di Aniello Nappi
(Consigliere della Corte Suprema di Cassazione)
da: Cassazione Penale, Giuffrè, 2007, n. 7/8
Le responsabilità del legislatore per lo stato fallimentare della giustizia sono assai numerose e sono accompagnate da responsabilità di tipo diverso, ma egualmente gravi, dei magistrati.
Cresce per contro l’esigenza di una più forte legittimazione dei giudici che non potrà ricevere una risposta plausibile se non verranno trovate le ragioni di una “solidarietà del corpo dei giuristi”, con il coinvolgimento di magistrati e avvocati in un progetto capace di superare le faziosità corporative.
Sono magistrato da trentacinque anni. E non ricordo un anno, un solo anno, in cui il legislatore non sia intervenuto a riformare il codice di procedura penale o il codice penale, quando non entrambi.
Eppure il fallimento del nostro sistema giudiziario è ormai plateale.
Stiamo addirittura esportando a Strasburgo la nostra inefficienza, con il sovraccarico di giudizi di responsabilità per durata irragionevole del processo.
Ed è prevedibile che presto saranno promossi giudizi di responsabilità per durata irragionevole degli stessi giudizi promossi allo scopo di ottenere appunto l'indennità da durata irragionevole del processo.
In una situazione tanto drammatica era inevitabile che anche l'attuale Ministro della giustizia, come pressoché tutti i suoi predecessori, presentasse un disegno di legge di riforma dei codici penale e di procedura penale, nel dichiarato intento di "accelerare e razionalizzare" il processo penale.
Molto ci sarebbe da dire sui contenuti di gran parte di queste proposte. Ma non è mia intenzione discutere di questi contenuti né sostenere proposte di riforma alternative.
Prenderò in esame solo il primo articolo del disegno di legge, perché mi sembra emblematico dello spirito che anima il nostro legislatore da oltre un trentennio.
Il primo articolo del cosiddetto Disegno di legge Mastella prevede dunque talune “modifiche al codice di procedura penale in tema di competenza”, destinate tra l'altro a consentire un intervento immediato della Corte di cassazione per risolvere in via incidentale le questioni di competenza insorte nel corso dei giudizi di merito.
Sicché, ove questa proposta venisse approvata, la parte che abbia visto disattesa una sua eccezione d'incompetenza dovrà immediatamente impugnare per cassazione l'ordinanza di rigetto, altrimenti non potrà più riproporre la questione.
Ed è facile prevedere che una tale riforma moltiplicherebbe le eccezioni di incompetenza e finirebbe per ingolfare ulteriormente di ricorsi la Corte di cassazione, che già fatica a smaltire in un anno i quasi cinquantamila ricorsi penali; mentre per il settore civile decide oggi i ricorsi proposti nel 2003.
E' vero infatti che la proposta di riforma esclude l'effetto sospensivo del ricorso per incompetenza. Ma chiunque frequenti abitualmente le aule di giustizia sa bene che molto spesso basta assai meno di una questione di competenza per giustificare un rinvio del processo.
E comunque, quand'anche nessun rinvio venisse accordato, rimarrebbe comunque l'effetto disastroso sul lavoro della Corte di cassazione.
Viene quindi da domandarsi quale sia la ragione di un intervento così improvvido.
Ci sarebbe da immaginare che nella relazione illustrativa del disegno di legge si dia conto di una qualche indagine statistica sul numero di processi che regrediscono per annullamenti determinati da dichiarazioni di incompetenza in appello o in cassazione. Ma nella relazione non si rinviene alcuna indicazione al riguardo.
D'altro canto sono certamente più numerosi gli annullamenti con rinvio al giudice di primo grado o a quello dell’udienza preliminare o addirittura con trasmissione degli atti al pubblico ministero, per nullità tempestivamente eccepite e disconosciute.
Perché allora non prevedere anche in questi casi un immediato ricorso per cassazione?
Sicché è ragionevole ipotizzare che a suggerire questa proposta di riforma sia stata la recente sorte di un unico noto processo, finito con una discussa sentenza di annullamento per incompetenza pronunciata dalla Corte di cassazione.
E in realtà, fatta eccezione per pochi significativi casi, è questo l'orizzonte proprio della maggior parte degli interventi di riforma che si sono succeduti negli ultimi trentacinque anni, spesso adottati con decreti legge destinati a far fronte a esigenze contingenti, secondo un'agenda imposta dalla cronaca giudiziaria o comunque dall'affanno di rimediare a presunti errori.
