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di Michele Serra
(Giornalista)
da Repubblica.it del 2 luglio 2008
Dei mille “casi” italiani, pochi come quello dell’alto dirigente Rai Agostino Saccà ci aiutano a capire lo spaventoso carico di lavoro che la nostra comunità, per sua ormai conclamata inettitudine etica, ha scaricato sulle spalle della magistratura.
Convogliando nell’eterna lite “sulla giustizia” questioni la cui soluzione avrebbe dovuto e potuto precedere, e di molto, il loro acido e limaccioso sbocco giudiziario: di qui (anche) l’abnorme peso che il dibattito sulla giustizia ha via via assunto, fino a (quasi) soffocare tutto il resto.
Questa volta è toccato al pretore del Lavoro occuparsi di un contenzioso che, di suo, non presenta soverchi misteri.
Saccà, a capo di uno dei settori nevralgici dell’azienda televisiva pubblica, ha parlato ripetutamente dei suoi progetti con il proprietario dell’azienda concorrente. Trattando questioni vuoi infime vuoi importanti, e comunque tali, per loro natura, da non potere essere oggetto di colloquio con il competitore industriale.
Tanto basterebbe a qualunque azienda, in qualunque Paese dove il mercato ha qualche regola e una sua anche lasca moralità interna, per essere costretta ad allontanare il suo dirigente colto in così grave fallo.
Di più: tanto dovrebbe bastare a quel dirigente per considerare inappellabilmente tradita la fiducia dell’azienda, deontologicamente illecito il suo comportamento, urgenti seppure dolorose le sue dimissioni.
Invece. Si è lungamente discusso delle riconosciute capacità professionali di Saccà: come se c’entrassero qualcosa.
Lo si è difeso oppure attaccato a seconda della sua collocazione politica: come se c’entrasse qualcosa.
Si è discettato su toni e esiti dei colloqui con Berlusconi: come se c’entrassero qualcosa.
E mano a mano che la vicenda sprofondava nel suo ambiguo, causidico contesto (la Rai, il suo assoggettamento ai politici, il conflitto di interessi), è andata via via sfumando, come sempre più spesso capita, la sostanza del contendere: può un dirigente dell’azienda X trattare di cose aziendali con il proprietario dell’azienda Y (per giunta presidente del Consiglio: ma questa, nel caso in questione, è solo una grottesca variante)?
Se la risposta è no, il caso è drasticamente chiuso.
Ma la risposta, evidentemente, non è stata no, o perlomeno non lo è stata per tutti.
Neanche in Rai, dove Saccà ha molti e loquaci difensori, di ogni parte politica.
La risposta, per dirla tutta, manca.
Manca nelle coscienze di molti.
Manca nelle abitudini e nei costumi del cosiddetto Palazzo (dove si tratta con tutti e su tutto, senza che mai echeggi la salvifica frase “mi scusi, ma di queste cose non posso parlare con lei”).
Manca nel costume sociale, dove il favore, l’amicizia, la protezione, la raccomandazione sono da tempo la solida prassi che supplisce al totale relativismo della teoria.
E manca, evidentemente, anche la domanda: questo comportamento è lecito o illecito? È giusto o sbagliato?
Tecnicamente, questo e solo questo è l’etica: domandarsi se un atto, specie se compiuto da noi stessi, è giusto o sbagliato.
Poiché questo genere di domande precede la nascita del caso giudiziario, e magari lo disinnesca prima che esploda, è facile capire che il gigantesco viluppo di carte bollate, cause, procedimenti, ricorsi che ammorba il paese, è causato dalla quasi totale assenza di quel sano, utilissimo momento pre-giudiziario che è l’etica.
E se nessuno osa sperare di vivere in una comunità semi-santificata, nella quale la magistratura debba intervenire solo in rari e gravissimi casi, tutti dobbiamo però sentirci atterriti dalla spaventosa, crescente “giudiziarizzazione” di tutto ciò che giace irrisolto a causa della impressionante assenza di un’etica condivisa, di domande e risposte che surclassino, nella coscienza collettiva, le opinioni politiche, e perfino le sentenze della magistratura.
