di Roberto Scarpinato
(Procuratore della Repubblica Aggiunto di Palermo)
da Corriere.it del 26 agosto 2009
Troppe risorse a fiction depistanti che non centrano il vero bersaglio
Testo pubblicato per gentile concessione della rivista “Duellanti”
Se provate a chiedere a un fruitore medio di fiction e di film sulla mafia che idea si sia fatto della stessa, vi sentirete sciorinare i nomi dei soliti noti: Riina, Provenzano, i casalesi e via elencando.
Sentirete evocare frammenti di una storia di bassa macelleria criminale, intessuta di omicidi, cadaveri sciolti nell’acido, estorsioni, traffici di stupefacenti, di cui sono esclusivi protagonisti personaggi di questa risma: gente che viene dalla campagna o dai quartieri degradati delle città, e che si esprime in un italiano approssimativo.
Una storia di brutti sporchi e cattivi, e sullo sfondo la complicità di qualche colletto bianco, di qualche pecora nera appartenente al mondo della gente “normale”. Ma, del resto, in quale famiglia non esiste qualche pecora nera?
Se dunque la mafia è solo quella rappresentata (tranne qualche eccezione) da fiction e film, è evidente che il fruitore medio tragga la conclusione che la soluzione del problema consista nel mettere in carcere quanti più brutti sporchi e cattivi, e nel fare appello alla buona volontà di tutti i cittadini onesti perché collaborino con lo sforzo indefesso delle forze di polizia e della magistratura per estirpare la mala pianta.
Questo, con le dovute varianti, il pastone culturale ammannito da fiction e film di conserva con la retorica ufficiale televisiva, e metabolizzato dall’immaginario collettivo.
Un pastone che non fornisce le chiavi per dare risposta ad alcune domande elementari.
Ad esempio come mai, tenuto conto che le cose sono così semplici, lo Stato italiano è riuscito a debellare il banditismo, il terrorismo e tante altre forme di criminalità, ma si rivela impotente dinanzi alla mafia che dall’unità d’Italia a oggi continua a imperversare in gran parte del Paese?
Come mai parlamenti, consigli regionali e comunali, organi di governo e di sottogoverno sono affollati di pregiudicati o inquisiti per mafia, tanto da insinuare il dubbio che quel che combattiamo fuori di noi sia dentro di noi?
Come mai, oggi come ieri, tra i capi organici della mafia vi è uno stuolo di famosi medici, avvocati, professionisti, imprenditori, molti dei quali già condannati con sentenze definitive?
Come mai commercianti e imprenditori a Palermo, a Napoli, in Calabria continuano a pagare in massa il pizzo e, a differenza del fruitore medio, non si bevono la buona novella che la mafia è alle corde?
Come mai i vertici di Confindustria lanciano tuoni e fulmini contro i piccoli commercianti che non hanno il coraggio di denunciare gli estorsori, minacciandoli di espellerli dall’organizzazione, ma vengono colti da improvvisa afasia quando si chiede loro perché intanto non comincino a prendere posizione nei confronti delle centinaia di imprenditori, inquisiti o già condannati, che hanno azzerato la libera concorrenza e costruito posizioni di oligopolio utilizzando il metodo mafioso?
Ecco, quando a un fruitore medio ponete queste e altre domande, lo vedrete annaspare cercando vanamente possibili risposte nell’infinita massa di fotogrammi, immagini e battute stipate nelle sue sinapsi, dopo centinaia di ore trascorse a vedere fiction e film che raccontano le note storie di brutti sporchi e cattivi.
Mentre sceneggiatori continuano a proiettare catarticamente il male di mafia sul monstrum (colui che viene messo in mostra) – Riina, Provenzano, Messina Denaro, i casalesi – elevato a icona totalizzante della negatività, centinaia di processi celebrati in questi ultimi quindici anni hanno raccontato un’altra storia della mafia, sacramentata da sentenze passate in giudicato, che fornisce risposte illuminanti a molte delle domande di cui sopra.
Un’altra storia intessuta di centinaia di delitti, di stragi di mafia decise in interni borghesi da persone come noi, che hanno fatto le nostre stesse scuole, frequentano i nostri stessi salotti, pregano il nostro stesso Dio ...
Un’altra storia che ha dimostrato come la città dell’ombra – quella degli assassini – e la città della luce, abitata dalle “persone perbene”, non siano affatto separate ma comunichino attraverso mille vie segrete, tanto da rivelarsi come due facce dello stesso mondo.
Un’altra storia che racconta l’osceno di questo Paese, quel che è avvenuto ob scenum, mettendo a nudo un fuori scena affollato di una moltitudine di sepolcri imbiancati che hanno armato la mano dei killer o li hanno protetti con il loro silenzio complice.