Come nel caso della legge n. 773 del 1972, che, nell'apportare già allora "modificazioni al codice di procedura penale al fine di accelerare e semplificare i procedimenti", ammise la libertà provvisoria anche quando il mandato di cattura fosse obbligatorio.
E come nel caso del d.l. n. 104 del 1974, che modificò l'art. 538 c.p.p., sui poteri di decisione della Suprema Corte, per rendere possibile l'immediata applicazione anche in cassazione della modifica apportata dal D.L. n. 99 del 1974 all'art. 69 c.p..
Per non parlare poi dei circa settanta provvedimenti, tra decreti legge e decreti le-gislativi e leggi, che hanno incessantemente sottoposto a modifiche il codice di procedura penale del 1989 nei suoi soli diciotto anni di vita tormentata.
Non s'è ancora compreso dunque che la giurisdizione esige parametri di valutazione tendenzialmente stabili.
Ed è in questa incredibile miopia politica, in questa mancanza di progetti seri e forti la ragione del fallimento del nostro sistema giudiziario.
Non v'è alcun dubbio che lo stato della giustizia sarebbe oggi ben migliore, se il nostro legislatore fosse stato meno freneticamente attivo, se ci si fosse affidati all'opera lenta ma più meditata della giurisprudenza.
Tuttavia è troppo comodo attribuire solo alla classe politica la responsabilità di questo fallimento.
Noi magistrati ne siamo certamente corresponsabili, quantomeno per l'incapacità di organizzare adeguatamente gli uffici, come ne è corresponsabile l'intera cultura giuridica italiana.
Come ha denunciato anche Eugenio Scalfari in un suo recente editoriale, è l'intera classe dirigente del nostro Paese a essersi rivelata inadeguata. Lo dimostra del resto la vicenda della rinata Fiat.
Il nostro è un paese nel quale, salvo eccezioni, i docenti universitari smettono di scrivere monografie appena vinto il concorso da ordinario.
Il nostro è un paese nel quale è raro vedere represse dagli ordini professionali scorrettezze anche gravi degli avvocati.
Il nostro è un paese nel quale i principali, se non esclusivi, criteri di selezione dei magistrati sono l'anzianità e l'appartenenza all'una piuttosto che all'altra corrente associativa.
Ed è di noi magistrati che voglio più specificamente parlare. Perché sarebbe bene che ciascuna corporazione cominciasse a considerare le proprie responsabilità, oltre quelle altrui.
E perché nella quasi totalità dei casi sono magistrati coloro che suggeriscono le riforme e redigono i testi normativi, salvo poi criticarli quando sono entrati in vigore.
Com'è accaduto ad esempio per la recente riforma del giudizio civile di cassazione, redatta in gran parte da consiglieri della Corte, approvata all'unanimità in un'assemblea appositamente convocata, ma sottoposta a feroci critiche nel primo convegno organizzato per discuterne l'applicazione.
La faziosità è una connotazione peculiare degli italiani.
E come ha ben argomentato Michele Salvati, è probabilmente all'origine del nostro deficit di classe dirigente.
Ma per quanto riguarda le nostre responsabilità di magistrati, non è solo una questione di selezione degli uomini. E' anche e più radicalmente una questione di cultura di ceto.
Tra gli anni sessanta e gli anni settanta la magistratura associata poté esprimere nel nostro Paese un progetto di emancipazione politica e culturale di portata generale, perché affermava un'esigenza di mobilità sociale, quindi di democrazia e di eguaglianza.
Oggi l'associazione magistrati è ridotta a un piccolo sindacato di categoria, che recita stancamente i principi di indipendenza e di autonomia, senza nulla proporre per farli valere nella concretezza dei rapporti sociali.
Come ha ricordato Stefano Rodotà in un recente convegno tenuto presso la Corte di cassazione, il ruolo della giurisprudenza si afferma oggi in una dimensione anche sovranazionale, tanto che si parla di “globalizzazione giudiziaria”.
Cresce perciò l'esigenza di una più forte legittimazione dei giudici, cui non sarà possibile offrire una risposta plausibile, se non si riuscirà a trovare anche nel nostro Paese le ragioni di una “solidarietà del corpo dei giuristi”.
Ed è questo l'orizzonte progettuale sul quale la magistratura può tornare a offrire un contributo di emancipazione sociale.
Occorre promuovere un'associazione che coinvolga magistrati e avvocati in un progetto capace di superare le faziosità corporative, in una visione unitaria delle esigenze effettive della giustizia.
Ma non deve trattarsi solo di un'associazione culturale.