Tanto è vero che metà del Paese vive nell’attesa messianica, e giustamente frustrata, di una qualche carta da bollo che arrivi a decapitare il padre di tutti gli arbitrii, che è il conflitto di interessi.
E l’altra metà è convinta che le carte della giustizia siano solo una subdola, sordida arma politica.
A tanto si può arrivare quando il corpo sociale nel suo complesso non possiede più un giudizio proprio sulle cose pubbliche e pure private (vedasi i sorrisetti compiaciuti che fanno corona al disgustoso casting di amichette-attricette).
È in fondo a questo vuoto morale, è al termine di questa mancata tutela di se stessi e dei propri atti, che il giudice, di ogni ordine e grado, si ritrova così spesso nel poco salubre, poco sereno ruolo del supplente morale e peggio del fiancheggiatore politico, quasi spodestato della sua rassicurante aura tecnica, della sua professione di interprete delle leggi, per finire scaraventato in una faida che, partendo dal cuore politico del Paese, sta risalendo anzi è già risalito fino alle venuzze periferiche del favore sessuale, del maneggio professionale, dell’inciucio aziendale.
Agostino Saccà è un eccellente dirigente televisivo. Ma ha gravemente sbagliato.
Ora questo errore, come tante altre cose, è diventato trafila giudiziaria, guerra di ricorsi, duello di sentenze.
Cioè non è più un errore. È un oggetto giuridico, è materia che la nostra collettività non è più in grado di maneggiare con qualche serenità, con qualche buon senso.
È una domanda, è una risposta che sono state appaltate alla magistratura come ennesimo segno di impotenza a fare da noi, a regolarci tra noi.
Povero il Paese che non è capace di risolvere più niente, decidere più niente, e soprattutto giudicare più niente fuori dalle aule di giustizia.
di Michele Serra
(Giornalista)
da Repubblica.it del 2 luglio 2008
Dei mille “casi” italiani, pochi come quello dell’alto dirigente Rai Agostino Saccà ci aiutano a capire lo spaventoso carico di lavoro che la nostra comunità, per sua ormai conclamata inettitudine etica, ha scaricato sulle spalle della magistratura.
Convogliando nell’eterna lite “sulla giustizia” questioni la cui soluzione avrebbe dovuto e potuto precedere, e di molto, il loro acido e limaccioso sbocco giudiziario: di qui (anche) l’abnorme peso che il dibattito sulla giustizia ha via via assunto, fino a (quasi) soffocare tutto il resto.
Questa volta è toccato al pretore del Lavoro occuparsi di un contenzioso che, di suo, non presenta soverchi misteri.
Saccà, a capo di uno dei settori nevralgici dell’azienda televisiva pubblica, ha parlato ripetutamente dei suoi progetti con il proprietario dell’azienda concorrente. Trattando questioni vuoi infime vuoi importanti, e comunque tali, per loro natura, da non potere essere oggetto di colloquio con il competitore industriale.
Tanto basterebbe a qualunque azienda, in qualunque Paese dove il mercato ha qualche regola e una sua anche lasca moralità interna, per essere costretta ad allontanare il suo dirigente colto in così grave fallo.
Di più: tanto dovrebbe bastare a quel dirigente per considerare inappellabilmente tradita la fiducia dell’azienda, deontologicamente illecito il suo comportamento, urgenti seppure dolorose le sue dimissioni.
Invece. Si è lungamente discusso delle riconosciute capacità professionali di Saccà: come se c’entrassero qualcosa.
Lo si è difeso oppure attaccato a seconda della sua collocazione politica: come se c’entrasse qualcosa.
Si è discettato su toni e esiti dei colloqui con Berlusconi: come se c’entrassero qualcosa.
