giovedì 1 gennaio 2009

La coscienza a posto: apologo sull’onestà nel Paese dei corrotti


Con riferimento alle domande che tanti si fanno sul “a che serve?”, “ma ne vale la pena?”, iniziamo l’anno nuovo proponendovi uno scritto di Italo Calvino.

Esso è apparso per la prima volta su “La Repubblica” il 15 marzo 1980, ma appare negli appunti dell’archivio Calvino con il titolo “La coscienza a posto”. E’ stato ripubblicato in “Romanzi e racconti” (Meridiani Mondadori, 1994, vol. 3, pp. 290-293) come “La coscienza a posto (Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti)”.




di Italo Calvino


C’era un paese che si reggeva sull’illecito.

Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere.

Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perchè quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente, cioè chiedendoli a chi li aveva in cambio di favori illeciti.

Ossia, chi poteva dar soldi in cambio di favori, in genere già aveva fatto questi soldi mediante favori ottenuti in precedenza; per cui ne risultava un sistema economico in qualche modo circolare e non privo di una sua autonomia.

Nel finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere non era sfiorato da alcun senso di colpa, perchè per la propria morale interna, ciò che era fatto nell’interesse del gruppo era lecito, anzi benemerito, in quanto ogni gruppo identificava il proprio potere col bene comune; l’illegalità formale, quindi, non escludeva una superiore legalità sostanziale.

Vero è che in ogni transazione illecita a favore di entità collettive è usanza che una quota parte resti in mano di singoli individui, come equa ricompensa delle indispensabili prestazioni di procacciamento e mediazione: quindi l’illecito che, per la morale interna del gruppo era lecito, portava con sé una frangia di illecito anche per quella morale.

Ma a guardar bene, il privato che si trovava ad intascare la sua tangente individuale sulla tangente collettiva, era sicuro di aver fatto agire il proprio tornaconto individuale in favore del tornaconto collettivo, cioè poteva, senza ipocrisia, convincersi che la sua condotta era non solo lecita ma benemerita.

Il paese aveva nello stesso tempo anche un dispendioso bilancio ufficiale, alimentato dalle imposte su ogni attività lecita e finanziava lecitamente tutti coloro che lecitamente o illecitamente riuscivano a farsi finanziare.

Poiché in quel paese nessuno era disposto non diciamo a fare bancarotta, ma neppure a rimetterci di suo (e non si vede in nome di che cosa si sarebbe potuto pretendere che qualcuno ci rimettesse), la finanza pubblica serviva ad integrare lecitamente in nome del bene comune i disavanzi delle attività che sempre in nome del bene comune si erano distinte per via illecita.

La riscossione delle tasse, che in altre epoche e civiltà poteva ambire di far leva sul dovere civico, qui ritornava alla sua schietta sostanza di atto di forza (così come in certe località all’esazione da parte dello Stato si aggiungeva quella di organizzazioni gangsteristiche o mafiose), atto di forza cui il contribuente sottostava per evitare guai maggiori, pur provando anziché il sollievo del dovere compiuto, la sensazione sgradevole di una complicità passiva con la cattiva amministrazione della cosa pubblica e con il privilegio delle attività illecite, normalmente esentate da ogni imposta.

Di tanto in tanto, quando meno ce lo si aspettava, un tribunale decideva di applicare le leggi, provocando piccoli terremoti in qualche centro di potere e anche arresti di persone che avevano avuto fino ad allora le loro ragioni per considerarsi impunibili.

In quei casi il sentimento dominante, anziché di soddisfazione per la rivincita della giustizia, era il sospetto che si trattasse di un regolamento di conti di un centro di potere contro un altro centro di potere.

Così che era difficile stabilire se le leggi fossero usabili ormai soltanto come armi tattiche e strategiche nelle guerre tra interessi illeciti oppure se i tribunali per legittimare i loro compiti istituzionali dovessero accreditare l’idea che anche loro erano dei centri di potere e di interessi illeciti come tutti gli altri.

Naturalmente, una tale situazione era propizia anche per le associazioni a delinquere di tipo tradizionale, che coi sequestri di persona e gli svaligiamenti di banche si inserivano come un elemento di imprevedibilità nella giostra dei miliardi, facendone deviare il flusso verso percorsi sotterranei, da cui prima o poi certo riemergevano in mille forme inaspettate di finanza lecita o illecita.

In opposizione al sistema guadagnavano terreno le organizzazioni del terrore che usavano quegli stessi metodi di finanziamento della tradizione fuorilegge e con un ben dosato stillicidio d’ammazzamenti distribuiti tra tutte le categorie di cittadini illustri e oscuri si proponevano come l’unica alternativa globale del sistema.

Ma il loro effetto sul sistema era quello di rafforzarlo fino a diventarne il puntello indispensabile e ne confermavano la convinzione di essere il migliore sistema possibile e di non dover cambiare in nulla.