Occorre promuovere un'associazione che, almeno in prospettiva, possa esprimere propri candidati al Consiglio superiore della magistratura, ai consigli giudiziari, al Consiglio nazionale forense e ai consigli dell’ordine, che si ponga come interlocutore del ceto politico, che sappia rappresentare come davvero imparziali di fronte all'opinione pubblica le soluzioni indispensabili per problemi rimasti immutati nei decenni.
Piuttosto che continuare a esercitarci nell'ultratrentennale confronto su inutili proposte di “accelerazione” dei tempi della giustizia, è urgente dunque che ci si impegni per creare le condizioni politiche perché una seria riforma della giustizia sia effettivamente realizzata.
(Consigliere della Corte Suprema di Cassazione)
da: Cassazione Penale, Giuffrè, 2007, n. 7/8
Le responsabilità del legislatore per lo stato fallimentare della giustizia sono assai numerose e sono accompagnate da responsabilità di tipo diverso, ma egualmente gravi, dei magistrati.
Cresce per contro l’esigenza di una più forte legittimazione dei giudici che non potrà ricevere una risposta plausibile se non verranno trovate le ragioni di una “solidarietà del corpo dei giuristi”, con il coinvolgimento di magistrati e avvocati in un progetto capace di superare le faziosità corporative.
Sono magistrato da trentacinque anni. E non ricordo un anno, un solo anno, in cui il legislatore non sia intervenuto a riformare il codice di procedura penale o il codice penale, quando non entrambi.
Eppure il fallimento del nostro sistema giudiziario è ormai plateale.
Stiamo addirittura esportando a Strasburgo la nostra inefficienza, con il sovraccarico di giudizi di responsabilità per durata irragionevole del processo.
Ed è prevedibile che presto saranno promossi giudizi di responsabilità per durata irragionevole degli stessi giudizi promossi allo scopo di ottenere appunto l'indennità da durata irragionevole del processo.
In una situazione tanto drammatica era inevitabile che anche l'attuale Ministro della giustizia, come pressoché tutti i suoi predecessori, presentasse un disegno di legge di riforma dei codici penale e di procedura penale, nel dichiarato intento di "accelerare e razionalizzare" il processo penale.
Molto ci sarebbe da dire sui contenuti di gran parte di queste proposte. Ma non è mia intenzione discutere di questi contenuti né sostenere proposte di riforma alternative.
Prenderò in esame solo il primo articolo del disegno di legge, perché mi sembra emblematico dello spirito che anima il nostro legislatore da oltre un trentennio.
Il primo articolo del cosiddetto Disegno di legge Mastella prevede dunque talune “modifiche al codice di procedura penale in tema di competenza”, destinate tra l'altro a consentire un intervento immediato della Corte di cassazione per risolvere in via incidentale le questioni di competenza insorte nel corso dei giudizi di merito.
Sicché, ove questa proposta venisse approvata, la parte che abbia visto disattesa una sua eccezione d'incompetenza dovrà immediatamente impugnare per cassazione l'ordinanza di rigetto, altrimenti non potrà più riproporre la questione.
Ed è facile prevedere che una tale riforma moltiplicherebbe le eccezioni di incompetenza e finirebbe per ingolfare ulteriormente di ricorsi la Corte di cassazione, che già fatica a smaltire in un anno i quasi cinquantamila ricorsi penali; mentre per il settore civile decide oggi i ricorsi proposti nel 2003.
E' vero infatti che la proposta di riforma esclude l'effetto sospensivo del ricorso per incompetenza. Ma chiunque frequenti abitualmente le aule di giustizia sa bene che molto spesso basta assai meno di una questione di competenza per giustificare un rinvio del processo.
E comunque, quand'anche nessun rinvio venisse accordato, rimarrebbe comunque l'effetto disastroso sul lavoro della Corte di cassazione.
Viene quindi da domandarsi quale sia la ragione di un intervento così improvvido.
Ci sarebbe da immaginare che nella relazione illustrativa del disegno di legge si dia conto di una qualche indagine statistica sul numero di processi che regrediscono per annullamenti determinati da dichiarazioni di incompetenza in appello o in cassazione. Ma nella relazione non si rinviene alcuna indicazione al riguardo.
D'altro canto sono certamente più numerosi gli annullamenti con rinvio al giudice di primo grado o a quello dell’udienza preliminare o addirittura con trasmissione degli atti al pubblico ministero, per nullità tempestivamente eccepite e disconosciute.
Perché allora non prevedere anche in questi casi un immediato ricorso per cassazione?
Sicché è ragionevole ipotizzare che a suggerire questa proposta di riforma sia stata la recente sorte di un unico noto processo, finito con una discussa sentenza di annullamento per incompetenza pronunciata dalla Corte di cassazione.