E mano a mano che la vicenda sprofondava nel suo ambiguo, causidico contesto (la Rai, il suo assoggettamento ai politici, il conflitto di interessi), è andata via via sfumando, come sempre più spesso capita, la sostanza del contendere: può un dirigente dell’azienda X trattare di cose aziendali con il proprietario dell’azienda Y (per giunta presidente del Consiglio: ma questa, nel caso in questione, è solo una grottesca variante)?
Se la risposta è no, il caso è drasticamente chiuso.
Ma la risposta, evidentemente, non è stata no, o perlomeno non lo è stata per tutti.
Neanche in Rai, dove Saccà ha molti e loquaci difensori, di ogni parte politica.
La risposta, per dirla tutta, manca.
Manca nelle coscienze di molti.
Manca nelle abitudini e nei costumi del cosiddetto Palazzo (dove si tratta con tutti e su tutto, senza che mai echeggi la salvifica frase “mi scusi, ma di queste cose non posso parlare con lei”).
Manca nel costume sociale, dove il favore, l’amicizia, la protezione, la raccomandazione sono da tempo la solida prassi che supplisce al totale relativismo della teoria.
E manca, evidentemente, anche la domanda: questo comportamento è lecito o illecito? È giusto o sbagliato?
Tecnicamente, questo e solo questo è l’etica: domandarsi se un atto, specie se compiuto da noi stessi, è giusto o sbagliato.
Poiché questo genere di domande precede la nascita del caso giudiziario, e magari lo disinnesca prima che esploda, è facile capire che il gigantesco viluppo di carte bollate, cause, procedimenti, ricorsi che ammorba il paese, è causato dalla quasi totale assenza di quel sano, utilissimo momento pre-giudiziario che è l’etica.
E se nessuno osa sperare di vivere in una comunità semi-santificata, nella quale la magistratura debba intervenire solo in rari e gravissimi casi, tutti dobbiamo però sentirci atterriti dalla spaventosa, crescente “giudiziarizzazione” di tutto ciò che giace irrisolto a causa della impressionante assenza di un’etica condivisa, di domande e risposte che surclassino, nella coscienza collettiva, le opinioni politiche, e perfino le sentenze della magistratura.
Tanto è vero che metà del Paese vive nell’attesa messianica, e giustamente frustrata, di una qualche carta da bollo che arrivi a decapitare il padre di tutti gli arbitrii, che è il conflitto di interessi.
E l’altra metà è convinta che le carte della giustizia siano solo una subdola, sordida arma politica.
A tanto si può arrivare quando il corpo sociale nel suo complesso non possiede più un giudizio proprio sulle cose pubbliche e pure private (vedasi i sorrisetti compiaciuti che fanno corona al disgustoso casting di amichette-attricette).
È in fondo a questo vuoto morale, è al termine di questa mancata tutela di se stessi e dei propri atti, che il giudice, di ogni ordine e grado, si ritrova così spesso nel poco salubre, poco sereno ruolo del supplente morale e peggio del fiancheggiatore politico, quasi spodestato della sua rassicurante aura tecnica, della sua professione di interprete delle leggi, per finire scaraventato in una faida che, partendo dal cuore politico del Paese, sta risalendo anzi è già risalito fino alle venuzze periferiche del favore sessuale, del maneggio professionale, dell’inciucio aziendale.
Agostino Saccà è un eccellente dirigente televisivo. Ma ha gravemente sbagliato.
Ora questo errore, come tante altre cose, è diventato trafila giudiziaria, guerra di ricorsi, duello di sentenze.
Cioè non è più un errore. È un oggetto giuridico, è materia che la nostra collettività non è più in grado di maneggiare con qualche serenità, con qualche buon senso.
È una domanda, è una risposta che sono state appaltate alla magistratura come ennesimo segno di impotenza a fare da noi, a regolarci tra noi.
Povero il Paese che non è capace di risolvere più niente, decidere più niente, e soprattutto giudicare più niente fuori dalle aule di giustizia.
10 commenti:
L'articolo è chiarissimo e molto condivisibile, quando distingue chiaramente le questioni che dovrebbero rimanere su un piano strettamente etico prima ancora che approdare a quello giuridico (anzi, sarebbe auspicabile che non vi approdassero per nulla).