Che racconta come gli assassini arrivino sulla scena per buon ultimi, quando i sepolcri imbiancati hanno fallito nel fuori scena tutti i tentativi necessari per convincere la vittima ad ascoltare, per il suo bene e quello della sua famiglia, i consigli degli amici, sicché, come sono solite fare le persone istruite e timorose di Dio, allargando sconsolati le braccia ripetono: “Dio sa che è lui che ha voluto farsi uccidere ...”.
Centinaia di processi che costringono a rileggere la storia della mafia non più come una storia altra, che non ci appartiene e non ci chiama in causa, ma piuttosto come un terribile e irrisolto affare di famiglia, interno a una classe dirigente nazionale tra le più premoderne, violente e predatrici della storia occidentale, la cui criminalità si è estrinsecata nel corso dei secoli in tre forme: lo stragismo e l’omicidio politico, la corruzione sistemica e la mafia.
Tre forme criminali che essendo espressione del potere sono accomunate non a caso da un unico comune denominatore, che è il crisma stesso del potere: l’eterna impunità garantita ai mandanti eccellenti di stragi e omicidi politici e ai principali protagonisti delle vicende corruttive.
Una storia-matrioska nel cui ventre si celano centinaia di storie accertate con sentenze definitive, che sembrano fatte apposta per la felicità di qualsiasi sceneggiatore e regista che volesse prendersi la briga di narrarle.
Vogliamo provare a raccontarne solo una tra le tante?
C’era una volta..., anzi... mi correggo. Ci fu per una volta, e per un breve periodo, in un’isola di assolata e bruciante bellezza, un Presidente della Regione che si chiamava Piersanti Mattarella, notabile democristiano figlio di un ex Ministro, il quale si era messo in testa di cambiare il corso delle cose e di moralizzare la vita pubblica.
Iniziò quindi a promuovere leggi per controllare il modo in cui erano spesi i soldi della collettività, e a disporre ispezioni straordinarie per accertare come venivano assegnati gli appalti pubblici.
Gli amici gli consigliavano di lasciar perdere, ma lui non recedeva dai suoi propositi.
Lentamente, giorno dopo giorno, cominciò a trovarsi sempre più solo. Frequentarlo significava rischiare di restare impigliati dentro la «camera della morte». Così viene chiamata in Sicilia l’enorme e invisibile rete costruita sott’acqua per imprigionare i tonni, che, quando riemergono in superficie dal fondo della rete, si trovano circondati dalle barche disposte in cerchio e vengono finiti a colpi di arpione nel corso delle mattanze: bagni di sangue che evocano antichi rituali sacrificali dove vita e morte si confondono, giacché l’una si nutre dell’altra.
Quando Mattarella percepì attraverso il linguaggio mutigno dei gesti degli “amici” - i loro sguardi costernati, i loro silenzi imbarazzati - che il rullo dei tamburi di morte si faceva sempre più vicino, tentò di salvarsi la vita chiedendo aiuto a Roma ad alcuni vertici del suo partito e al Ministro degli Interni.
Al ritorno dalla sua trasferta romana, confidò alla sua segretaria che se gli fosse accaduto qualcosa la causa sarebbe stata da ricercarsi in quel viaggio romano.
Mentre Mattarella volava a Roma, un altro aereo si alzava segretamente in volo dalla Capitale verso la Sicilia.
A bordo si trovava uno degli uomini più potenti del Paese, personificazione stessa del potere statale: Giulio Andreotti, sette volte Presidente del Consiglio, ventidue volte Ministro.
Dove andava Andreotti in gran segreto? Partecipava a un incontro con i capi della mafia militare e quelli della mafia dei colletti bianchi: l’onorevole Salvo Lima e i cugini Nino e Ignazio Salvo.
In quel qualificato consesso si discuteva del “problema Mattarella”, quel democristiano anomalo che si ostinava a non ascoltare i buoni consigli degli “amici” e stava compromettendo gli interessi del sistema di potere mafioso.
Il 6 gennaio 1980, Mattarella fu ucciso sotto casa da un commando mafioso. Giulio Andreotti tornò segretamente in Sicilia e all’interno di una villa incontrò alcuni dei mafiosi assassini di Mattarella che, com’è sacramentato in una sentenza definitiva della Repubblica italiana, avrebbe coperto con il suo silenzio complice per il resto dei suoi giorni, garantendo così la loro impunità e alimentando il senso di onnipotenza della mafia (1).
Che ve ne pare? Non vi sembra una storia inventata apposta per un film?
Se, come diceva Hegel, il demonio si nasconde nel dettaglio, nel dettaglio di questa storia è leggibile il segreto dell’irredimibilità e della dimensione macropolitica del problema mafia, al di là delle imposture e dei depistaggi alimentati dal sapere ufficiale che lo spaccia come quella vicenda di bassa macelleria criminale di cui dicevo all’inizio.