E in realtà, fatta eccezione per pochi significativi casi, è questo l'orizzonte proprio della maggior parte degli interventi di riforma che si sono succeduti negli ultimi trentacinque anni, spesso adottati con decreti legge destinati a far fronte a esigenze contingenti, secondo un'agenda imposta dalla cronaca giudiziaria o comunque dall'affanno di rimediare a presunti errori.
Come nel caso della legge n. 773 del 1972, che, nell'apportare già allora "modificazioni al codice di procedura penale al fine di accelerare e semplificare i procedimenti", ammise la libertà provvisoria anche quando il mandato di cattura fosse obbligatorio.
E come nel caso del d.l. n. 104 del 1974, che modificò l'art. 538 c.p.p., sui poteri di decisione della Suprema Corte, per rendere possibile l'immediata applicazione anche in cassazione della modifica apportata dal D.L. n. 99 del 1974 all'art. 69 c.p..
Per non parlare poi dei circa settanta provvedimenti, tra decreti legge e decreti le-gislativi e leggi, che hanno incessantemente sottoposto a modifiche il codice di procedura penale del 1989 nei suoi soli diciotto anni di vita tormentata.
Non s'è ancora compreso dunque che la giurisdizione esige parametri di valutazione tendenzialmente stabili.
Ed è in questa incredibile miopia politica, in questa mancanza di progetti seri e forti la ragione del fallimento del nostro sistema giudiziario.
Non v'è alcun dubbio che lo stato della giustizia sarebbe oggi ben migliore, se il nostro legislatore fosse stato meno freneticamente attivo, se ci si fosse affidati all'opera lenta ma più meditata della giurisprudenza.
Tuttavia è troppo comodo attribuire solo alla classe politica la responsabilità di questo fallimento.
Noi magistrati ne siamo certamente corresponsabili, quantomeno per l'incapacità di organizzare adeguatamente gli uffici, come ne è corresponsabile l'intera cultura giuridica italiana.
Come ha denunciato anche Eugenio Scalfari in un suo recente editoriale, è l'intera classe dirigente del nostro Paese a essersi rivelata inadeguata. Lo dimostra del resto la vicenda della rinata Fiat.
Il nostro è un paese nel quale, salvo eccezioni, i docenti universitari smettono di scrivere monografie appena vinto il concorso da ordinario.
Il nostro è un paese nel quale è raro vedere represse dagli ordini professionali scorrettezze anche gravi degli avvocati.
Il nostro è un paese nel quale i principali, se non esclusivi, criteri di selezione dei magistrati sono l'anzianità e l'appartenenza all'una piuttosto che all'altra corrente associativa.
Ed è di noi magistrati che voglio più specificamente parlare. Perché sarebbe bene che ciascuna corporazione cominciasse a considerare le proprie responsabilità, oltre quelle altrui.
E perché nella quasi totalità dei casi sono magistrati coloro che suggeriscono le riforme e redigono i testi normativi, salvo poi criticarli quando sono entrati in vigore.
Com'è accaduto ad esempio per la recente riforma del giudizio civile di cassazione, redatta in gran parte da consiglieri della Corte, approvata all'unanimità in un'assemblea appositamente convocata, ma sottoposta a feroci critiche nel primo convegno organizzato per discuterne l'applicazione.
La faziosità è una connotazione peculiare degli italiani.
E come ha ben argomentato Michele Salvati, è probabilmente all'origine del nostro deficit di classe dirigente.
Ma per quanto riguarda le nostre responsabilità di magistrati, non è solo una questione di selezione degli uomini. E' anche e più radicalmente una questione di cultura di ceto.
Tra gli anni sessanta e gli anni settanta la magistratura associata poté esprimere nel nostro Paese un progetto di emancipazione politica e culturale di portata generale, perché affermava un'esigenza di mobilità sociale, quindi di democrazia e di eguaglianza.
Oggi l'associazione magistrati è ridotta a un piccolo sindacato di categoria, che recita stancamente i principi di indipendenza e di autonomia, senza nulla proporre per farli valere nella concretezza dei rapporti sociali.
Come ha ricordato Stefano Rodotà in un recente convegno tenuto presso la Corte di cassazione, il ruolo della giurisprudenza si afferma oggi in una dimensione anche sovranazionale, tanto che si parla di “globalizzazione giudiziaria”.
Cresce perciò l'esigenza di una più forte legittimazione dei giudici, cui non sarà possibile offrire una risposta plausibile, se non si riuscirà a trovare anche nel nostro Paese le ragioni di una “solidarietà del corpo dei giuristi”.