Provo ad aggiungere un ulteriore elemento di riflessione, e qui occorrerebbe che la categoria magistrati davvero facesse seria autocritica (parlo ovviamente di quel considerevole numero che non ci pensa proprio).
Quanti lavoratori "normali", approdati davanti al giudice del lavoro con una contestazione da parte del datore di lavoro di così tale evidenza e gravità sarebbero stati oggetto di un provvedimento favorevole? Non occorre essere addetti ai lavori per essere notiziati, quotidianamente, di cassazioni che giudicano legittimi i licenziamenti per i motivi più futili o, quantomeno, così gravi.
Ma resiste la leggenda metropolitana delle toghe rosse, sempre pronte ad andare in soccorso delle categorie più deboli al di là di ogni ragionevole dubbio... chi pratica un po' le aule di giustizia, da avvocato, da magistrato ancora non allineato, da attore, ricorrente o convenuto (soprattutto, negli ultimi tre casi, se non appartenente a categorie c.d. "forti") sa benissimo che la realtà è tutt'altra....
Che il paradosso di una giustizia forte coi deboli e viceversa è purtroppo una triste realtà.
Questa volta, dopo il provvedimento del giudice del lavoro che reintegra Saccà, non ho udito alcuna reazione scomposta come sarebbe invece accaduto se ad essere reintegrato nel posto di lavoro fosse stato, che so, un impiegatuccio, un autista, un commesso beccato a prendere il caffé o fare un pisolino.
Nelle stesse ore, tuttavia, le reazioni scomposte di cui sopra si registrano (mi ricorda qualcosa...)nei confronti del g.i.p. di verona che ha ritenuto di dover applicare la legge, anche se la caccia al rom (con correlativo accanimento poliziesco e si vorrebbe anche giudiziario)oggi è tanto di moda.
Come diceva qualcuno celiando ma non troppo, la legge è uguale per tutti, ma per qualcuno è... più uguale.
Avvilitoveramente
Non mi sento di concordare con Avvilitoveramente.Il settore giuslavoristico per ciò che riguarda i contratti a tempo indeterminato è uno dei più garantiti e dei più "ortodossi"
nell'applicazione della propria giurisprudenza in materia di reintegrazione.Fino quasi all'assurdo,al paradossale.Uno su tutti,anche perchè è il più recente:si ricorda quel professore di Aosta condannato per detenzione di materiale pedopornografico e reintegrato nel proprio incarico?
Ce ne sono molti altri di casi così.
Ma d'altra parte questo è uno dei crucci più grandi della materia.
Esisteva l'obbligo per i dipendenti del pubblico impiego di "essere di specchiata moralità" il cui inadempimento costituiva causa di licenziamento.La regola introdotta in epoca fascista è stata eliminata.Reintrodurla e costituzionalizzarla magari cordinandola alla libertà di pensiero e alle altre libertà fondamentali,non sarebbe adesso necessario?Non sarebbe magari efficace,considerato che è una norma in bianco e dovrebbe essere riempita dalla Cassazione?
Pierluigi
Sarebbe interessante leggere le motivazioni di questo provvedimento
Parole sante.
Credo che Michele Serra abbia proprio colto nel segno. Un segno profondo, alla base del disegno complessivo che ne risulta.
Abbiamo perso la capacità di vivere insieme condividendo delle regole etiche indispensabili all’armonia di convivenza, regole semplici, naturali e connaturate alla socialità.
Abbiamo alzato sempre più il muro di guardia tra noi e gli altri e laddove esiste ancora un’etica, vige solo nel nostro territorio, fuori è terra di nessuno, gli altri potenziali nemici.
Così tutto ciò che è al di là dello steccato può essere usato, consumato, sporcato, distrutto senza che ci riguardi più di tanto. A casa nostra è tutto in ordine e questo sembra bastare alla nostra miopia esistenziale.
Così si diffida di tutti, ogni sconosciuto può essere una minaccia per il nostro ordine mentale e quindi va contrastato.