Di storie simili se ne potrebbero raccontare per mille e una notte. Sono tutte racchiuse in un enorme giacimento a cielo aperto a disposizione di chiunque: le pagine dei tanti processi che con un tributo altissimo di sangue hanno per la prima volta in Italia portato sul banco degli imputati non solo i soliti brutti sporchi e cattivi, i bravi di Don Rodrigo, ma anche il “Principe” di cui essi sono stati instrumentum regni e scoria, e senza la cui protezione e complicità sarebbero stati da tempo spazzati via.
Un album di famiglia di “intoccabili”, che nel loro insieme ricompongono il segreto ritratto di Dorian Gray di una componente irredimibile della nostra classe dirigente: ministri, capi dei servizi segreti, vertici di polizia, parlamentari, alti magistrati, alti prelati, banchieri, uomini a capo di imperi economici.
Storie scomode perché chiamano in causa responsabilità collettive, costringono a interrogarsi sull’identità culturale del Paese e sul passato e sul futuro ... o sulla mancanza di futuro di un’Italia ancora troppo immatura per fare i conti con la propria storia e verità, e quindi condannata a vivere all’interno di una tragedia inceppata, destinata ciclicamente a ripetersi, pur nelle sue varianti storiche.
Storie scomode che dimostrano quanto sia fuori dalla realtà continuare a raccontare il come e il perché della mafia come una sorta di opera dei pupi dove vengono messi in scena solo eroi solitari - Orlando e Rinaldo - che guerreggiano contro turpi saraceni: Riina, Provenzano, ecc.
Dinanzi a tutto ciò, come spiegare il silenzio, la distrazione - che talora sembrano sconfinare nell’omertà culturale - di tanti sceneggiatori e registi? Induce a riflettere come tale omertà appaia perfettamente speculare a quella che caratterizza il discorso pubblico sulla mafia e sulla criminalità del potere, e come l’una e l’altra celino sotto il velo della retorica le piaghe della nazione.
Che pensare dinanzi a tante pellicole che, pure di ottima fattura, si rivelano tuttavia depistanti nel loro raccontare un universo mafioso quasi completamente decorrelato nella sua genesi e nelle sue dinamiche dal sistema di potere di cui è espressione e sottoprodotto?
L’equivalente di raccontare la storia dei bravi di manzoniana memoria come un sottomondo autorefenziale, tagliando il cordone ombelicale con il sopramondo dei Don Rodrigo.
L’equivalente di raccontare il Fascismo ascrivendone la responsabilità solo a un manipolo di esaltati gerarchi, e non già come l’autobiografia di una nazione.
La storia di questo Paese ricorda a tratti quella di certe famiglie che nel salotto buono mettono in bella mostra per gli ospiti le glorie e il decoro della casata, e nello scantinato nascondono la stanza di Barbablù che gronda sangue.
È lecito dubitare che la rimozione, alla quale ho accennato, sia solo frutto di distrazione o sottovalutazione?
Si può ipotizzare che costituisca la “fisiologica” declinazione dell’essere la mafia una delle forme in cui si è storicamente manifestata la criminalità del potere in Italia?
Il cardinale Mazzarino, gesuita di origine italiana, consigliere del Re di Francia Luigi XIV, soleva ripetere: «Il trono si conquista con le spade e i cannoni, ma si conserva con i dogmi e le superstizioni».
Questa massima riassume in modo magistrale l’esigenza di condizionare la costruzione del sapere sociale in modo da impedire al popolo di comprendere i segreti della macchina del potere, tra i quali i suoi crimini.
Proprio per questo motivo, da sempre il sistema di potere ha falsificato il sapere sociale sulla mafia.
Prima per decenni ne ha negato ostinatamente l’esistenza, poi, sino alla metà degli anni Ottanta, l’ha banalizzata a mera criminalità comune e, infine, dopo le stragi del 1992 e 1993, ha giocato la carta - sinora vincente - di ridurla a una storia di “mostri”, di orchi cattivi ...
Poiché, dunque, il sapere sociale non è mai innocente, viene da chiedersi sino a che punto la rimozione e l’adulterazione che caratterizza la rappresentazione filmica della mafia sia condizionata non solo dalle autocensure di chi ritiene sconveniente raccontare storie sgradite al potere, ma anche da un sistema che orienta la produzione, canalizzando le risorse solo sui film e le fiction “innocui” o, peggio, depistanti nel senso che contribuiscono a cristallizzare nell’immaginario collettivo i dogmi e le superstizioni tanto cari ai Mazzarino di ieri e a quelli di oggi.
Comunque sia, quel che accade - o meglio che non accade - chiama in causa la responsabilità di tutti coloro che lavorano nel mondo delle fiction e del cinema.
