di Francesco Siciliano
(Avvocato del Foro di Cosenza)
La recente riforma della disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità di cui al Decreto Legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, ha lasciato immutato le guarentigie previste dall’art. 2 del R.D. 511 del 1946 a mente del quale i magistrati di grado non inferiore a giudice, sostituto procuratore della Repubblica o pretore, non possono essere trasferiti ad altra sede o destinati ad altre funzioni, se non col loro consenso.
Essi tuttavia possono, anche senza il loro consenso, essere trasferiti ad altra sede o destinati ad altre funzioni, previo parere del Consiglio superiore della magistratura, quando si trovino in uno dei casi di incompatibilità previsti dagli artt. 16, 18 e 19 dell’Ordinamento giudiziario approvato con regio decreto 30 gennaio 1941, numero 12, o quando, per qualsiasi causa indipendente da loro colpa non possono, nella sede occupata, svolgere le proprie funzioni con piena indipendenza e imparzialità.
Questa situazione normativa in un tentativo di visione sistematica della normazione sembra legittimare la posizione per cui una è l’ipotesi di intervento del CSM qualora nel funzionamento dell’ufficio si verifichino atti o fatti che compromettono l’indipendenza e l’imparzialità dello svolgimento della funzione giudiziaria in un determinato distretto altra è l’ipotesi in cui il Magistrato, qualunque sia la sua posizione all’interno dell’ufficio, compia atti da cui derivino violazioni di norme disciplinari.
In ogni caso è pacificamente affermato il carattere non sanzionatorio della procedura ex art 2 L.G., ma di rimozione di situazioni non accettabili sotto il profilo della funzionalità dell’amministrazione della giustizia (e del prestigio con cui tale funzione deve poter essere esercitata).
Sembra quindi pacificamente affermabile che l’ipotesi da ultima valutata sia diversa e distinta dalla violazione di norme disciplinari e/o sostanziali da parte dei Magistrati ma attenga genericamente al corretto funzionamento dell’amministrazione della Giustizia in uno specifico distretto.
Si può a tale proposito menzionare e fare riferimento alle precedenti applicazioni della norma nella quale ogni volta dall’istruttoria è emersa ad esempio che nella Procura di XXXX vi era una situazione ambientale assai difficile e che essa era stata determinata proprio dai comportamenti del Procuratore, da un lato eccessivamente e inutilmente rigidi o di sottovalutazione del carico di lavoro gravante sull’unico sostituto all’epoca in servizio e dall’altro disattento alle esigenze della polizia giudiziaria e conflittuali con il Foro.
In altri termini l’intervento del CSM con la procedura di cui all’art 2 L.G. riguarda ipotesi di problemi di funzionamento di un ufficio giudiziario con riferimento a comportamenti o fatti dei titolari dell’Ufficio con riferimento all’ambiente.
Posta questa specifica applicazione dell’istituto, derivante dalla sua delineazione nella previsione normativa, si può passare a verificare se nel caso concreto del presunto contrasto tra la Procura di Salerno e la Procura Generale di Catanzaro possa trovare applicazione proprio tale procedura.
In estrema sintesi il caso di cui si parla è disciplinato e previsto dall’ordinamento il quale prevede espressamente che (Art. 11 c.p.p. - Competenza per i procedimenti riguardanti i magistrati) «1. I procedimenti in cui un magistrato assume la qualità di persona sottoposta ad indagini, di imputato ovvero di persona offesa o danneggiata dal reato, che secondo le norme di questo capo sarebbero attribuiti alla competenza di un ufficio giudiziario compreso nel distretto di corte d’appello in cui il magistrato esercita le proprie funzioni o le esercitava al momento del fatto, sono di competenza del giudice, ugualmente competente per materia, che ha sede nel capoluogo del distretto di corte di appello determinato dalla legge».
Pertanto il giudice naturale delle denunce a carico dei Magistrati che esercitano le loro funzioni nel distretto di Corte d’Appello di Catanzaro è il PM di Salerno. Questo giudice svolge (rectius: deve svolgere) le indagini a carico dei Magistrati di quel distretto e nell’ambito di tali indagini compie gli atti previsti dagli articoli 358 e ss. c.p.p..