Ma perché non con le armi, mi chiedo?
Considerato il basso livello evolutivo su cui si muove una società come la nostra, questa mania di adire per vie legali a risolvere qualsiasi contenzioso sarà forse un rigurgito di antica formazione (greco-romana) intrappolato ormai in un esemplare di homo barbarico?
Scherzo, ma non troppo.
Voglio dire che una nevrosi sociale di tale portata dovrà pur avere il suo percorso e le sue ragioni storiche.
Qualcuno ha un’idea in merito?!
Capire la radice motivazionale dei comportamenti può essere illuminante per trovare una strategia di conversione verso un nuovo modus vivendi.
Cinzia e (anonimo). "...nuovo modus vivendi"? Costume, morale, etica, cultura, mentalità, Dna, tare antropologiche...del vivere cavernicolo come se gli altri non esistessero; e invece ogni atto va commisurato e contemperato nel rispetto del contesto (anche animale e vegetale)e di regole non scritte...con relativismo etico, contingente, . Dice bene Carl Bernstein: "Più dei fatti vale il contesto". E l'etica è individuale, dal "basso" e non la si può calare dall'alto... e nemmeno giudicarla nei tribunali...se un giudice (di periferia, che vola "Bassi...no"!)ti risponde che "io non sono tenuto a in-seguire l'etica e la morale, ma bensì il codice". Ovvero la fredda legge che, per bocca del giudice di fatto ha reintegrato il fedigrafo Saccà("alto tradimento", se fosse un militare; e "Whi not"?...visto che obbediva agli ordini del capo di governo e quindi delle FFAA...come l'amico Bush, o no?). Figuriamoci poi la motivazione del provvedimento. Recidivanti!
un popolo che vota per una casta politica marcia (dai fascisti ai piddini) non sa nemmeno cosa sia l'etica, altrimenti voterebbe in modo molto diverso...
8 luglio, Roma, manifestazione contro le leggi-canaglia. Passaparola!
Marco Travaglio: Troppi Galli nella Loggia
http://temi.repubblica.it/micromega-online/marco-travaglio-troppi-galli-nella-loggia/
8 luglio, Roma, manifestazione contro le leggi-canaglia. Passaparola!
Marco Travaglio: Perchè sarò sul palco l’8 luglio
http://temi.repubblica.it/micromega-online/marco-travaglio-perche-saro-sul-palco-l8-luglio-audio/
Per Pierluigi:
Dissentire è più che legittimo, bisogna tuttavia capire se lo si fa perché si accede acriticamente alla vulgata corrente (il lavoratore, particolarmente quello pubblico, è "ipergarantito" dappertutto e soprattutto nelle aule giudiziarie dove regnano indisturbate le ben note "toghe rosse", ecc. ecc.) o si dissente perché si dispone di un campione affidabile di casi esaminati (e qui eviterei di citare il singolo caso, ovviamente demagogicamente assurto agli onori della cronaca, del professore). E comunque tieni presente che, in alcuni contesti ambientali, il professore (soprattutto se oltre ad insegnare è anche un libero professionista) ed altre categorie di lavoratori solo formalmente dipendenti (ti potrei citare l'odioso caso del medico stupratore, ancora lì anch'egli) piaccia o no (a me ad esempio non piace) non sono considerati lavoratori "semplici", ma possono beneficiare di uno status e di una credibilità sociale ben più alta di quella che correntemente (ahinoi) viene attribuita all'operaio, al commesso, all'autista o, peggio, al dipendente pubblico non di alto rango. E ciò (e qui sta il guaio) accade perfino nelle aule di giustizia.
Preciso che la mia considerazione sui due pesi e due misure anche in ambito giuslavoristico non era una mera opinione, bensì il report di numerosissime esperienze di vita vissuta (ripeto, da praticante avvocato, da ricorrente, convenuto, attore, da lavoratore), solo da ultimo come magistrato in tirocinio. Ti assicuro (e presumo che per te ciò risulterò rassicurante) che la maggior parte dei giudici che ho sentito esprimersi ed operare sono tutt'altro che sbilanciati a favore dei lavoratori, anzi...