C’è una storia collettiva che attende ancora di essere raccontata e salvata dall’oblio organizzato, per restituire al Paese la sua verità e aiutarlo a divenire adulto.
Portarla alla luce in tanti processi è costato un altissimo prezzo: alcuni sono stati assassinati, altri - magistrati, poliziotti, semplici testimoni - segnati per il resto della vita.
Ora tocca a qualcun altro fare la sua parte.
E se ciò non dovesse avvenire, tra qualche anno dovremmo purtroppo fare nostra l’amara considerazione di Martin Luther King: «Alla fine non ricorderemo le parole dei nostri nemici, ma il silenzio dei nostri amici».
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(1) Nella motivazione della sentenza n. 1564 del 2.5.2003 della Corte di Appello di Palermo nel processo a carico di Andreotti, confermata definitivamente in Cassazione, si legge: «E i fatti che la Corte ha ritenuto provati dicono, comunque, al di là dell’opinione che si voglia coltivare sulla configurabilità nella fattispecie del reato di associazione per delinquere, che il sen. Andreotti ha avuto piena consapevolezza che suoi sodali siciliani intrattenevano amichevoli rapporti con alcuni boss mafiosi; ha, quindi, a sua volta, coltivato amichevoli relazioni con gli stessi boss; ha palesato agli stessi una disponibilità non meramente fittizia, ancorché non necessariamente seguita da concreti, consistenti interventi agevolativi; ha loro chiesto favori; li ha incontrati; ha interagito con essi; ha loro indicato il comportamento da tenere in relazione alla delicatissima questione Mattarella, sia pure senza riuscire, in definitiva, a ottenere che le stesse indicazioni venissero seguite; ha indotto i medesimi a fidarsi di lui e a parlargli anche di fatti gravissimi (come l’assassinio del Presidente Mattarella) nella sicura consapevolezza di non correre il rischio di essere denunciati; ha omesso di denunciare le loro responsabilità, in particolare in relazione all’omicidio del Presidente Mattarella, malgrado potesse, al riguardo, offrire utilissimi elementi di conoscenza».
17 commenti:
Non vi sembra, a voi che siete magistrati, "obliquamente diffamatorio" accostare l'immagine di Andreotti a un titolo avente ad oggetto la mafia? E non vi sembra, ancora, vile non dirlo espressamente, se è questo che pensate davvero?
il 26 settembre tutti a Roma
http://resistenzantimafia.blogspot.com/
Da noi questa immagine della mafia ci viene fornita dalle fictions; mentre in America, in una faccenda di altro tipo, sono gli organi stessi del potere che ci forniscono la "versione ufficiale" consacrata dal coro unanime dei mass media.
L'affare Madoff, ufficialmente, è una banale truffa. Ci sono molte vittime e c'è un truffatore piangente, desolato e pentito: Madoff. Quando poi si va a scavare si scopre che Madoff e i suoi rabatteurs hanno potuto far sparire cinque o sei miliardi al massimo. Se si pensa al periodo di attività del "cattivo", una trentina d'anni, alle molteplici ispezioni, tutte senza esito, alle molteplici denunce, senza esito, ai quarantacinque miliardi e passa di dollari spariti in un buco nero, al fatto che esiste una acuta curiosità ufficiale di conoscere le vittime, ma ben poca curiosità di conoscere i veri profittatori della vicenda; se si pensa a tutto questo allora si può concludere che in materia di fiction gli americani sono forse più bravi di noi.
Aggiungendo altri episodi italiani e non c'è da chiedersi se siamo in presenza di un fenomeno involutivo proprio ai paesi democratici, fenomeno che permette al potere di sostituire ai fatti una loro rappresentazione di comodo, una fiction, appunto. Noi in questo campo potremmo, al massimo, esser considerati come dei precursori.
Per Anonimo delle 12.57
Signore,
le Sue domande meritano le seguenti risposte:
1. Da ciò che Lei scrive risulta evidente che Lei non ha letto l'articolo che abbiamo pubblicato.
Se lo avesse fatto, avrebbe scoperto che in esso vengono descritti alcuni dei rapporti di Giulio Andreotti con la mafia.
E' buona regola leggere un articolo prima di criticarlo. Conoscere prima di parlare. Tanto più se si intende parlare, come fa Lei, in maniera gratuitamente supponente e arrogante.
2. "Accostare l'immagine di Andreotti a un titolo avente ad oggetto la mafia" non è in alcun modo diffamatorio, né direttamente né obliquamente, come sostiene Lei.
Infatti, è pacifico, in diritto, che non è diffamatorio riferire fatti veri, quando riguardino fatti e persone di interesse pubblico.
I consapevoli rapporti di Andreotti con la mafia sono stati accertati da una sentenza divenuta irrevocabile.