Tali atti, come per ogni altra indagine svolta dal P.M., salva la diversa competenza per territorio determinata ex art. 11 c.p.p., sono soggetti agli ordinari mezzi di impugnazione previsti dal codice di rito.
Passando dalla elementare esemplificazione delle norme al fatto concreto si può affermare che l’Ufficio della Procura della Repubblica di Salerno ha svolto attività d’indagine e compiuto atti di indagine a carico di Magistrati del distretto di Catanzaro atti che, nel rispetto del codice di rito, sono soggetti agli ordinari mezzo di riesame.
Si tratta, pertanto, di una normale (si fà per dire) attività di indagine attraverso atti previsti dal codice di rito.
Rispetto a tali atti (di questo si discute) possono prospettarsi le seguenti ipotesi: a) “Illeciti disciplinari nell’esercizio delle funzioni” (art. 2 D.Lgs. 109 del 2006); b) “Illeciti disciplinari fuori dell’esercizio delle funzioni” sub i) l’uso strumentale della qualità che, per la posizione del magistrato o per le modalità di realizzazione, è idoneo a turbare l’esercizio di funzioni costituzionalmente previste (art. 3 D.Lgs. 109 del 2006); ipotesi queste rispetto alle quali la titolarità dell’azione disciplinare spetta ai sensi dell’art. 14 al Ministro di Grazia e Giustizia e al procuratore Generale presso la Corte di Cassazione.
Rispetto a ciò che è previsto dall’ordinamento e a ciò che è dato apprendere dalle informazioni sul fatto concreto non sembra proprio applicabile l’ipotesi di cui all’art. 2 del R.D. 511 del 1946.
I precedenti rispetto a tale istituto sembrano tutti condurre verso situazioni di incompatibilità dei Magistrati per vincoli di parentela o altro con l’ambiente in cui esercitano le funzioni.
Invero della questione seppure sotto altro aspetto si è occupata la Corte Costituzionale la quale in (Corte Costituzionale, sent. 4 novembre 2002, n. 457; Pres. Ruperto, Red. Mezzanotte) ha avuto modo di affermare che «Il cuore della argomentazione di quella sentenza stava tutto nello stretto legame esistente tra il diritto di difesa e la configurazione del procedimento disciplinare secondo paradigmi di carattere giurisdizionale, preordinati al soddisfacimento della duplice esigenza, da un lato, che il corretto svolgimento delle funzioni giudiziarie sia tutelato nella forma più confacente alla posizione costituzionale della magistratura e al suo statuto di indipendenza e, dall’altro, che al magistrato, incolpato di aver commesso un illecito, sia riconosciuto quell’insieme di garanzie che solo la giurisdizione può assicurare. Entrambe le esigenze sottese alla giurisdizionalizzazione della responsabilità disciplinare conducono a riconoscere al magistrato sottoposto al relativo procedimento la facoltà di avvalersi di un difensore di professione anziché consentirgli soltanto la nomina di un difensore “interno”, appartenente all’ordine giudiziario. Non può, al contrario, dirsi che abbia carattere giurisdizionale il procedimento di trasferimento di ufficio, nel quale non è un illecito compiuto dal magistrato che viene immediatamente in rilievo, ma una situazione obiettiva che si determina nell’ufficio ove egli esercita le sue funzioni. Regolato dal legislatore solo per sommi capi e con disciplina che precede l’entrata in vigore della Costituzione del 1948, l’attuale assetto di tale procedimento è il risultato anche di atti organizzativi del Consiglio superiore della magistratura, che ha adottato uno schema tipico del procedimento amministrativo. L’assenza di una deliberazione in camera di consiglio e il suo svolgersi, nella fase culminante, in sedute dell’assemblea, nelle quali ciascun componente del Consiglio può intervenire e manifestare, di regola pubblicamente, la propria opinione, e che sono destinate a concludersi con una votazione pubblica, sulla proposta di una commissione referente, imprimono al procedimento connotati non assimilabili all’attività giurisdizionale, come dimostrato anche dal fatto che il provvedimento finale è esternato con decreto del