Ovviamente per ragioni di riservatezza e anche di... autotutela non posso citarti casi concreti, ma ti assicuro, ne ho visti.
Certo è evidente che se ti chiami Saccà e sei un alto dirigente Rai e non Rossi Mario, oscuro impiegato pubblico (a quanto pare oggi il più grosso male della nazione, forse solo a pari merito coi rom), le cose probabilmente hanno buona probabilità di risolversi in maniera alquanto diversa, e senza che nessuno si scandalizzi.
La riprova di tutto ciò è, ripeto, il fatto stesso che alla reingtegra di Saccà non ha fatto seguito alcuna reazione scomposta (sport nazionale, negli ultimi tempi, nei confronti dei magistrati e dei loro provvedimenti), e tu stesso (come probabilmente i tantissimi italiani che, purtroppo, bombardati da anni ed anni di propaganda, la pensano come te) ti senti molto più sconvolto dalla notizia del professore che da quella odierna.
Senza polemica, credimi, ma la realtà che descrivi esiste solo nelle leggende metropolitane.
E, secondo me, ciò non è neanche un bene, perché dell'esistenza (di fatto) di squilibri contrattuali tra le parti (non negherai che, di fatto, tra datore di lavoro e lavoratore qiesto squilibri esistono e che essi solo formalmente sono due soggetti liberi ed eguali...) il giudice dovrebbe necessariamente tener conto, nell'applicare la legge. Invece, l'interpretazione spesso formalistica, che in questo senso rischia di essere davvero "ideologica", produce le conseguenze nefaste già lamentate: Saccà reintegrato, senza che di ciò il grande pubblico trovi niente da ridire e lavoratori c.d. "normali" che quotidianamente vengono licenziati per giusta causa (spesso con l'avallo del giudice terzo ed imparziale) anche per lievi o lievissime mancanze; di questi ultimi però non si parla (ma, ripeto, basta farsi un giro per le aule di giustizia o guardarsi un po' di cassazioni lavoro per rendersene conto): anzi, il capolavoro della propaganda di regime (mi permetto di parafrasare gli autori del relativo articolo) arriva al punto che, anziché parlare del "caso Saccà", si finisce per parlare del professore di Aosta. Ma del resto, che viviamo in un periodo storico in cui s'è - collettivamente - smarrito il senso delle proporzioni e della realtà, è un dato di fatto, non una considerazione pessimistica (basti solo pensare, per rimanere in tema giustizia, all'assurdo dibattito sulle intercettazioni...)
Ritornando al tuo intervento, quanto alla reminiscenza storica, tu stesso hai citato il periodo di riferimento...
Sarebbe comunque ben strano che, in un paese dove il tasso medio di moralità (a partire dai livelli più alti) è così basso, solo una categoria tutto sommato ben ristretta come i pubblici dipendenti dovesse dar prova alla nazione di una non ben definita "specchiata moralità". Sottoposta al vaglio di chi, poi, della dirigenza pubblica o, meglio ancora, della compagine politica?
Cordialmente (ma con discreta cognizione di causa:
Avvilitoveramente (che anche per le cose di stiamo discutendo porta questo nickname)
Per Avvilitoveramente
Quanto dettole in materia di reintegrazione nel posto di lavoro a seguito di licenziamento illegittimo voleva essere solo un esempio di come in generale la giurisprudenza in materia di lavoro,e specificamente quella in materia di lavoro dipendente a tempo indeterminato,fosse garantista,anche troppo.
(A proposito qui ci sono un po di dati ISTAT http://www.istat.it/salastampa/comunicati/non_calendario/20060516_01/ )
Ciò che non capisco è come un esempio che non c'entra nulla con la situazione di Saccà (dal momento che Saccà è un dirigente,che non è a tempo indeterminato e soprattutto che non è stato licenziato) abbia potuto indurla a spostare il discorso sulla questione dei licenziamenti.