3. Se Lei, prima di parlare di cose che non sa e non capisce, facesse la semplice fatica di leggere:
a) eviterebbe di fare pessime figure;
b) troverebbe nell'ultima parte del nostro post il brano testuale della sentenza che, comunque, per aiutarLa, le ricopio qui: «E i fatti che la Corte ha ritenuto provati dicono, comunque, al di là dell’opinione che si voglia coltivare sulla configurabilità nella fattispecie del reato di associazione per delinquere, che il sen. Andreotti ha avuto piena consapevolezza che suoi sodali siciliani intrattenevano amichevoli rapporti con alcuni boss mafiosi; ha, quindi, a sua volta, coltivato amichevoli relazioni con gli stessi boss; ha palesato agli stessi una disponibilità non meramente fittizia, ancorché non necessariamente seguita da concreti, consistenti interventi agevolativi; ha loro chiesto favori; li ha incontrati; ha interagito con essi; ha loro indicato il comportamento da tenere in relazione alla delicatissima questione Mattarella, sia pure senza riuscire, in definitiva, a ottenere che le stesse indicazioni venissero seguite; ha indotto i medesimi a fidarsi di lui e a parlargli anche di fatti gravissimi (come l’assassinio del Presidente Mattarella) nella sicura consapevolezza di non correre il rischio di essere denunciati; ha omesso di denunciare le loro responsabilità, in particolare in relazione all’omicidio del Presidente Mattarella, malgrado potesse, al riguardo, offrire utilissimi elementi di conoscenza».
Mi pare che basti e avanzi per associare la faccia di Andreotti a uno scritto sulla mafia.
In ogni caso è bastato alla Cassazione a rigettare il ricorso di Andreotti che voleva essere dichiarato innocente dal reato di concorso in associazione mafiosa e innocente, invece, non è stato ritenuto, così da sfuggire alla condanna solo grazie alla dichiarazione di intervenuta prescrizione del reato.
Prescrizione alla quale l'Andreotti non ha ritenuto di rinunciare, nonostante i ruoli da lui ricoperti fino a oggi (è senatore della Repubblica) glielo imponessero dal punto di vista deontologico,
4. Così stando le cose, chiunque e dunque anche una persona disattenta e poco coltivata come Lei può prendere atto che non c'è alcuna viltà nel nostro comportamento, perchè ciò che volevamo dire lo abbiamo detto del tutto chiaramente (ovviamente a condizione che ciascuno, prima di blaterare, legga ciò che intende criticare).
5. La nostra condotta non è, quindi, in alcun modo diffamatoria, mentre - se ne stupirà certamente - diffamatorio è sicuramente il Suo commento che ci dà (per di più infondatamente) dei "vili" e dei "diffamatori".
Ma non ha nulla da temere, perchè non agiremo contro di Lei, nonostante siamo in grado di risalire al suo i.p. e, dunque, nei modi di legge, alla Sua identità.
6. Visto che parla di "viltà" a sproposito, quando vuole sapere chi sia un vile, si guardi allo specchio e si chieda perchè non firma le cose che scrive, come invece facciamo noi.
Avendo risposto a tutte le Sue domande, le porgo distinti saluti.
Felice Lima
SI RINGRAZIA il dott. Roberto Scarpinato per lo straordinario intervento. La Società civile,soprattutto la Resistenza gli è grata. Purtroppo la favoletta,neanche intelligente, DEFICIENTE,per bambini deficienti,dell'inesistenza del terzo livello,rivolta ad un Popolo completamente intorpidito ,produce i suoi nefasti risultati.Questo rilevantissimo intervento non è solo un monito a quanti credono di poter intralciare le indagini dei magistrati di Caltanissetta, Palermo e Firenze, è una barriera che diventa sempre più invalicabile. Le affermazioni improprie di elementi autorevoli delle Istituzioni(alti magistrati impegnati nella lotta alla mafia),che ilterzo livello non esiste ,ovvero che quattro contadini analfabeti, rintracciabili perfino da un paio di cacciatori sprovvetuti,abbiano costruito un potere onnipotente a livello mondiale ,e lo abbiano mantenuto intatto(rectius reso sempre più forte) per tempi infiniti,non è cosa assai poco opportuna,ma molto imprudente.Significa esporsi a sospetti molto gravi.
Il dott. Scarpinato e gli altri magistrati,non possono e non devono essere lasciati soli!In nome del sangue innocente versato,che grida giustizia,tutti abbiamo il dovere di fare qualcosa.Anche piccolisiima,
secondo le nostre capacità.