Presidente della Repubblica [rectius: Ministro della Giustizia]. Se queste sono le caratteristiche del procedimento, è da ritenere per esso sufficiente la regola del contraddittorio, nella sua accezione di previa audizione del soggetto interessato, che nel nostro Stato democratico si eleva a principio di tendenziale osservanza in tutti i casi in cui il provvedimento sia suscettibile di incidere su situazioni soggettive. E’ in conformità a tale principio che l’art. 4 del r.d.lgs. n. 511 del 1946 prescrive che dell’avvio del procedimento per trasferimento d’ufficio sia data comunicazione all’interessato e che questi abbia diritto di prendere visione e di estrarre copia degli atti, nonché di essere sentito personalmente. Sulla base di tale scarna previsione legislativa il Consiglio superiore della magistratura, a maggior salvaguardia del magistrato, ha previsto, con atti di organizzazione interna, che egli possa essere assistito da un collega. L’ulteriore eventualità che il magistrato interessato possa scegliere un difensore professionale, avvocato del libero Foro, sebbene non sia impedita dalla formulazione dell’art. 4, non è costituzionalmente imposta e non risponde all’attuale configurazione del procedimento per trasferimento d’ufficio. La previsione di una difesa personale o a mezzo di altro magistrato appare infatti idonea ad assicurare il nucleo minimo di difesa richiesto dall’art. 107, primo comma, della Costituzione nei procedimenti amministrativi che possono approdare al trasferimento d’ufficio. La pienezza della tutela giurisdizionale è assicurata nella fase di giudizio vera e propria che può seguire al procedimento amministrativo in virtù dell’esercizio del diritto di impugnazione spettante al magistrato. E’ infatti questo lo specifico strumento indicato dalla Corte, fin dalla sentenza n. 44 del 1968, come idoneo a realizzare, per gli appartenenti alla magistratura, quella ampiezza di tutela giurisdizionale, coessenziale allo Stato di diritto, nei confronti delle possibili violazioni di legge da parte del Consiglio superiore della magistratura. Si aggiunga che davanti al giudice amministrativo può venire in considerazione non solo la violazione di legge ma anche l’eccesso di potere, il quale, denunciato in alcuna delle sue figure sintomatiche, consente al giudice un penetrante sindacato sul provvedimento di trasferimento di ufficio per incompatibilità ambientale».
In definitiva, anche la Corte Costituzionale, posta la particolare natura dell’istituto volto essenzialmente a garantire il funzionamento dell’amministrazione della Giustizia in un distretto qualora questo sia vulnerato da situazioni che incrinano il rapporto di imparzialità di chi lo esercita ha ritenuto l’istituto non sanzionatorio.
A questo punto si possono trarre le file del discorso: quali rapporti di parentela o amicizia o altro nell’ambito del distretto di Salerno con riferimento all’indagine di cui la procura è competente ex art. 11 c.p.p. rendono applicabile l’istituto del trasferimento ex art. 2 L.G. per come sempre affrontato dal C.S.M. e anche dalla Corte Costituzionale?
2 commenti:
La domanda è pleonastica: nessuno !
Grazie avvocato.
"Essi tuttavia possono, anche senza il loro consenso, essere trasferiti ad altra sede o destinati ad altre funzioni, previo parere del Consiglio superiore della magistratura"
anche se il CSM ha concluso l'istruttoria in tempi record,in maniera assai anomala, senza aver avuto il tempo per giudicare serenamente e con cognizione di causa?(impossibile leggere e vagliare una simile mole di documenti in così breve tempo).
Possibile che i magistrati possano essere sottoposti a un simile trattamento sommario, peraltro incostituzionale, godendo di garanzie inferiori a quelle di cui gode (almeno a livello teorico) qualsiasi cittadino italiano?
Cordiali saluti al Dott. Lima e alla Redazione
non smetterò mai di ringraziarvi per la vostra meritoria opera di informazione
Irene
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