Alcune cose infine vorrei che mi chiarisse,preferibilmente senza polemica nè astio.
Dove esattamente ho parlato od ho lasciato intendere che pensassi alle toghe rosse?
Che tipo di ripercussioni ha sulla disciplina giuridica del rapporto di lavoro lo svolgere professione di maggiore "credibilità sociale"?
In che parte del mio intervento ha dedotto che la cosa non mi scandalizzasse o mi scandalizzasse meno della vicenda di Aosta?
Cosa c'entra lo squilibrio di poteri tra datore e lavoratore?
Riguardo alla specchiata moralità,la risposta è già sopra.
Cordialmente
Pierluigi Fauzia
E' casuale che tutto finisca nei tribunali? Intasati: e forse per questo chi vive oltre i confini (border line)etico-morali e di legalità mette in conto che il rischio di pagare è nullo, o tardivo da essere tale. E il costume, lo stile andreottiano, del furbo traffichino/one che frega il prossimo, che fa lo sgambetto al vicino di casa è risultato vincente. Diventa componente della cultura, fa storia. Come spezzare questo malcostume - "premi(er")iato"?) - in crescita esponenziale e con un sistema giudiziario impacciato/bloccato come la politica, in un abbraccio mortale, sadomaso, di vittime/carnefici... visto che il parlamento pullula di giuristi. Se i giornalisti che frequentavano i salotti del Tanzi (Parmalat) tutto "ca(s)sa e chiesa" avessero rivelato quanto sapeva il "non" giornalista Grillo - che paga-va per scrivere quello che i "giornalisti" pagati non scriv(ono)evano, oggi non avremmo un processo "farsa" di milioni di pagine già prescritto e indultato in "partenza"!Non a caso si dice che per non lavorare si sceglie di fare il giornalista. Un luogo comune che per "coerenza" pare adeguarsi?...e, certo, la raccomandazione peggiora il tutto E così i pigri giornalisti - e pm/giudici - (e voyeur), come Jayson Blair del N.Y.T., amano "indagare/investigare/scrivere dal chiuso e spiare dal buco della serratura (e d' Internet) avendo paura di spalancare in "diretta" la porta degli orrori. A esenpio, Paolo Conti solo nel 2002 scrisse su Saccà dopo, però, che il Cda (pres. Baldassarre...cui avevo scritto 2 anni prima che "...non ce l'avrebbe fatta a coprire le vergogne in Rai, che il direttore Saccà - "infiltrato da B" - spudoratamente, sempre più mostrava per inficiare il servizio pubblico...") ne avesse parlato. Eppure Conti nella rubrica di Io donna, "Le zanzare", ebbe a sottolineare: "più verità per temi seri..." (vedi Cirio e Parmalat...che "copertura": "L'arte del tacere" dell'abate Dinouart?!!!?); ai fax su quanto da me anticipato (inviati al Corriere...e cestinati!) faccio seguire una telefonata, ribadendo a Conti ciò che gli ho scritto...ad es., se voi "dipendenti" non potete profanare i sacrari , perché non lo lasciate fare a chi (come me, censurato...con l'amaro ancora in bocca ora che constato ciò che sapevo!) trasuda di cultura umanistica nonché di coscienza civile e civica?...che paga di suo scrivendo, firmando, ciò che voi pagati non osate scrivere?" . E 7-8 anni prima! Ivo Caizzi ha toccato spesso la sua "casta", vista dalla Ue, ma non ha rimarcato che, da circa 10 anni, l'antitrust Tesauro e Karel Van Miert (Ue) hanno detto che il canone Rai, se non eliminato, va almeno separato dalla pubblicità. Che si avvale di culi e tette "in-Sacca-ti" - non disdegnati da Vespa e persino dall'Azzariti...che alle 7 ci mostrava il "resto" della Mosetti e le chiappe (ovvio, della Chiapp...ini ) GONFIATE...della Rai e del giornalismo "culo di pietra", per fare il paio con la politica "statica"... bloccata sulle/dalle intercettazioni! Alzare culo e tacchi! mai omertoso!
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