Così tutte le forme di illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci, si saldavano in un sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza e nel quale moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto.

Avrebbero potuto, dunque, dirsi unanimemente felici gli abitanti di quel paese se non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti.

Erano, costoro, onesti, non per qualche speciale ragione (non potevano richiamarsi a grandi principi, né patriottici, né sociali, né religiosi, che non avevano più corso); erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso, insomma non potevano farci niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno al lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla soddisfazione di altra persone.

In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto, gli onesti erano i soli a farsi sempre gli scrupoli, a chiedersi ogni momento che cosa avrebbero dovuto fare.

Sapevano che fare la morale agli altri, indignarsi, predicare la virtù sono cose che riscuotono troppo facilmente l’approvazione di tutti, in buona o in mala fede.

Il potere non lo trovavano abbastanza interessante per sognarlo per sè (o almeno quel potere che interessava agli altri), non si facevano illusioni che in altri paesi non ci fossero le stesse magagne, anche se tenute più nascoste; in una società migliore non speravano perchè sapevano che il peggio è sempre più probabile.

Dovevano rassegnarsi all’estinzione? No, la loro consolazione era pensare che, così come in margine a tutte le società durate millenni s’era perpetuata una controsocietà di malandrini, tagliaborse, ladruncoli e gabbamondo, una controsocietà che non aveva mai avuto nessuna pretesa di diventare “la” società, ma solo di sopravvivere nelle pieghe della società dominante ed affermare il proprio modo di esistere a dispetto dei principi consacrati, e per questo aveva dato di sé (almeno se vista non troppo da vicino) un’immagine libera, allegra e vitale, così la controsocietà degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli, in margine al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversità, di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo modo magari avrebbe finito per significare qualcosa di essenziale per tutti, per essere immagine di qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo cos’è.



6 commenti:

Anonimo ha detto...

Perfetto, al bacio.


Luciana

Vincenzo Scavello ha detto...

"C'era un Paese ..." chiamato ITALIA?

Grazie alla Redazione per avere "pescato" una pillola del pensiero del grande Calvino, al quale, quando stavamo peggio, non venne impedito di pensarla così come la pensava.

Calvino, Biagi, Montanelli, quanto ci mancate!

Ass. culturale "Il Picchio" ha detto...

Non conoscevo questo pezzo...
Nelle scuole si insegna altro...
Secondo me è colpa dei programmi un pò vecchiotti...
Ma la risposta giusta a questa mia osservazione è in mano ai politici..
Ed è già messa in azione grazie alla legge 133..

Povera Italia...


Grazie mille

Enzo

Anonimo ha detto...

Una breve e banale riflessione, prendendo lo spunto dal titolo dell'articolo.

L'onestà è una parola astratta. Gli uomini, invece, sono persone concrete.

L'onestà, intesa come astrazione di un complesso di comportamenti concreti, risiede o nell'intima natura dell'uomo o nei suoi valori di riferimento.

Gli uomini onesti per natura sono pochi. Più spesso hanno bisogno di essere guidati e di esser sanzionati per non esser disonesti.

Un po' come la "contrizione perfetta" e la "contrizione imperfetta" nel Sacramento della Confessione: la prima discende esclusivamente dal pentimento, la seconda anche dalla paura delle "sanzioni" ultraterrene.

Oggi non esistono più valori condivisi di riferimento, vivendo noi in un paese "laico", vale a dire sostanzialmente agnostico, non solo dal punto di vista religioso, ma anche soltanto morale.

Né esistono in Italia, a differenza di altri paesi agnostici, "sanzioni" efficaci per riportare gli uomini se non al convincimento della necessità di essere onesti, quantomeno ad un concreto comportamento onesto.

Ovvio, pertanto, che l'onestà sia, in Italia, rimessa esclusivamente alla natura di ciascuno.

Con evidenti pessimi risultati, giacché il diritto non serve agli onesti, e neppure ai radicalmente disonesti, ma soltanto a quel 90% di persone che vivono senza infamia e senza lode, e che non compiono reati soltanto per la paura delle sanzioni. Le quali ultime, se mancano, lasciano il campo libero all'iniqua natura dell'imperfetto e debole essere umano, con i risultati che tutti possono vedere.

Cinzia ha detto...