Un giorno in un bosco scoppia un grande incendio. Tutti scappano,primo fra tutti il re della foresta,un leone dalla criniera imponete che mostrava tutti i segni del suo potere. Mentre usciva dalla scena dell'incendio incontra un minuscolo uccellino,dalle penne variopinte,stupendo,che andava verso l'incendio. Il leone lo guarda e gli dice: ma dove vai fesso,non vedi che la foresta brucia? L'uccellino apre il becco, gli mostra una minuscola goccia di acqa, e gli risponde IO FACCIO LA MIA PARTE!.
Ringrazio il Dott. Felice Lima per la risposta. Ci tenevo soltanto a fargli sapere che sono sempre stato al corrente della possibilità di risalire al mio nominativo e al mio indirizzo, giacché conosco abbastanza bene l'informatica e Internet. Come ho sempre detto, non posto il mio nome soltanto per evitare di farmi indebita pubblicità. Liberi di crederlo o meno. Grazie, comunque, per l'attenzione. Distinti saluti anche a Lei.
Bellissimo articolo, meno bella la realtà che descrive... :(
per l'Anonimo del 27 agosto 12.57 e successivo 28 agosto 1.03
"Come ho sempre detto, non posto il mio nome soltanto per evitare di farmi indebita pubblicità."
...ancor più logico sarebbe che lei invece di preoccuparsi di una improbabile e gratuita pubblicità(?!)provasse a cercare nell'intimo suo almeno un po' di senso del pudore prima di scrivere affermazioni rivestite di domande condizionali!
Obliquamente parlando...
Complimenti al Dott. Scarpinato per l'articolo. Stupendo!
Eccellente il commento del Dott. Lima! Come sempre del resto...
Sono felice del Suo ritorno.
Buon lavoro e un abbraccio a tutta la redazione.
(riguardo al primo commento e alla risposta di Lima)
Non avevo mai trovato una risposta tanto efficace a un commento tanto superficiale.
Veramente un bell'articolo. Tosto ma bello.
Io non vedo un film sulla mafia da una decina d'anni, ormai dovrei essere fuori pericolo. E per quel che ricordo il dott Scarpinato è anche troppo buono a parlare di "ottima fattura".
Ma su tutto il resto ha ragione ed è stato un piacere leggerlo
Sono davvero contenta che finalmente Duellanti abbia l'onore di essere citata in un blog come questo e ospiti il dottor Scarpinato.
E' una rivista cui sono abbonata da qualche anno e la trovo ottima rivista e in continuo miglioramento, soprattutto sull'attenzione alla comunicazione in genere e sul rifiuto di nascondersi dietro a un dito. Purtroppo, come accade oggi in Italia, quando la comunicazione e le varie forme espressive da arte vengono trasformate in propaganda, gli intellettuali sono soliti tirarsi indietro e mettersi a discutere del sesso degli angeli. Duellanti non lo fa, e ha accettato l'impegno di prendere una posizione decisa anche su argomenti e sistuazioni scottanti.
E' un peccato che sia così poco conosciuta e seguita, che rischi perennemente il fallimento. E' una rivista di cinema e comunicazione che comunica più con gli articoli pubblicati che con le immagini di questo o quel film (che pure -ovviamente- ci sono). E non spreca mai un'immagine per evidenziare le tette della diva del momento, o l'occhio furbo e sensuale del divo del momento.
E' effettivamente vera comunicazione (al di là dei gusti personali e delle opinioni espresse, ovviamente soggettive tanto per la redazione quanto per i suoi lettori). In Italia ce n'è tanto bisogno e forse è proprio perché si tratta di comunicazione vera (quindi implica impegno nella lettura e disponibilità al confronto) che ha poco pubblico.
Felice anche per il risultato iniziale della campagna di abbonamenti a Il Fatto (un successone!).
Sperando che qualcosa cambi, grazie a tutte le nostre piccoli goccioline d'acqua. Basta non smettere di portarle.
E grazie al dottor Lima e a tutta la redazione di uguale per tutti per l'impegno che continuano a profondere qui.
Mi siete mancati...
Silvia.
Il testo di Scarpinato è una efficacissima sintesi dei più importanti concetti che sono stati espressi nel "Ritorno del Principe". Mi si consenta di accostare a quel libro due testi sulla mafia , il primo del 2002, "Il Ciclo Mafioso" di Luciano Violante, l'altro "Le due Guerre"di Giancarlo Caselli.
Entrambi i libri sono di eccezionale interesse ,anche per i "dettagli" che raccontano:qui lucifero ,che si nasconde nel dettaglio,svolge un'opera di benefica illuminazione. Nel "Ciclo mafioso" c'è un capitolo dedicato ad un famoso dipinto ,"Il trionfo della Morte" ,che mi viene spontaneo accostare all'immagine della "Camera della Morte",la rete invisibile che avviluppa i tonni e che è, VISIBILMENTE, una metafora dell'Italia di oggi.