Ed è questo l'orizzonte progettuale sul quale la magistratura può tornare a offrire un contributo di emancipazione sociale.
Occorre promuovere un'associazione che coinvolga magistrati e avvocati in un progetto capace di superare le faziosità corporative, in una visione unitaria delle esigenze effettive della giustizia.
Ma non deve trattarsi solo di un'associazione culturale.
Occorre promuovere un'associazione che, almeno in prospettiva, possa esprimere propri candidati al Consiglio superiore della magistratura, ai consigli giudiziari, al Consiglio nazionale forense e ai consigli dell’ordine, che si ponga come interlocutore del ceto politico, che sappia rappresentare come davvero imparziali di fronte all'opinione pubblica le soluzioni indispensabili per problemi rimasti immutati nei decenni.
Piuttosto che continuare a esercitarci nell'ultratrentennale confronto su inutili proposte di “accelerazione” dei tempi della giustizia, è urgente dunque che ci si impegni per creare le condizioni politiche perché una seria riforma della giustizia sia effettivamente realizzata.
2 commenti:
Il nostro è un paese che permette a certi personaggi, come Mastella e altri in passato, di poter mettere mano in queste faccende. Se questo capita, e sta capitando, beh, io normale cittadino, da anni mi dico: "si salvi chi può".
Paesaggi meravigliosi,monumenti meravigliosi sono le caratteristiche di un paese splendido come il nostro. I problemi non sono questi,sono ben altri. Politici corrotti,vicini alla mafia, che preferiscono assecondarla anziché distruggerla;sono persone che non sentono un’appartenenza,che non si sentono Italiani,che non sanno il loro Inno Nazionale. Ma invece di pensare ognuno a se stesso,agiamo insieme,cerchiamo di sconfiggerli questi problemi,di fai rinascere uno stato forte,dove la gente si aiuta non si inganna a vicenda. Non voglio più sentire i miei coetanei che dicono di voler fuggire dall’Italia perché qui non si può avere un futuro. Non è giusto,non è giusto ne per noi ne per tutti coloro che hanno cercato di salvarlo il nostro Bel Paese. Recentemente ho inviato una lettera al presidente della camera dei deputati,avevo visto una sua intervista su Rai Uno e mi era piaciuto come aveva risposto alla domanda di un ragazzo quando gli ha chiesto cosa bisognerebbe fare per cercare il proprio futuro in Italia. Non mi ha risposto. Sono rimasta delusa,ma non mollo,avrei certo voluto una sua risposta per sapere cosa pensasse delle cose che avevo scritto,ma non mi importa,evidentemente avrò detto troppo la verità. Ciò che voglio far capire a coloro che magari leggeranno il mio commento è che dobbiamo farci forza perché noi giovani siamo il futuro del nostro paese,cerchiamo di non sentirci uniti solo durante le partite della Nazionale,ma anche in periodi come questi,quando,cioè,stiamo indietreggiando invece di progredire. Per quanto riguarda il sistema scolastico siamo 36 e avevamo il migliore,per il modo civile di vivere non ho parole. Vivo a Roma e non c’è una via in cui non ci siano macchine parcheggiate in seconda fila(frutto dell’egoismo delle persone,che non pensano al bene comune,ma al proprio,ovvero a parcheggiare la loro macchina e non che ci possono essere altre 1000 persone che non sanno dove parcheggiare ma che comunque trovano una parcheggio regolare). L’educazione,parola penso sconosciuta a parecchie persone,è un optional per molti. Se si entra in un bar si possono trovare le persone gentili alle quali se chiedi di poter andare in bagno ti rispondono gentilmente di si,ma ci sono i casi negativi,ovviamente,se entri in un bar e trovi uno di questi casi negativi allora sei praticamente buttato fuori dal bar a meno che però non consumi qualcosa,allora in quel caso dopo che hai pagato il bagno lo puoi utilizzare. Io penso che sia una vergogna. Non voglio nemmeno immaginare cosa pensino i turisti che entrano chiedendo gentilmente di usarlo dopo un’intera giornata di cammino. Ma di gente ce n’è pure di onesta,naturalmente,non si nota,perché nell’insieme di tutti i disastri che succedono continuamente la gente tranquilla,razionale,non si nota. Persone che hanno degli ideali che magari già lavorano,rispettando le leggi,o che magari studiano. Se studiano allora hanno delle ambizioni,una delle più diffuse è scappare all’estero. Comunque anche se in questo momento i problemi sono moltissimi continuo ad avere fiducia perché so,sono più che certa,che presto riusciremo a riprenderci,tutti insieme.
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