Calvino è un grande narratore e ci racconta una storia che scivola perfettamente sul corpo del nostro paese come potrebbe fare un vestito di raso confezionato ad opera d'arte.
S’indossa benissimo, è cucito per noi.
Ma da maestro dell’arte affabulatoria ama usare il paradosso, mi sembra chiaro che egli non pensa realmente all’onestà come “…abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso …” o come un vizio di natura.
Così come non credo che la strada giusta sia quella di governare la disonestà con la sanzione dell’illecito.
L’onesta è un valore che va vissuto, respirato, inspirato e al fine vive in noi.
E’ una prospettiva completamente diversa, ribaltata direi, quella di vivere ed imparare a vivere in un clima di fiducia e rispetto.
Noi invece veniamo educati all’esatto contrario e fin da piccoli. Com’è possibile crescere profondamente onesti, quando la mala fiducia inizia già in età scolare?!
C’insegnano che nulla di ciò che dovremo usare per anni (la scuola, i banchi, il tempo e lo studio) è nostro, non ce ne affidano la cura e la responsabilità, ma da subito ci educano alla cultura della sanzione. Se rompi qualcosa sei punito, se non fai il compito sei bocciato. Capisci immediatamente che la punizione è un termine di ricatto e non assimili nessun valore profondo.
Io non sono né un’educatrice né una sociologa, ma da un insegnamento del genere mi sembra chiaro che non potrà mai formarsi una persona responsabile.
Nei paesi nord europei la scuola non è strutturata così. In Olanda, un esempio che conosco meglio di altri, la scuola è un edificio pubblico, aperto. Uno spazio che i bambini/ragazzi possono vivere anche fuori delle lezioni, c’è sempre un giardino, una palestra, una biblioteca, spazi attrezzati per la ricerca o per attività ludiche.
Sembra una cosa stupida, solo spazi e servizi che noi non ci possiamo permettere? Io credo che sia molto di più, credo che sia proprio là che nasce e si rafforza il senso dello stato, dell’etica e delle regole comuni, a scuola, non in una scuola che ti ricatta, che s'impone senza condividere, ma in uno spazio vivo che si lascia usare e ti rende libertà.
Ma se i futuri cittadini non sono educati a vivere in armonia gli spazi comuni, se dal tempo dei tempi l’unico sfogo è il campetto della parrocchia (con tutte le sue aberrazioni), che tipo di persone coltiviamo rafforzando sempre il senso del peccato, alimentando inevitabilmente il gusto alla trasgressione, e di contro educando(?) solo alla paura della sanzione/punizione.
Adesso gli spazi comuni sono diventati i centri commerciali, così i futuri consumatori (e non cittadini) passano l’adolescenza a sognare di possedere cose, alcuni le ottengono, altri le hanno già, altri ancora non le avranno mai e probabilmente vivranno nella frustrazione di non avere avuto il coraggio di pretenderle.
Che tristezza.
In ogni caso è "carne da macello".

Non ho fatto un rientro molto ottimista e chiedo perdono, ma il commento dell’anonimo sopra di me, devo confessare che mi ha ispirato, certo più di Calvino, un profondo senso di sconforto per una società che si crede per natura iniqua salvando alcuni eletti … sempre per natura.

Anonimo ha detto...

Cara Cinzia,

Dopo molti giorni torno sull'argomento, avendo letto solo oggi la tua replica, perché non vorrei che ti lasciassi andare allo sconforto o, più semplicemente, alla delusione.

In realtà, credo che l'uomo non sia per natura né buono, né cattivo.

L'uomo è un animale sociale, e vivendo in una società, come tutti gli animali sociali, ha bisogno di regole.

Le stesse regole che seguono, ad esempio, i cani, e che non seguono i gatti.

Il gatto vive essenzialmente da solo. Rispetta una gerarchia "di potenza" con i propri simili, ma non vive, socialmente, con loro. Non che sia del tutto isolato, ma i rapporti interfelini sono molto distaccati. Egli preda da solo, e non divide il cibo con gli altri. Quando due gatti passano per la stessa strada, quello "inferiore" lascia il passo a quello "superiore", per evitare conflitti.

Il cane, invece, vive in un branco, come i lupi, e riconosce un "capobranco", che guida gli altri nella caccia e che dispone per primo del cibo e delle femmine. Allo stesso modo fanno i leoni, unici felini "sociali".

I banali esempi che ho appena citato mostrano una cosa, evidente: che gli animali sociali hanno istintivamente delle regole da osservare.

L'uomo è un animale sociale. La sua complessità comportamentale lo porta ad avere regole più complesse, ma nessuno può pensare di vivere senza regole, confidando soltanto nella natura, come faceva Rousseau, mistificando e inventando il mito del "buon selvaggio" tanto caro ai pittori e agli scrittori della sua epoca.

In realtà, i "buoni selvaggi", apparentemente "liberi", vivevano in un mondo pieno di "tabù", taluni dei quali assurdi ai nostri occhi, che però, qualora violati, comportavano molto spesso la sanzione della morte, anche una morte inflitta atrocemente.

Non credo, in sintesi, che l'uomo sia intrinsecamente cattivo: credo, invece, che la maggior parte degli uomini sia intrinsecamente "normale" e che sia intrinsecamente "sociale", vale a dire che debba avere delle regole da osservare, con sanzioni punitive ma anche premiali.

Perché l'uomo è, essenzialmente, un "animale sociale", e riconosce istintivamente la necessità delle sanzioni.

Leggi "Delitto e Castigo", e troverai espresso in modo molto più efficace quanto intendevo dire.

Ciao.