Racconta Violante, mentre contempla il dipinto in compagnia di una misteriosa signora che gli fa da guida: " Il duca di Montalto ,avvocato fiscale di Sicilia , inviò molte lettere a Carlo V sulla situazione di Palermo nel prima metà del 500..Se si sostituisce il mitra alla spada ,le vicende sono le stesse. :la storia politica della Sicilia è una ruota tra la forza e la legge ".Ma se è così ,come si fa a chiudere la partita? ,dico io sottovoce mentre continuo a guardare il dipinto . Anche voi dovreste dare una mano ...Mormora lei: "E' come se fossimo acqua in una spirale che ruota su se stessa . Bisogna far cambiare il movimento della spirale per far risalire l'acqua che sta scendendo. E invece finora o avete fatto parte dell'acqua o ne avete buttato fuori un paio di cucchiai pensando di aver conseguito chissà quale vittoria ".
IO sono convinta che per far cambiare il movimento alla spirale occorre restituire direttamente ed "individualmente" ai Cittadini Siciliani i beni sequestrati dallo Stato alla mafia ,beni che sono stati a loro estorti con il crimine dai mafiosi. Solo così potranno riacquistare fiducia e smettere di essere schiavi. E' proprio questo il vero nodo da sciogliere : leggi innovative e invenzioni legislative.
Per ora mi interrompo qui. La prossima puntata è su Caselli. Grazie per l'attenzione, Maria Cristina
Grande Scarpinato! Grande, acuto e chiarissimo come sempre.
Il problema posto è particolarmente importante sia perchè si inserisce nel più vasto problema del ruolo dell’informazione e della cultura (nonché del loro rapporto con il potere), sia perché ci consente di capire la nostra storia e cosa sta realmente accadendo oggi.
Questo nostro Paese ha un grande bisogno di magistrati come lui … e magistrati come lui non devono essere mai lasciati soli.
Tocca, perciò, anche a tutti noi fare la nostra parte: è per questo che nella manifestazione promossa da Salvatore Borsellino, che si svolgerà a Roma sabato 26 settembre, saremo vicini a tutti quei magistrati che stanno lavorando, in solitudine, per la ricerca della verità e della giustizia. Saremo in piazza per esprimere il nostro sostegno e la nostra vicinanza e per chiedere che vengano dati loro tutti i mezzi necessari per consentire lo svolgimento sereno della propria attività. Saremo in piazza per denunciare il rapporto tra “potere” e mafie.
Invito, quindi, tutti a partecipare alla manifestazione del 26 settembre a Roma. Per ulteriori informazioni leggere QUI e QUI
Nel suo ultimo libro,"Le due guerre " Caselli così sintetizza l'esito della guerra alla mafia:"Siamo stati ad un passo dall'uscire anche dall'emergenza mafia . Ma, arrivati ad un certo punto ,SETTORI CONSISTENTI DELLO STATO hanno preferito NON VINCERE LA PARTITA " .
Ho sempre potuto notare che i commenti dei "pentiti" , di coloro che davvero hanno voltato pagina nella loro vita, sono anche più importanti ed illuminanti delle considerazioni e dei libri scritti dai magistrati, tanto che occorrerebbe riflettere sui concetti e sulle idee da loro espressi con maggiore sincerità e soprattuto dismettendo la boria consapevole o inconscia di chi si ritiene "superiore" moralmente o per censo al pentito. Caselli riporta una penetrante considerazione che il pentito Pietro Aglieri rivolge al p.M.Alfonso Sabelli : "Quando voi venite nelle nostre scuole a parlare di legalità e Giustizia , i nostri ragazzi vi ascoltano e vi seguono . Ma quando questi ragazzi diventano maggiorenni e cercano un lavoro , una casa , assistenza economica e sanitaria , a chi trovano? A voi o a noi?" Prosegue e commenta Caselli:" Ecco, finché i cittadini , invece dello Stato troveranno i mafiosi, saranno sudditi e la guerra di mafia non sarà mai vinta."
Ma la capacità della mafia di penetrare i gangli del potere politico ,delle amministrazioni pubbliche e delle istituzioni è enorme anche perché, per precise ragioni storiche ,lo Stato Italiano è debole e le classi dirigenti o sono "predatorie "o vengono selezionate con tecniche predatorie da forze mafiose o di supporto. Basta pensare alla vicenda Enimont di Gardini , alla fine della Rizzoli e della Mondadori. Il vento che soffia oggi sulla famiglia Agnelli è dello stesso genere. Inoltre lo Stato da solo non può vincere la battaglia contro la mafia. Lo Stato è un Giano bifronte: è essenzialmente uno strumento nelle mani di gruppi sociali ed economici e come tale può divenire un formidabile strumento di realizzazione della democrazia sociale e di quella economica come anche uno strumento di cancellazione del diritto e dello Stato di Diritto.
