta di rinverdire e approfondire lo spirito e la lettera della nostra Costituzione repubblicana.
Sessant’anni fa i Padri costituenti riuscirono a superare le profonde divisioni ideologiche di allora in nome del bene comune del Paese, facendo sintesi tra l’attenzione alla dimensione etica e religiosa (propria del personalismo della tradizione cattolico-democratica), l’insistenza sulla solidarietà (propria della tradizione socialista) e la esigenza di laicità (propria della tradizione liberal-democratica).
Perché noi oggi non dovremmo riuscire ad approfondire insieme il significato di valori (libertà, uguaglianza, solidarietà, pace, dignità della persona) che permeano la nostra Costituzione e di cui oggi conosciamo meglio il significato dopo 60 anni di vita democratica?
Per i cattolici, in particolare, si tratta di formare numerosi politici nuovi, uomini e donne della sintesi tra spiritualità e professionalità, capaci di testimoniare e immettere lo specifico cristiano nella vita politica: «Chi ha responsabilità politiche e amministrative abbia sommamente a cuore alcune virtù, come il disinteresse personale, la lealtà nei rapporti umani, il rispetto della dignità degli altri, il senso della giustizia, il rifiuto della menzogna e della calunnia come strumento di lotta contro gli avversari, e magari anche contro si definisce impropriamente amico, la fortezza per non cedere al ricatto del potente, la carità per assumere come proprie le necessità del prossimo, con chiara predilezione per gli ultimi» (19).
Pertanto, i cattolici – quale che sia la loro scelta partitica – oggi sono chiamati a recare un contributo originale ed essenziale in direzione d’una nuova cultura della partecipazione, sia a livello di riflessione teorica, sia a livello operativo di testimonianza e di effettivo servizio politico e sociale.
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(1) Benedetto XVI, «Discorso ai membri della Commissione Teologica Internazionale» (5 ottobre 2007), in L’Osservatore Romano, 6 ottobre 2007, 5.
(2) Commissione ecclesiale giustizia e pace, Educare alla legalità (1991), n. 8s., §§ 544s., 550s. in Enchiridion CEI, 5, pp. 209ss.
(3) Ivi, n. 17, § 580, p. 224.
(4) Benedetto XVI, nell’enciclica Spe salvi (2007), analizza come si sia formata in Occidente questa cultura sull’onda del progresso scientifico e tecnico, stabilendo un rapporto ambiguo tra libertà e ragione (nn. 16-23); e conclude: «Se al progresso tecnico non corrisponde un progresso nella formazione etica dell’uomo, nella crescita dell’uomo interiore (cfr Ef 3,16; 2 Cor 4,16), allora esso non è un progresso, ma una minaccia per l’uomo e per il mondo» (n. 22).
(5) Concilio Vaticano II, costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 12.
(6) Ibidem
(7) Giovanni Paolo II, Evangelium vitae (1995), n. 70.
(8) Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 25
(9) Giovanni Paolo II, Dives in misericordia (1980), n. 12.
(10) Concilio Vaticano II, costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 36.
(11) L’art. 1 dell’Accordo di revisione recita: «La Repubblica italiana e la Santa Sede riaf-fermano che lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani, impegnandosi al pieno rispetto di tale principio nei loro rapporti ed alla reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese». A sua volta, l’art. I-52 del Trattato costituzionale europeo (ora divenuto art. 16C del Trattato di riforma, approvato a Lisbona nel 2007) riconosce lo status di cui le Chiese, associazioni o comunità religiose godono nel proprio Paese (§1); quindi, dopo aver ammesso esplicitamente il valore sociale della religione, dispone che si instaurino rapporti stabili di collaborazione tra le istituzioni dell’Unione e le Chiese, attraverso «un dialogo aperto, trasparente e regolare» (§3).
(12) Pontificio consiglio della giustizia e della pace, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, n. 568.
(13) Benedetto XVI, «Messaggio al Presidente della CEI in occasione della 45a Settimana Sociale dei Cattolici Italiani», in L’Osservatore Romano, 20 ottobre 2007, n. 6.
(14) Ivi.
(15) Benedetto XVI, enciclica Deus caritas est, n. 31c.
(16) Martini C. M., «Il seme, il lievito, il piccolo gregge», discorso di sant’Ambrogio 1998, in AS 2 (1999) 164.
(17) Ivi.
(18) Benedetto XVI, enciclica Deus caritas est, cit., ivi.
(19) Commissione ecclesiale giustizia e pace, Educare alla legalità, cit. n. 16, § 578, p. 223.
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