La sociologa Alessandra Dino ,citata da Caselli nello stesso testo così descrive la Mafia di oggi:" E' un Network potente ed articolato che comprende esponenti del mondo della politica , dell'economia delle professioni ,pezzi di classe dirigente,che proprio perché tali non hanno più bisogno di sparare o far sparare, perchè possono facilmente eliminare i propri avversari con le leggi,con i provvedimenti disciplinari ed amministrativi, con la censura e con gli strumenti del monopolio." Aggiunge Caselli :" Se le cose stanno così forse siamo tornati ai tempi della cerbottana contro i carri armati."
Ecco questa testé descritta è la realtà dell'Italia di oggi e su questa situazione vorrei invitare a riflettere tutti i magistrati ( e tutti coloro che si occupano di giustizia)che vanno volentieri nelle scuole a parlare di legalità , ma che quando si tratta di indagare un avvocato di grido o un politico amico (per fare un esempio)o un potente in genere perchè chiamati a rendere giustizia ad un semplice cittadino , mostrano la sindrome dell'omertà di casta , quella a cui spesso allude Roberto Scarpinato e che viene ricordata anche nell'articolo sovrastante a questo post. Per ora vi lascio e ringrazio la redazione per la grande opportunità concessa di riflettere e far riflettere su quello che è oggi senza alcun dubbio il problema centrale del nostro paese :la Giustizia ;e su quella che è la forza più interessata al suo stravolgimento e asservimento. la Mafia, Maria Cristina
In tempi di banalità morale-culturale come questi, è una gioia leggere qualcosa che va al nocciolo dei problemi in modo chiaro ma non schematico, mantenendo inoltre un aggancio forte con una visione generale dei problemi stessi.
Ora, penso che nell’art. del proc. Scarpinato la parola-chiave sia “storia collettiva.”
Quando infatti manca la consapevolezza (sia in comuni cittadini che in membri della classe dirigente) dell’esistenza di un “noi” di cui ed a cui tutti partecipiamo, “noi” che però spesso si frammenta in un caos di “io” singoli”, a quel punto si apre la porta a qualsiasi barbarie; mafia compresa.
Pare che molti italiani condividano l’idea espressa dalla Thatcher negli anni ’80: la società non esiste; esiste l’individuo.
Da noi ciò conduce ad un individualismo familistico; contraddizione solo apparente, perché la famiglia, il clan ecc. diventa strumento dei propri bisogni, a (tutto) discapito della collettività.
Gramsci parlava nei “Quaderni” di contrapposizione tra “Paese reale e Paese legale”: qualcosa che in quel suo passo precedeva la stessa genesi del fenomeno mafioso. E nelle “Lettere” evidenziava la forza, complessità e ritualità delle varie delinquenze regionali, che perfino in carcere(!) organizzavano delle “accademie di scherma col coltello.”
La “storia collettiva” deve comunque tener conto anche di quella delle nostre classi dirigenti, a partire già dal ‘600; ottimo, quindi, il riferimento di Scarpinati al “modello” Don Rodrigo.
Dal ‘600 in poi, la “mafiosizzazione” (Scarpinati, nel suo libro) del Paese è diventata senso comune se non “buon” senso. La sottomissione/connivenza al e col dominus, prova di realismo; dimostrazione di utopismo, anarchismo o più genericamente di follia, il ribellarsi ad esso.
Gli artisti italiani hanno assorbito questo senso comune. Dovremmo anche parlare dell’effettivo(?) talento di costoro, di un certo dannunzianesimo duro a morire; ma qui mi fermo, per carità di patria e di… arte.
Mi pare di capire che il senso dell'articolo sia il tentativo di correggere la distorta immagine della mafia fornita dai fiction.
Non voglio entrare nel merito del caso dell'On. Andreotti pero' le vorrei far notare che , contrariarmente da quello che lei cerca di affermare , nell'opinione pubblica si e' da sempre affermato che Andreotti aveva contatti "mafiosi" se non addirittura fosse anche lui un "mafioso" .
Questo sin dagli anni settanta e ben prima dei fatti elencati nel suo articolo.
Questa convinzione "popolare" e' sempre stata radicata e da anni sento affermare , anche da persone indiferenti all'informazione e scarsamente acculturate, che Andreotti e' un mafioso.
Preciso che queste affermazioni non erano dovute a particolari frequentazioni ma venivano da semplici "chiacchiere da Bar" fatte con amici o conoscenti.
Quindi il suo articolo mi pare parta da una premessa non esatta e, ancora una volta, e' , sempre a mio parere, e solo un'altra occasione per affermare che "Andreotti" e' un mafioso.
Personalmente non so se lo sia mai stato ma se cosi fosse sarebbe sicuramente il segreto piu' conosciuto del mondo.
Cordiali saluti
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